Una notizia sorprendente, con cui alcuni ricercatori della NASA sono entrati a gamba tesa in uno dei temi ambientali più scottanti degli ultimi anni, il depauperamento dello strato di ozono in alta atmosfera. Come molti (quasi tutti) credo sappiano, il “buco dell’ozono” è stata materia prima di acceso dibattito scientifico, poi di raggiungimento di un sostanziale consenso sugli effetti deleteri delle emissioni di clorofluorocarburi (CFC) e poi, nel biennio 1987-1989 (firma e inizio), dell’implementazione del famoso Protocollo di Montreal, con il quale i CFC sono stati messi al bando.
L’ultima volta che sulle nostre pagine abbiamo parlato di ozono era per commentare l’uscita di uno studio che attribuiva alle reazioni chimiche dell’alta atmosfera molta parte del trend delle temperature medie superficiali globali, scagionando quindi i gas serra ma mantenendo l’origine antropica di queste variazioni, origine identificata nell’accumulo di CFC.
Ora la NASA esce con due studi che frenano non poco gli entusiasmi di quanti hanno sin qui sbandierato i successi delle policy definite a Montreal osservando un recente (e alquanto altalenante) recupero della concentrazione di ozono nella stratosfera polare durante l’inverno. Il problema, dicono, è nel continuare a considerare rappresentativa la quantità di ozono presente nell’intera colonna d’aria. Sembra infatti che dalle osservazioni satellitari raccolte negli ultimi anni, si evidenzino dinamiche di accrescimento e diminuzione del contenuto di ozono diverse nei diversi strati della stratosfera, dinamiche strettamente dipendenti dalle condizioni atmosferiche e dunque di origine naturale.
Gli effetti dei provvedimenti definiti a Montreal e successivamente implementati, aggiungono, non sono sin qui tangibili, nel senso che la quantità di CFC si è ridotta troppo poco per essere determinante ai fini di un recupero della concentrazione di ozono, per cui sia gli anni con minime concentrazioni, sia in quelli dove sembra che il ‘buco’ non sia più effettivamente tale, come il 2012 ad esempio, sarebbero stati dominati essenzialmente dalle temperature dello strato e dalla radiazione solare incidente. Per esempio il 2006 e il 2011, anni con estensione similare dell’area depauperata di ozono, presentavano quantità significativamente differenti di CFC, che quindi non potevano essere interamente responsabili di quanto accaduto.
Perché si possa immaginare di vedere il segnale direttamente derivato dalla diminuzione dei CFC separato da quello della variabilità naturale, pare si debba attendere almeno un altro paio di decadi. Soltanto allora la concentrazione di ozono potrebbe iniziare ad oscillare sempre per cause naturali attorno a valori medi più elevati e in progressivo aumento. Questo significa che nel breve-medio periodo, le oscillazioni interannuali della concentrazione di ozono non potranno essere attribuite a un trend di recupero derivato dall’implementazione del Protocollo di Montreal, che per rivelare la propria efficacia dovrà invecchiare ancora un po’.
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Qui, sulle pagine della NASA dedicate all’argomento, una serie di informazioni utili a rinfrescare la propria memoria sull’argomento ozono. Nell’immagine in testa al post, invece, la struttura verticale della concentrazione di ozono nel 2012, dalla quale si evince come il guadagno degli strati medi stratosferici mascheri il decremento di quelli inferiori. La concentrazione totale della colonna d’aria, evidentemente, non può essere utile a svelare le complesse dinamiche che realmente hanno luogo.
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