Quest’ultimo scorcio di primavera – domani alle 12:51 con il solstizio d’estate si entra ufficialmente in estate – è stato particolarmente dinamico. Masse d’aria diverse, ovvero con zona d’origine e percorso di provenienza diversi, si sono rapidamente alternate sul Mediterraneo. Alle correnti atlantiche umide ed instabili che hanno dominato la scena nel mese di maggio, è seguita l’aria subtropicale che ha portato la prima onda di calore della stagione e, subito dopo, un mix di aria atlantica e aria polare continentale l’hanno spodestata, generando il forte maltempo e il fresco di questa settimana. Ora, è questione di un giorno o due, toccherà nuovamente all’aria subtropicale e le temperature schizzeranno nuovamente verso l’alto, prima di un nuovo cambiamento di fase verso la fine della prossima settimana.
Questa si chiama variabilità, elemento tipico delle stagioni di transizione, ma anche espressione diretta del comportamento spesso casuale delle dinamiche atmosferiche. Alla sua origine, in qualche modo dalla breve descrizione appena fatta si sarà capito, c’è lo scambio di calore tra diverse latitudini. La ricerca dell’equilibrio termico è lo scopo ultimo della circolazione atmosferica, in presenza di un perenne squilibrio generato dal diverso apporto di energia che sussiste tra le latitudini tropicali e quelle polari.
Ora, in regime di aumento della temperatura media del pianeta, sulle cui origini per una volta non mi soffermerò, i meccanismi estremamente complessi di questa ricerca di equilibrio fanno sì che la temperatura debba aumentare più rapidamente alle latitudini polari di quanto non faccia più a sud. Questo comportamento, definito amplificazione polare, è molto evidente nell’emisfero nord, mentre risulta quasi assente o comunque difficilmente individuabile in quello sud. E questo è, attualmente, uno dei tanti misteri che si devono ancora svelare per capire come funzioni il sistema nel suo complesso.
Ad ogni modo, a questa amplificazione polare, che nella fattispecie è meglio definire artica, si è tentato più volte di associare ogni genere di conseguenze, spesso opposte tra loro. Dalla diminuzione dei ghiacci artici, le cui sorti sono però in gran parte decise dalla circolazione marina, alle fasi di freddo intenso che hanno caratterizzato alcuni degli inverni recenti. Per esempio il 2010 sull’Europa centrale, il 2012 fin sul Mediterraneo (il nostro ultimo ‘nevone’) e, soprattutto, l’inverno da incubo del Canada e degli Stati Uniti orientali conclusosi di fatto solo da poche settimane. L’amplificazione artica, si dice, sarebbe all’origine di un rallentamento della corrente a getto (il motore della masse d’aria), di una sua maggiore propensione a subire ondulazioni e quindi anche di un accrescimento – pur in un mondo più caldo – di più frequenti ondate di di freddo intenso.
Già alcuni mesi fa, quando negli USA si parlava di polar vortex anche nei bar, ci è capitato di pubblicare un post con un grafico in cui non si nota per gli ultimi anni alcuna modifica importante della posizione della corrente a getto, fatto questo che lascia la descrizione di poche righe fa nel campo delle ipotesi cui manca una dimostrazione. Nei giorni scorsi, però, è stato pubblicato su Nature Climate Change un lavoro che di fatto taglierebbe la testa al toro.
Arctic amplification decreases temperature variance in northern mid- to high-latitudes
Di questo paper è anche disponbile un commento su Science Daily, come capita ormai molto spesso. In sostanza, scrivono gli autori dopo una lunga premessa simile (ma molto più edotta) a quella fatta sin qui, un aumento della frequenza degli eventi di freddo intenso dovrebbe essere collegato a modifiche delle dinamiche che li originano, cosa di cui nelle osservazioni non si trova traccia. Molto più evidente, scrivono, è invece una tendenza alla riduzione della variabilità, cioè esattamente l’effetto opposto. Secondo loro, l’aria che arriva da sud (masse d’aria subtropicali pilotate da venti meridionali) si starebbero scaldando più lentamente di quelle che arrivano da nord (spinte invece da venti settentrionali). Di qui la riduzione della frequenza di occorrenza delle brusche inversioni di tendenza, fatto quest’ultimo che sembra trovi riscontro nella realtà osservata.
Non so se fosse nelle intenzioni degli autori, probabilmente no, ma questa analisi va nella direzione in cui da anni ci si scontra nell’ambito delle discussioni climatiche. Gli eventi atmosferici, intensi o meno che siano, sono originati dalla differenza tra masse d’aria. Se questa diminuisce – e l’amplificazione artica è all’origine di questa diminuzione – gli eventi intensi non dovrebbero aumentare, quanto piuttosto diminuire. Questa però negli ambienti del mainstream climatico è considerata un’eresia, nonostante di questo aumento o diminuzione, insomma, di un trend distinguibile, non ci sia alcuna traccia, come ammette anche l’IPCC nel suo report dedicato all’argomento (SREX).
Sicché, non credo sia questione di mettersi d’accordo. La variabilità atmosferica non può aumentare e diminuire allo stesso tempo e per le stesse cause. Idem per gli eventi intensi. Forse, una volta di più, si tratta semplicemente di come vengono guardati e interpretati i dati di cui si dispone, dati largamente insufficienti a capire come stanno le cose. Temo che per l’ennesima molta la conclusione non possa essere diversa dal solito: la strada è ancora lunga, arriveranno molte altre stagioni ‘strane’ prima che si possa capire perché, ammesso che ci si riesca mai.
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