I modelli climatici e la loro bassa capacità predittiva: ipotesi di miglioramento.
Tore Cocco ha recentemente pubblicato, qui su CM un interessante post sullo stato dell’arte della ricerca in ambito climatico. Tra le molte considerazioni che ha svolto nell’articolo, una mi ha particolarmente colpito:
“La climatologia è una scienza enormemente più vasta e complessa delle scienze necessarie a progettare un aereo, e a differenza di quest’ultimo siamo ancora molto lontani dal realizzare un modello di clima “funzionante” realisticamente.”
Io condivido questa impostazione del discorso che, noto con piacere, sta cominciando a farsi strada anche nell’ambiente della climatologia.
Incuriosito da una presentazione a firma del prof. A. Pasini apparsa su “Le Scienze” di agosto che, sotto diversi punti di vista, si collega alla citazione di T. Cocco con cui ho aperto questo post, ho rintracciato un brevissimo articolo a firma di B. Stevens e S. Bony pubblicato su Science in cui si analizzano i risultati dei modelli climatici attualmente utilizzati dai climatologi:
What are climate models missing?
L’articolo si apre con una breve analisi storica che illustra la nascita e l’evoluzione dei modelli di circolazione globali. Circa cinquanta anni Joseph Smagorinsky impostò un modello della circolazione planetaria basato sulle equazioni fluidodinamiche di Stokes-Navier. I modelli originari si proponevano di replicare, tra l’altro, il trasferimento del calore dall’equatore ai poli e, essenzialmente, erano dei modelli meteorologici. Questi modelli riguardavano essenzialmente l’atmosfera e tutto ciò che circondava l’atmosfera (oceani, ghiaccio, terre emerse, ecc.) rappresentava delle condizioni al contorno che venivano stabilite di volta in volta dal modellista. Successivamente i modelli cominciarono ad integrare anche i flussi (di massa e di energia) tra atmosfera e ciò che la circondava fino ad arrivare ai giorni nostri in cui i modelli climatici tengono conto delle interazioni tra i vari sottosistemi: atmosfera, oceani, terre emerse, ghiacci, vegetazione.
Da un punto di vista teorico tali modelli dovrebbero essere in grado di rappresentare in modo estremamente realistico il clima terrestre, però, essi sono soggetti ad un maggior margine di errore: eventuali imprecisioni nella descrizione di un solo sottosistema, infatti, sono in grado di propagarsi anche agli altri sottosistemi e, quindi, determinare errori in tutto il modello matematico.
Secondo gli autori dello studio, pertanto, sarebbe opportuno evitare di complicare ulteriormente il modello introducendo altre interazioni e concentrarsi su una miglior comprensione e rappresentazione della fisica che sottintende gli elementi fondamentali del modello.
Nell’immagine, tratta dall’articolo citato, sono rappresentati gli output di alcuni dei principali GCM applicati ad un pianeta ideale costituito da sola acqua e che non tengono conto delle interazioni tra superficie terrestre, criosfera, biosfera, aerosol e processi chimici. A fronte di un riscaldamento previsto di 4°C si può notare l’enorme variabilità degli effetti radiativi delle nubi e della variazione delle precipitazioni generata dai modelli medesimi. Come si vede non si tratta di differenze di poco conto, ma sostanziali che interessano essenzialmente i tropici.
I due ricercatori sono dell’avviso che l’attuale conformazione dei modelli non riesce a cogliere fenomeni come la convezione umida e la formazione delle nuvole nelle aree tropicali, mentre riescono a rappresentare molto meglio i processi fluidodinamici associati alle aree vorticose che garantiscono gli scambi energetici nelle aree temperate.
Sulla base delle ricerche effettuate, B. Stevens e S. Bony sono giunti alla conclusione che le principali fonti di incertezza dei risultati dei modelli riguardano la sensibilità climatica, il grado di aumento della temperatura al Polo Nord e l’andamento delle precipitazioni a livello regionale.
In estrema sintesi si può affermare che i modelli non riescono a cogliere in modo corretto il rapporto tra l’idrosfera e l’atmosfera.
E’ pertanto inutile, concludono i due ricercatori, cercare di complicare ulteriormente il modello inserendo nuovi pezzi di realtà senza prima essere in grado di descrivere meglio (dal punto di vista fisico-matematico) gli elementi che fanno già parte del sistema e che producono le incertezze rilevate.
Personalmente non mi sembrano delle critiche di poco conto e sarebbe bello se i ricercatori dedicassero più tempo a risolvere queste criticità. Come scrive T. Cocco nel post citato:
“Uno scienziato […] non dovrebbe trarre le conclusioni, dovrebbe limitarsi a dire che siamo ancora lontani dall’avere una piena comprensione dei meccanismi climatici [….]”.
Questo, almeno, imporrebbe il metodo scientifico-sperimentale e questo, correttamente, fanno B. Stevens e S. Bony. Chapeau.
Mi sembra che siano confermate una volta di più le attuali difficoltà dei modelli nel replicare i processi di formazione delle nubi e i loro effetti in termini di feed-back. Spero tutti ne possano prendere atto serenamente.
La climatologia è una scienza maledetta costretta a sparare previsioni quando ancora troppo immatura e quindi schiava dei modelli, cui tutto si sacrifica.
E poi quando i modelli fanno le bizze si è costretti a correre ai ripari modificando la baseline dei dati in modo che le previsioni si adeguino alle osservazioni:
http://climateaudit.org/2013/09/30/ipcc-disappears-the-discrepancy/#comment-441626
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Che s’adda fa pe’ mangià! 🙂
Ciao, Donato.
Donato, sto scientemente evitando l’argomento 5AR perché secondo me si fanno già abbastanza male da soli. Comunque grazie per averne parlato tu almeno un po’. 🙂
gg
Per impegni di lavoro non ho molto tempo libero per cui non posso dedicarmi ad uno studio appena accettabile del SPM, ma da quel poco che ho potuto vedere e sentire ne hanno combinate di cotte e di crude: il climategate e tutti gli annessi e connessi non hanno insegnato proprio nulla! 🙂
Ciao, Donato.