Ennesimo tentativo di trasposizione del concetto di cambiamento climatico nel mondo reale, con l’aggiunta del nobile scopo di mettere i decisori di fronte alle loro responsabilità, ovvero di fornir loro informazioni utili al processo decisionale. Piogge intense, giornate roventi e gelo eccezionale, più gli eventuali accessori di vento, mare et similia, tutti equamente distribuiti sul territorio europeo come meglio non avrebbero potuto desiderare i padri fondatori dell’unione.
Il progetto è Europeo, appunto, ed è partito nel 2011, con Meteo France a fare da leader. Lo scopo, naturalmente, è quello di far scendere i modelli climatici globali (GCM) alla scala regionale, per capire se in un mondo più caldo (?), con un clima cambiato diversamente dal suo solito cambiare (?), sia lecito o meno attendersi eventi atmosferici più intensi. CORDEX: COordinated Regional climate Downscaling Experiment
Tecnicamente si chiama downscaling, un processo che si po’ sommariamente descrivere come riduzione del dominio del modello allo scopo di aumentarne la risoluzione spaziale e intercettare così quello che succede su porzioni limitate di un territorio. I risultati naturalmente sono scontati, nel prossimo futuro spazieremo dal disastro all’apocalisse, almeno così riposta Science Daily dando notizia dei primi risultati di questo progetto.
Eventi estremi quindi più probabili in un clima che cambia per cause antropiche. Naturalmente corre l’obbligo di specificare la causa del cambiamento perché sappiamo che questo genere di studi tende ad ignorare il fatto che il clima sia sempre cambiato e impiega modelli di simulazione che individuano nel fattore antropico l’unica forzante in grado di innescare il cambiamento. Già questo, come abbiamo discusso molte volte, limita inevitabilmente l’attendibilità delle simulazioni a scala globale e le rende praticamente inservibili a scala regionale, dove la variabilità climatica è comunque molto accentuata.
Temo sia dunque lecito porsi la fatidica domanda: a cosa serve tutto ciò? Ha senso trasportare ad una scala spaziale ridotta gli errori che si commettono a scala globale? Forse no, specialmente se quella riduzione di scala finisce per originare informazioni che possono essere utilizzate magari decidendo di impiegare le risorse disponibili in una direzione piuttosto che in un’altra. Circa il downscaling regionale infatti, vale la pena dare un’occhiata ad un articolo pubblicato un paio di anni fa da Roger Pielke Sr e dal suo gruppo di lavoro:
Regional climate downscaling – what’s the point?
Un lavoro che analizza le capacità dei modelli climatici se sottoposti a downscaling dinamico, cioè se utilizzati per fornire le condizioni di partenza per far girare modelli climatici regionali. Quelli qui di seguito sono alcuni punti che riassumono i risultati ottenuti da questo esercizio di analisi (fonte):
- Come condizione necessaria per una previsione accurata, le simulazioni climatiche globali multidecadali devono includere tutti i forcing e i feedback climatici di primo livello. Cosa che non fanno.
-
Le attuali previsioni multidecadali non sono in grado di simulare efficacemente il forcing regionale esercitato da soggetti principali della circolazione atmosferica come quelli collegati a El Niño e La Niña o ai Monsoni del Sud Est Asiatico.
- Mentre il downscaling regionale garantisce una risoluzione spaziale più accurata, il downscaling è strettamente dipendente dalle condizioni al contorno e dalle tecniche utilizzate per adattare le variabili a scala regionale alla più ampia scala spaziale dei modelli globali. Gli errori di vasta scala dei modelli globali restano e possono anche essere amplificati. Se i modelli globali non riproducono efficacemente gli aspetti di vasta scala della circolazione, per esempio, non possono fornire condizioni al contorno accurate per l’annidamento dei modelli regionali.
- Tra i due approcci non c’è scambio di informazioni, infatti se i modelli regionali alterano in modo pesante alcuni aspetti della circolazione e questo ha certamente effetto anche a scala più ampia, non c’è alcun modo di trasferire questa informazione ai modelli globali. Per esempio, delle ricerche recenti indicano che l’evaporazione terrestre proveniente dal continente Euroasiatico contribuisce all’80% delle risorse idriche della Cina. In questo caso, il dominio del modello regionale deve essere sufficientemente ampio da includere aree che risentono del feedback dell’umidità proveniente dal suolo.
- Le condizioni al contorno per un modello climatico regionale necessitano di informazioni alla stessa scala spaziale. Informazioni che i modelli globali non hanno. Questo è in pratica un paradosso logico, nel senso che i modelli regionali hanno bisogno di qualcosa che può venire solo da un modello regionale (o osservazioni regionali). Sicchè l’acquisizione di condizioni al contorno con la necessaria scala spaziale diventa logicamente impossibile. Sicché, anche aumentando la risoluzione e la definizione del territorio nel dominio regionale, l’errore e l’incertezza del modello a più ampia scala spaziale persistono.
Tutto questo porta Roger Pielke sr a scrivere che “le previsioni regionali multidecadali (regional downscaling) hanno valore pratico purché li si utilizzi per saggiare la sensibilità del modello, non per fare previsioni…”
e
“l’enorme impiego di risorse per fornire alla comunità quello che viene spacciato per previsioni accurate del clima regionale per decadi e presentarle come l’insieme di ciò che potrebbe accadere, è uno spreco di soldi e tempo. Ed è anche seriamente ingannevole per i decisori circa il rischio che corriamo a caisa del clima e altre minacce ambientali nelle decadi a venire.”
Tutto questo, naturalmente, finisce per essere un puro esercizio di stile soprattutto perché è ormai acquisito – e anche certificato dal mainstream scientifico che però se ne ricorda solo quando vuole – che ad oggi, fatta eccezione per un segnale appena più distinguibile per quel che riguarda le ondate di calore, segnale del quale si potrebbe anche discutere, per tutti gli altri tipi di eventi estremi non ci sono né dati sufficienti a capire se e quanto siano essi cambiati in un clima che si dice già soggetto a cambiamenti, né segni di cambiamento che possiedano la necessaria robustezza scientifica. Ma questa, come tante altre, è un’altra storia. O forse no, è sempre la stessa.
Quello del down scaling al livello locale o di piccole porzioni del territorio è come far fare una operazione di neurochirurgia ad un chirurgo osseo (come vedete non faccio più accostamenti macellaio-veterinario perché vengo frainteso). Se si scende alla scala locale la climatologia generale, ed anche la modellistica sinottica, sbarellano mostruosamente perché alla scala locale predominano quei processi, e quegli schemi, che abbiamo cercato di dimenticare nella costruzione di strutture previsionali generali. Fino ad oggi le fatiche per introdurre le parametrizzazioni locali hanno dato si risultati ma a quali costi operativi? Poi, brutta abitudine dei climatologi è quella di usare sempre più statistica dimenticando la fisica ( molte figure dell’AR5 grondano di questo problema ). Se a questo si aggiunge la spinta ideale di prevedere che non si possa costruire la TAV perché c’è lo dice un modello climatico allora ciao…
Il riferimento dell’articolo al “regionalismo” de El Niño e de La Niña mi spinge a dire: cari tutti, forse siamo/siete già un passo indietro.
Infatti per superare la realtà dell’incidenza delle forzanti naturali, incompatibile con le tesi dell’arrosto antropogenico, i catastrofisti hanno aperto un altro fronte dove quelle forzanti naturali, nella loro misura e qualità, sono non causa, ma diventano effetto del riscaldamento globale.
Ne sanno una più del diavolo: http://www.climalteranti.it/2013/12/04/riscaldamento-globale-quale-impatto-su-el-nino-e-la-nina/
E’ proprio vero che una altro mondo è possibile: in peggio!
Francesco, quando si sveglieranno dal torpore di questa visione co2centrica del mondo sarà sempre troppo tardi.
gg