Agosto, sole, mare, caldo (e temporali!). Il pensiero va inevitabilmente a qualcosa di rinfrescante, possibilmente con ghiaccio. Dev’essere per questo che negli ultimi giorni si fa un gran parlare di ghiaccio negli ambienti meteo-climatici. Qualche giorno fa è entrata in campo anche la NASA, con il suo solito stile, ovvero, un comunicato stampa:
Arctic Sea Ice Update: Unlikely To Break Records, But Continuing Downward Trend
Cioè, difficilmente vedremo un altro minimo storico come quello del 2012, ma la tendenza alla diminuzione nel lungo periodo continua. Di questi tempi anche due granitiche certezze a buon mercato come queste hanno il loro pregio. Infatti, che il l’estensione del ghiaccio marino artico attualmente sotto la media di lungo periodo ma ben dentro le due deviazioni standard possa “crollare” nel giro delle 2/3 settimane che ci separano dal minimo annuale è quasi impossibile; che il trend sia immutato è scontato, perché gli esperti di clima e dintorni ci insegnano che anche se il ghiaccio quest’anno avesse fatto il botto, magari tornando in media o addirittura superandola, il trend di lungo periodo sarebbe stato immutato, sia per definizione che per la matematica.
Comunque, va dato atto agli esperti della NASA di aver reso un eccellente servizio di informazione, specie quando in fondo al loro comunicato citano anche il “bizzarro” comportamento dell’estensione del ghiaccio marino antartico, che si avvia a segnare per l’ennesima volta un record positivo, confermando un comportamento nel lungo periodo opposto a quello dell’emisfero nord. Questo conferma anche – sempre secondo la NASA – che ci sono delle differenze ambientali e climatiche tra Artico e Antartico. Certo, in un pianeta condannato all’arrosto da CO2 ce ne dovrebbero essere un po’ meno, ma in fondo queste sono sottigliezze.
Ma perché ci interessa così tanto capire cosa succede ai poli? Beh, capita continuamente di leggere quanto le varie nazioni che si affacciano per esempio sull’Oceano Artico siano interessate alla possibilità di sfruttare le rotte settentrionali per il trasporto delle merci, per non parlare della possibilità di accedere alle risorse energetiche sul fondo marino custodite dal ghiaccio e ancora oggi inarrivabili. Ma non è questo che interessa noi malati di clima e meteo. La nostra attenzione è piuttosto rivolta agli effetti che un Artico con meno ghiaccio e quindi anche con meno albedo potrebbe avere sulla circolazione atmosferica, essendo l’albedo la quantità di radiazione solare che viene riflessa e quindi non assorbita dalla superficie. E, sin qui, si è parlato solo di effetti molto deleteri, con quella che, se vogliamo, è l’ultima moda della catastrofe climatica. Meno ghiaccio al Polo Nord si tradurrebbe in un “impazzimento” del fronte polare e del suo motore ad alta quota, il getto polare; ne risulterebbero onde planetarie più profonde e più lente e più frequenti situazioni di blocco, cioè, massiccio trasporto di aria calda da sud a nord e aria fredda da nord a sud. Naturalmente, il tempaccio più frequente che ne deriverebbe, assumerebbe ora i connotati del forno, ora quelli del frigorifero, a seconda che ci si trovi dalla parte in cui l’aria sale o da quella in cui scende.
Lo scorso ottobre è uscito un lavoro che ha messo le mie righe qui sopra in linguaggio scientifico, un lavoro che ha avuto un sacco di copertura mediatica:
Evidence linking Arctic amplification to extreme weather in mid-latitudes (pdf)
E’ giusto quindi attendersi che altrettanta ne abbia un paper di fresca pubblicazione sul GRL, in cui riprendendo i dati relativi al vagabondaggio del getto polare ed esaminandoli, si deduce che nel trentennio ruggente del riscaldamento globale, 1980-2011, non si riscontra alcuna variazione significativa nello sviluppo meridiano delle onde planetarie e quindi nella velocità della circolazione atmosferica. Ergo, gli effetti della cosiddetta “amplificazione polare” sulla circolazione atmosferica sono tutt’altro che chiari e almeno per ora non traducibili nell’ennesimo allarme:
Revisiting the evidence linking Arctic Amplification to extreme weather in midlatitudes
Nelle conclusioni:
We conclude that the mechanism put forth by previous studies … that amplified polar warming has lead to the increased occurrence of slow-moving weather patterns and blocking episodes, is unsupported by the observations.
E così pare che il meccanismo suggerito, ovvero l’amplificazione del riscaldamento sui poli, che avrebbe condotto ad una maggiore frequenza di eventi di blocco per una accresciuta lentezza della circolazione non sia supportato dalle osservazioni. Chissà, magari invece i modelli dicono il contrario!
Naturalmente, tra le prime firme di questi due studi non c’è voluto molto perché volassero gli stracci. Jennifer Francis, firmataria del primo paper, ha collaborato a lungo con Al Gore e il suo Climate Reality Project, fulgido esempio di conflitto di interessi tra scienza e comunicazione, ovvero di deroga alla prima per rendere più efficace la seconda. All’apice della sua collaborazione, ha anche trovato il tempo di suggerire il collegamento tra l’Uragano Sandy e il vagabondaggio del getto polare, tirando molta acqua al suo mulino in un momento “caldo” della comunicazione, nel perfetto stile “il tempo non è il clima finché non ve lo diciamo noi”. Elizabeth Barnes, autrice del secondo paper, è invece semplicemente giovane e, a quanto pare, per nulla impressionata dal “peso” della collega, la quale, dal canto suo, piuttosto che entrare nel merito della questione, ha pensato bene di indagare circa le motivazioni che avrebbero spinto la Barnes ad attaccare il suo lavoro: E’ una negazionista? E’ una che vuole attirare l’attenzione? Cosa la spinge ad andare oltre il normale desiderio di acquisire nuove conoscenze? In sostanza, come ha osato?
Beh, come abbia osato non lo sappiamo, sappiamo però che il tempo non è il clima, e per dimostrare il contrario non basta far parte del consenso, ci vogliono pure i numeri, quelli che per ora dicono che il collegamento tra gli eventi intensi e le dinamiche del ghiaccio artico non c’è. Al prossimo capitolo.
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