A volte capita che le cose sfuggano, del resto la quantità di informazioni e opinioni da cui siamo quotidianamente bombardati è soverchiante. Però poi magari ci si torna su, per caso o perché qualcuno più attento lo fa notare.
E’ il caso della lettura che vi consiglio oggi, nel solco della tradizione di questo blog, che vuole che nei week end ci si dedichi a leggere qualcosa di non necessariamente attinente alle consuete discussioni, o comunque qualcosa gegerato totalmente fuori dalle nostre pagine.
E’ un articolo piuttosto lungo che ho trovato molto interessante ed istruttivo che mi è stato segnalato da Fabrizio Giudici, un nostro assiduo lettore e non solo. Si parla dell’evoluzione dell’approccio del mondo della comunicazione – di una parte importante di esso – noto come ‘data journalism’, ovvero in modo molto sbrigativo perché l’approfondimento lo lascio al testo, all’analisi di grandi quantità di dati allo scopo di ricavarne delle informazioni altrimenti non diversamente disponibili. Quale il rischio? Quello di perdere, come in effetti spesso accade, di tralasciare un fattore importantissimo, quello della relazione causale, del perché succedono le cose, a prescindere dal fatto che succedono.
Come vedete – e leggerete – c’è ampio spazio di riflessione anche in ordine alla deriva univocamente modellistica che hanno preso tanto la ricerca, quanto la divulgazione in materia di clima negli ultimi anni. Sicché, non siamo poi così tanto fuori tema.
Lo trovate qui, uscito lo scorso aprile sul Foglio con la firma di Mattia Ferrari.
Perfettamente d’accordocon Salvatore: i modelli e le misure sperimentali sono sempre degli “strumenti” per le nostre ricerche che devono procedere di pari passo, trovando l’uno la “conferma” nell’altro.
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Il modello infatti è uno schema semplificato di una realtà troppo complessa che ci consente di prevedere un particolare fenomeno e, quindi, avere dei dati da confrontare, però, con i dati reali. Se i dati reali sono confrontabili con quelli modellati, nei margini dell’incertezza di modelli e misure, allora il modello può essere utilizzato per rappresentare la realtà.
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Se progetto una struttura, utilizzo un modello matematico di quella struttura e dimensiono le membrature strutturali sulla base di questo modello. I risultati devono essere verificati, però, mediante l’analisi del comportamento reale della struttura e, in caso di differenza di comportamento tra il modello e la realtà, modificare il modello.
Nel mio campo si può, fortuntamente, intervenire anche sulla realtà per adeguarla al modello qualora il comportamento reale della struttura sia diverso da quello ipotizzato a priori, ma, purtroppo, non è sempre così.
Una volta (fortunatamente una sola volta in trenta anni di attività e su centinaia di casi) mi è capitato di dover intervenire a posteriori su di una struttura che si è comportata diversamente dal modello. Un errore in fase esecutiva ha determinato un comportamento della struttura diverso da quello modellato per cui ho dovuto modificare la struttura reale per adeguarla a quella modellata: ho potuto farlo in quanto l’intervento non era eccessivamente oneroso, in caso contrario avrei dovuto demolire tutto.
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Che succede, però, se non posso modificare la realtà per adeguarla al modello? Mi sa che l’unica soluzione sia quella di modificare, perfezionandolo, il modello.
In questo mi riconosco nel riccio, nella necessità di validare l’output del modello in base alle osservazioni reali verificando, in tal modo, un’ipotesi, una teoria.
Non escludo che dai risultati di un’elaborazione modellistica possa derivare una teoria, un’ipotesi: essa va validata, però, sempre attraverso il confronto con la realtà.
Sono quindi dell’avviso che non sia possibile limitarsi ad accettare in maniera acritica o perché “inspiegabile” un output modellistico solo perché rappresenta, in quel particolare momento storico, la realtà. Fare ciò, secondo me, corrisponde ad un atto di fede, ad accettare un miracolo. E’ fede, non più scienza o filosofia.
Ciao, Donato.
Assolutamente ricci. Tuttavia una certa riflessione deve essere fatta sul processo cognitivo dello scienziato. Egli, prima di procedere per esperimenti , anche con processo puramente mentale, analizza molti dati: esperimenti condotti, fenomeni, esperienze. Non sono big data, forse dati e metadati. Insomma , Galileo prima di gettare le basi della teoria del moto dei gravi, avrà pure osservato qualche decina, se non centinaio , di sfere lanciate. O no ? Direi che la scienza di oggi dovrebbe vedere la collaborazione di ricci e volpi.
Salve,
nella mia attività di ricerca utilizzo un modello che mi consente di stimare l’effetto radiativo dell’aerosol atmosferico, quindi in parole più semplici l’effetto sul clima del famoso particolato. I risultati ottenuti dal modello come il forcing radiativo dell’aerosol vengono sempre confrontati con i valori sperimentali che derivano dalle misure dei flussi radiativi effettuate con degli strumenti chiamati radiometri. Questo è per dire che secondo me i modelli e le misure sperimentali sono sempre degli “strumenti” per le nostre ricerche che devono procedere di pari passo, trovando l’uno la “conferma” nell’altro. Caro col. Guidi, lei ci può spiegare meglio di tutti noi come i modelli che vi consentono di effettuare le previsioni meteo siano strettamente legati alle misure sperimentali… Ormai i modelli sono ovunque e francamente pretendere di misurare tutto è impensabile, ma se un modello è sempre vicino ai risultati reali perché non utilizzarlo?
Gentile Salvatore, fai bene ad utilizzare i modelli, e gli scienziati fanno bene ad utilizzarli e migliorarli. Chi critica, come me, non intende “fermare” o “impedire” questo, assolutamente, ma al contrario, vuole che questi modelli siano migliorati e sviluppati.
Quello che ci critica è che ci si presenti questi modelli come qualcosa di maturo e affidabile.
No, they’re in progress. Stanno lavorando per noi, ok; hanno dei problemi, ok, è normale; ma non ci vengano a raccontare che il futuro sarà quello che ci raccontano (ora); non ancora; un po’ di umiltà, che ci vuole in chi non ha ancora una visione completa e matura del sistema. Volete tempo ? Ok, è giusto. Volete provare ? Ok, è legittimo. Ma non venite a condizionare la nostra vita con strumenti che non sono stati ancora perfezionati, ma sono in fase di sviluppo. Proviamo insieme a usarli senza pretendere ancora che ci diano subito quello che non ci possono ancora dare.
Questo è il senso delle mie critiche.
Ho letto con un certo interesse e con molta curiosità l’articolo citato e devo dire con non poche difficoltà di comprensione. A mio avviso, il pezzo è esageratamente complicato in proporzione ai contenuti che si volevano esprimere, e che sostanzialmente, se non ho capito male, propongono nuovi paradigmi di intendere i processi scientifici e i dati. Premesso che personalmente la scienza attuale mi piace così com’è, con tutti i suoi difetti, per carità, ma non vedo molte alternative, leggendo l’articolo mi sono subito venuti dei sospetti. Vuoi vedere che la giornalista, il mitico Nate Silver e l’accondiscendente Leon Wieseltier, purtroppo per loro, non hanno le idee molto chiare su cosa sia la scienza e su come funzioni? Wikipedia ha sciolto i miei dubbi in un momento. Io sono d’accordo con Donato, come praticamente sempre del resto, e anche con le obiezioni del buon Paul Krugman. Purtroppo capire bene la scienza non è un gioco da ragazzi, occorre tanto lavoro, quantomeno una laurea in una disciplina scientifica, e poi tentare di masticarla quotidianamente. La scienza non è soltanto un raccoglitore di informazioni (tra l’altro le più obiettive che ci sono in giro) ma è soprattutto un metodo, di analisi, di approccio, di ragionamento. È per questo che dovremmo, come istituzioni, renderla accessibile come solida base culturale a tutti. Questa è la mia opinione. Saluto sempre tutti cordialmente.
Articolo molto interessante quello segnalato da G. Guidi. Offre uno spaccato impietoso di un modo di pensare il mondo di oggi piuttosto discutibile.
Personalmente mi riconosco nel riccio e non nella volpe: il principio di causalità è per me sacrosanto e rappresenta uno dei baluardi tra la scienza e l’oscurantismo.
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Dei big data e del data mining possiamo dire ciò che vogliamo, ma il buon vecchio metodo scientifico (osservazione, raccolta dei dati, formulazione dell’ipotesi, VERIFICA SPERIMENTALE dell’ipotesi, legge scientifica) resta, secondo me, l’unico e solo metodo di avanzamento della scienza e della conoscenza.
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Il modello non potrà mai essere il surrogato della verifica sperimentale, non potrà mai essere il metodo per validare un’ipotesi. Nella fattispecie illustrata dall’articolo l’ipotesi, la teoria, sono addirittura superflue: se il modello è in grado di discernere il segnale dal rumore va bene lo stesso, l’importante è che rappresenti il mondo. Viene meno, però, l’aspetto più importante della ricerca. Manca la risposta all’interrogativo umano per eccellenza: perché?
La necessità di rispondere a questo interrogativo ha fatto nascere la filosofia e la scienza, è stato il motore che ci ha condotto dallo stato di animali che subiscono il mondo a quello di esseri in grado di autodeterminarsi. Per qualcuno ciò non è stato un fatto positivo, per me, invece, è stato un fatto fondamentale nella nostra evoluzione. Rinunciare a capire il perché delle cose, equivale a regredire al livello pre-umano.
Ciao, Donato.
Ho girato l’articolo a Guido (dopo averlo recuperato grazie ad un post recente di Vietti che lo linkava) perché ci ho visto una spiegazione ad un fenomeno qui già discusso e che, sinora, mi spiegavo in altro modo.
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Il fenomeno è il “modellismo” di cui soffre la climatologia: se uno ha fatto un modello, meglio ancora, se c’è una “media dei modelli” che pare indicare un trend, quella è già una previsione del futuro e chissenefrega se non c’è verifica sperimentale. Sinora pensavo che fosse un semplice effetto del paraculismo di chi è preso dalla febbre della competizione scientifica e vuole vincere barando, magari pure godendosi annessi e connessi della vittoria come finanziamenti per il proprio dipartimento. Non sarebbe affatto un fenomeno nuovo, c’è sempre stato, diciamo che viviamo in un’epoca dove è quantitativamente più forte.
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Ora invece mi rendo conto che questo può essere un fenomeno qualitativamente diverso, un vero e proprio trend culturale: le correlazioni di dati sono l’unica cosa importante (peccato che poi manchi il verso della relazione di casualità, ma chissenefrega, si sceglie quello più conveniente) e chissenefrega della spiegazione. E questa è solo la punta dell’iceberg…