Alcuni giorni fa mi sono imbattuto nel comunicato stampa della pubblicazione di un nuovo paper su Nature Climate Change, la rivista spin off di Nature che si occupa specificatamente di cambiamenti climatici et similia.
Amplified mid-latitude planetary waves favour particular regional weather extremes
Si tratta di un lavoro che va ad esplorare la relazione statistica tra i flussi meridiani, ovvero dall’amplificazione dell’ampiezza delle onde planetarie e gli eventi atmosferici estremi. Di per se un approccio interessante, ma prima di proseguire penso sia necessario chiarire alcune cose.
La circolazione generale atmosferica è il motore attraverso cui viene redistribuito sul pianeta il calore ricevuto in eccesso sulle latitudini equatoriali e in difetto su quelle polari. Di fatto, l’aria si muoverebbe esclusivamente da nord a sud in superficie e da sud a nord in quota in ognuno dei due emisferi, ma questo non avviene perché i moti astronomici del pianeta, inclinazione dell’asse, orbita attorno al sole, rotazione attorno al proprio asse, impongono alle correnti atmosferiche dei percorsi ben diversi da quelli che esisterebbero in loro assenza. Nasce così la circolazione generale atmosferica, che si compone in ogni emisfero di tre grandi celle di circolazione a tre dimensioni. La cella di Hadley tra l’equatore e le latitudini subtropicali, la cella di Ferrel sulle medie latitudini e la cella polare sulle latitudini polari. Il tutto secondo lo schema semplificato qui sotto.
Si realizzano così delle intense correnti con direttrice ovest-est tra le medie latitudini e le zone polari, che sono sede del getto polare, il motore delle perturbazioni e del tempo atmosferico, con quest’ultimo che prende origine dal contatto tra masse d’aria con caratteristiche termodinamiche differenti. È quindi intuitivo, che tanto maggiore sarà questa differenza, tanto più dirompenti potranno essere gli eventi atmosferici. Ora, questa differenza può crescere, di fatto lo fa, quando masse d’aria di origine polare si spingono molto a sud o masse d’aria subtropicale si spingono molto a nord, quando cioè il flusso ovest-est della zona di contatto cambia direzione e viaggia lungo i meridiani. Nell’emisfero nord, questi cambiamenti di direzione sono condizionati e spesso mantenuti dalla posizione delle terre emerse e delle catene montuose più imponenti, che di fatto impongono al flusso delle ampie ondulazioni che hanno proprio il ruolo di finalizzare il trasporto di calore.
Così funziona praticamente da sempre, con l’ampiezza di queste onde che varia più o meno randomicamente assumendo caratteristiche che dettano le leggi del tempo atmosferico. Quando l’ampiezza delle onde cresce molto, la circolazione appare come bloccata per un certo periodo. È il caso delle onde di calore estive, delle situazioni di freddo intenso in inverno, ma anche delle potenti sciroccate primaverili o autunnali, con quelle repentine variazioni caldo-freddo tipiche delle stagioni di transizione.
Quindi, gli eventi atmosferici intensi, quasi tutti, sono diretta conseguenza di questa ampiezza d’onda, più o meno da sempre. Con il lavoro di cui ho parlato in apertura, ora ne è stata definita la relazione statistica, fatto questo che può risultare utile. Quello che però faccio fatica a capire, è come mai gli autori non parlino mai delle situazioni di blocco, cioè del mondo con cui sono ufficialmente riconosciute e studiate da sempre queste variazioni dell’ampiezza delle onde planetarie, ma si limitino ad osservare l’ampiezza dell’onda in relazione al gradiente, cioè alla differenza di temperatura tra le latitudini polari e quelle subtropicali.
Questo approccio, oltre ad essere piuttosto limitante, è propedeutico ad indirizzare il discorso verso i cambiamenti climatici ed alla modifica del gradiente di temperatura nord-sud che il forcing antropico starebbe imponendo alla circolazione atmosferica. Con l’aumento della temperatura più accentuato verso i poli, infatti, il flusso ovest-est dovrebbe diventare più lento ed essere quindi soggetto a maggiore ondulazione, di qui il rischio che si possano verificare con maggiore frequenza ampiezze d’onda capaci di dar luogo ad eventi intensi.
Ma, per tutti quelli che studiano e conoscono queste cose, tranne che per questo paper, stiamo parlando delle situazioni di blocco, per le quali non c’è nessuna conferma osservativa di una variazione della frequenza di occorrenza o delle modalità di insorgenza o ancora della persistenza. Questo, in effetti, lo leggiamo anche nell’abstract e nelle conclusioni del paper, non senza aver letto anche però che avremmo vissuto un decennio anomalo in termini di eventi intensi e che una eventuale modifica (non confermata) dell’ampiezza delle onde planetarie giustificherebbe questo aumento.
Per parte mia, dopo aver trovato la conferma statistica del fatto che l’aria fredda porta il freddo e quella calda porta il caldo – conferma rassicurante perché in tempi di clima che cambia non si sa mai che qualcuno dica il contrario – mi limito ad osservare che in questo interessante lavoro, il clima che cambia c’entra solo perché ci deve entrare per forza ai fini della pubblicazione su Nature Climate Change. Se non ci fosse entrato e gli autori avessero parlato di situazioni di blocco, lo avremmo forse visto pubblicato altrove, o forse non lo avremmo visto affatto.
E invece è uscito e sarà citato come ‘evidence‘ della dipendenza degli eventi intensi dall’ampiezza delle onde planetarie e della presunta modifica di queste ultime, nè più nè meno come in questo stesso paper sono citati lavori che affrontano il tema degli eventi intensi senza giungere alla conclusione che abbiano subito modifiche come se invece questo fosse accaduto. Addirittura c’è tra i riferimenti bibliografici un paper che parla della percezione dell’aumento degli eventi intensi.
Così si costruisce il consenso sul clima che cambia, mentre ieri, oggi e probabilmente anche domani, l’aria fredda porterà il freddo e quella calda porterà il caldo. Con la differenza che ieri questo succedeva perché c’è un pianeta che ruota attorno a se stesso e attorno alla sua fonte di energia e domani succederà perché il clima è cambiato. Una differenza non banale in termini di antropocentrismo, sebbene il riferimento sia molto più ideologico che fisico. Ma questo non importa, quel che conta è il consenso. Oppure no?
Domanda da ignorante: esiste attualmente un ragionevole accordo tra meteorologi e climatologi su dove posizionare e come descrivere la frontiera tra le loro discipline? Esistono fenomeni “a cavallo” tra le due?
Grazie, Alvaro
Alvaro, non so se ci sia accordo, mi sfuggono le discussioni al riguardo. Ma così su due piedi direi che l’ENSO e la MJO possono rappresentare un esempio calzante. Il primo può spostare la convezione sulla fascia equatoriale e condizionare la seconda, che a sua volta può indurre delle modifiche alla circolazione degli Alisei gettando le basi per un’inversione dell’ENSO. Il primo definisce con le sue oscillazioni eventi che possono durare 12/18 mesi, tipicamente climatici, la seconda ha un ciclo di circa 40 giorni, cioè molto più meteorologico.
gg
Si, in effetti dire che il regime zonale non è favorevole agli eventi estremi mentre quelli di blocco si mi pare pleonastico, nel senso che lo sapevamo da moltissimo temo (penso ai lavori di Namias sulla dust bowl statunitense…). Peraltro questo è tutto quel che si evince leggendo l‘abstract.
Se invece si legge il lavoro si scopre un elemento di estrema originalità riassunto nel diagramma sinottico di figura 1, dal quale si evidenziano per il periodo 1979-2012 gli eventi termici e pluviometrici estremi sulla fascia delle medie latitudini dell’emisfero nord e li si associa alle anomalie di ampiezza delle onde planetarie (regimi di blocco, termine che gli autori non usano). Un diagramma così non l’avevo mai visto e debbo dire che da solo giustifica l’intero articolo. Peraltro da tale diagramma non si evincono trend di sorta sia nella situazioni di blocco sia negli eventi estremi conseguenti (alla faccia di Al Gore!). In particolare sottolineo la frase dell’articolo “The months of extreme temperature and the months of extreme precipitation lie relatively evenly through the 34-year period, and there is no long-term trend. A full discussion of 34-year trends is provided in Supplementary Discussion 1.” -> mi pare l’affermazione chiave di tutto il lavoro, un’affermazione che ahimè nell’abstract non compare! -> si tratta forse di un’autocensura oggi necessaria per avere il lavoro pubblicato senza problemi? Boh! Quel che so è che l’abstract non è per nulla rappresentativo del contenuto dell’articolo, e si tenga conto che la cosa è oltremodo grave perchè l’abstract è la cosa di gran lunga più letta di un articolo.
Altro elemento positivo che mi preme sottolineare è che gli autori non hanno usato simulazioni con GCM per ingarbugliare le cose (una moda oggi più che mai diffusa).
Infine noto anche che nello scritto di Screens e Simmond non si cita il lavoro per me fondamentale
Charney, J.G. and J.G. DeVore, (1979), Multiple flow equilibria in the atmosphere and blocking, J. Atmos. Sci.,. 36:1205-1216
nel quale gli autori proposero un modello con cui evidenziare la tendenza della circolazione generale delle medie altitudini del nostro pianeta a oscillare fra due stati (regimi) limite, quello zonale e quello meridiano, il che credo sia ancor oggi un buon punto di partenza per ragionare sul problema di frequenza e persistenza delle situazioni di blocco, cui si devono eventi estremi di portata a volte rilevantissima (ultimo in ordine di tempo l’inverno con una rilevante anomalia termica positiva sulla West Coast ed un ultragelido inverno sulla East Coast statunitensi).