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Produzione agricola e Global Warming

Nel loro articolo “Getting caught with our plants down: the risks of a global crop yield slowdown from climate” David B Lobell e Claudia Tebaldi affermano che i trend produttivi globali di frumento e mais nelle prossime due decadi saranno soggetti ad un accresciuto rischio climatico indotto dall’AGW e messo in evidenza dagli autori con l’uso di dati da modelli climatici globali (GCM). L’articolo uscito sulla rivista internazionale Environmental research Letters è disponibile gratuitamente qui e rimando allo stesso i lettori per approfondirne presupposti, metodologia e risultati.

In questa sede mi limito a rilevare che a mio parere l’approccio adottato da Tebaldi e Lobell trascura due elementi chiave:

  1. le piante vivono sul nostro pianeta da milioni di anni e quindi sono adattabili ad una vastissima gamma di condizioni ambientali
  2. l’attività agricola è svolta da miliardi di agricoltori che possono prendere le loro decisioni di business molto più velocemente rispetto ad una qualunque industria o burocrazia statale.

Questi due fatti rendono il sistema agricolo estremamente adattabile rispetto ai cambiamenti climatici, con strategie di adattamento che seguono tre percorsi principali:

  1. Le piante reagiscono in modo non lineare alle variabili ambientali e più specificamente alle variazioni di temperatura (contrariamente a quanto suggerito dagli autori che hanno affrontato il problema adottando un approccio lineare del tipo più temperatura – meno produzione).
  2. Se il clima cambia gli agricoltori possono cambiare le loro colture molto rapidamente (ad esempio passando dal mais al grano o dal grano al riso). A tale proposito gli autori (ahimè) scrivono che “One assumption of the current analysis is that major adaptation to climate change does not occur over the next 20 years. Although further study may prove otherwise, we do not anticipate adaptation being fast enough to significantly alter the near-term risks estimated in this paper”. In altri termini gli autori negano che in 20 anni gli agricoltori possano cambiare in modo significativo il loro modo di produrre, il che alla luce della mia esperienza mi pare del tutto insensato, come attesta ad esempio il fatto che a seguito dell’annata caldo – arida 2003, in cui grandi estensioni di mais nel Nord Italia erano state danneggiate dalla carenza di acqua irrigua, molti agricoltori nel 2004 passarono da mais a frumento, salvo poi ritornare di nuovo a mais negli anni successivi quando si avvidero che l’annata 2003 era stata a tutti gli effetti un unicum.
  3. Analogamente se il clima cambia gli agricoltori possono cambiare le loro varietà molto rapidamente, adottando le più adatte per il nuovo clima. Così se la lunghezza della stagione di crescita aumenta, gli agricoltori sceglieranno varietà a ciclo più lungo con un significativo incremento di rendimento. In tal senso mi limito al caso del mais, per il quale disponiamo oggi di un parco varietale che spazia dalle varietà precocissime di classe 100 con periodo emergenza-maturazione di 80 giorni alle varietà extra-tardive di classe 800 con periodo di emergenza- maturazione di 140 giorni). Anche questi cambiamenti sono rapidissimi nel senso che gli agricoltori non sono burocrati ma imprenditori che rischiano sula propria pelle e che se vogliono sopravvivere e prosperare debbono modificare le loro scelte in modo più che mai rapido ed efficace.

 

Fig_1
Figura 1 – Produzione unitaria mondiale (t/ha) di quattro fra le principali colture (fonte: Faostat – http://faostat3.fao.org/faostat-gateway/go/to/download/Q/QC/E)

Queste strategie di adattamento (ben note a molti scienziati, perché poste in atto dall’umanità fin dalla nascita dell’agricoltura, circa 10000 anni fa) giustificano il fenomeno per cui, nonostante l’AGW secondo l’IPCC sia al lavoro da decenni danneggiando le attività umane, le statistiche della FAO (figura 1 e figura 2) mostrano il persistere di un robusto trend produttivo globale positivo per le quattro principali colture da cui dipende la sicurezza alimentare globale (grano, mais, riso, soia).

Ovviamente, la plasticità del sistema agricolo dovrebbe essere promossa con politiche adeguate e dunque sia stimolando i percorsi di adattamento di cui sopra sia favorendo la ricerca a sviluppare varietà adatte al clima che cambia (al riguardo si noti che il potenziale di adattamento presente nei geni delle piante coltivate è enorme ed in gran parte inesplorato). In questo senso, le tecniche di ingegneria genetica sono uno strumento estremamente potente che dovrebbe essere sfruttato al meglio.

In un tale contesto ricordo infine che la concorrenza dei biocarburanti con la produzione di cibo dovrebbe essere valutata assai più attentamente di quanto non si faccia oggi, perché il sistema sarà anche molto robusto rispetto al cambiamento climatico ma è estremamente sensibile a scelte che, fatte in nome del salvataggio del pianeta, distolgono cibo dall’uso alimentare per farne altri usi. Diverso sarebbe se, mettendo in campo varietà assai più produttive di quelle attuali, potessimo da un lato coprire appieno le esigenze di cibo dell’umanità e dall’altro utilizzare le eccedenze in luogo degli idrocarburi di origine fossile per produrre biocarburanti, materie plastiche, materiali da costruzione, ecc. Questa strategia, che a mio avviso rappresenterebbe un grosso passo avanti verso la stabilizzazione dei livelli atmosferici di CO2, richiederebbe tuttavia lungimiranza e investimenti coraggiosi in tecnologie agricole innovative (OGM in primis).

En passant segnalo infine che gli autori persistono nel dar credito pressoché incondizionato agli output termici dei GCM, il che, alla luce del fatto che i GCM continuano ad ignorare la stasi nel global warming in atto ormai dal 1998, mi pare un po’ come continuare a puntare su uno stesso numero alla roulette nell’attesa, per ora vana, che prima o poi questo esca.

Fig_2
Figura 2 – Produzione procapite mondiale (kg/essere umano) di mais+soia+frumento+riso. La stazionarietà registrata fra il 1985 ed il 2003 è frutto delle politiche di contenimento delle rese messi in atto da moltissimi stati per contrastare le eccedenze produttive (fonte: elaborazioni su dati Faostat – http://faostat3.fao.org/faostat-gateway/go/to/download/Q/QC/E).

 

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Published inAttualità

2 Comments

  1. flavio

    ottimo discorso…che però va calato nella realtà
    ed emergono almeno tre pecche

    1 praticamente tutte le piante che coltiviamo non sono quelle che “vivono sul nostro pianeta da milioni di anni”, ma millenni di agricoltura hanno prodotto ibridi, innesti, piante poliploidi e chissà che altro (da infinitamente prima dell’invenzione dell’ingegneria genetica) per cui hanno ben poco in comune, fra cui certamente non l’adattabilità
    2 molto spesso gli agricoltori NON possono cambiare le loro colture per tutta una serie di motivi, dalla religione ai vari incentivi governativi
    3 ancora più spesso i consumatori NON intendono cambiare quel che mangiano

    per cui non importa se un’altra varietà della stessa coltura permetta magari di fare due raccolti l’anno producendo anche più del doppio di quella tradizionale, la difesa delle tradizioni, dell’ambiente, del popolo dalle multinazionali, e chi più ne ha più ne metta, impone di coltivare male, produrre poco e andare in televisione a sbraitare contro l’1% più ricco del mondo, cui bisogna espropriare tutto

    giammai “il popolo illuminato dell’occidente”, quello con la pancia piena, “i cocomeri” come li chiama qualcuno, accetterà di far aumentare l’altrui, tipo quella dei paesi poveri, o la propria prosperità modificando le scelte (degli altri e men che mai proprie) per adattarsi alle condizioni esterne, la Giustizia Sociale ci dice che l’universo DEVE girare intorno all’Uomo (Giusto)

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