C’è gran fermento ultimamente nel dibattito sulle policy climatiche. Il presidente Obama, alla guida del paese che fino a poco fa deteneva il record delle emissioni – ora passato alla Cina – sta per lanciare un massiccio piano di riduzione delle emissioni e, quindi, avendo appena finito con l’Afghanistan, dichiara fieramente guerra al global warming.
La dichiarazione è in cantiere da mesi, ci sono voluti prima un paio di report ben assestati per preparare il terreno, il primo dello US Global Change Program, operazione mediatica targata punto gov, e il secondo di un centro di ricerca militare. Entrambi hanno ammoniscono che la minaccia del clima che cambia è insostenibile.
Chi si oppone a questo genere di forme di intervento, i cattivi produttori di carbone e petrolio, ha sempre sollevato l’obiezione che il costo di un piano siffatto sarebbe esorbitante. Beh, qualche giorno fa Paul Krugman, premio nobel per l’economia già più volte impegnato a discettar di clima dalle pagine del NYT, ha fatto sapere che in fondo si tratta di quisquilie: appena lo 0,2 dell’1% del PIL americano, cioè 50mld di dollari l’anno per i prossimi 15 anni, dato che pare che il piano si ponga il traguardo del 2030 per essere completato. Fonti più attente fanno notare che 50G$ sono lo 0,3 dell’1% del PIL americano e non lo 0,2; forse a questo un economista dovrebbe farci caso. Comunque, gli USA sono anche il paese che ha ridotto le emissioni più di tutti senza aderire ad alcun piano di riduzione internazionale, ma perseguendo la transizione energetica verso il gas naturale grazie al boom dello shale gas e intervendo sui trasporti e sull’efficienza energetica. Ciò significa, o potrebbe significare, che se dovessero decidere di farlo potrebbero anche riuscirci.
Che possa costare quanto dice Krugman si vedrà, che salvi il pianeta è scontato, visto che non è in pericolo.
Qui trovate l’editoriale, buona lettura.
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