Circa un mese fa, qui su CM, è stato pubblicato un articolo in cui ho commentato un notevole lavoro del dr. K. Briffa et al. relativo alla revisione della cronologia delle serie di dati dendrocronologici desunti dallo studio di campioni (in vivo e sub fossili, cioè alberi morti di cui si conserva, generalmente, la parte più vicina al terreno) di larici siberiani raccolti nelle aree della penisola di Yamal e degli Urali polari russi.
Briffa et al., 2013 per estrarre dalle serie di dati raccolti il segnale climatico, ha fatto ricorso a delle curve di normalizzazione regionali (RCS). In occasione del mio precedente commento ebbi modo di sottolineare che queste curve rappresentavano un elemento di una certa debolezza nella trattazione di Briffa et al. 2013. Nelle settimane successive alla pubblicazione del post questi miei dubbi hanno trovato un’autorevole conferma in una serie di post del dr. Jim Bouldin che, in originale, possono essere liberamente consultati qui.
Ho incrociato il dr. J. Bouldin su Climate Audit e subito dopo ho potuto accertarmi che è uno dei membri del team di Real Climate. Leggendo i suoi commenti nelle discussioni in corso su CA e su RC, mi sono reso conto della sua profonda indipendenza di pensiero: esprime le sue idee senza cedere agli aspetti ideologici e con estrema competenza. Incuriosito ne ho seguito le tracce fino al suo sito web dove ho potuto conoscere meglio questo eccentrico ecologo forestale (come ama definirsi), ricercatore dell’Università della California a Davis che, però, si occupa anche di paleoclimatologia, biologia molecolare e genetica ed è autore di diverse pubblicazioni su riviste internazionali di primo livello oltre che di diversi studi sull’ecologia delle foreste nord americane: un autorevole membro della comunità dei dendrocronologi.
Le sue considerazioni non sono state soggette a revisione paritaria per cui rientrano in quella “letteratura grigia” che, nel panorama scientifico attuale, non fa testo, però, per quel che ho potuto capire, individuano dei punti piuttosto critici nel lavoro di Briffa et al., 2013 e non sono state rigettate né dagli autori del lavoro, né da altri ricercatori. Probabilmente lo saranno in futuro, ma oggi come oggi, egli ha messo il classico dito nella piaga.
La prima considerazione che mi ha colpito è piuttosto familiare a chi frequenta questo blog: sul riscaldamento attuale vi è troppa enfasi e studiare le condizioni climatiche del passato per stabilire se allora faceva più o meno caldo di oggi, è estremamente limitante. Questi studi, secondo Bouldin, sono necessari, ma dovrebbero avere lo scopo di individuare le relazioni di causa ed effetto che hanno determinato i cambiamenti climatici del passato per stabilire come potranno essere quelli del futuro e, con largo anticipo, cercare di attrezzarci per affrontarli nel migliore dei modi. Studiare il passato solo allo scopo di stabilire se oggi faccia più o meno caldo che in passato è, secondo Bouldin e anche secondo me, del tutto inutile in quanto non aiuta a capire come i sistemi ecologici, sociali ed agricoli potrebbero rispondere ai cambiamenti climatici presenti e futuri. Anche in considerazione del fatto che le capacità tecnologiche del presente sono tali da consentirci di affrontare in modo migliore che in passato sbalzi termici anche di entità maggiore di quanto si sia mai verificato.
Un altro aspetto piuttosto considerevole del suo ragionamento riguarda la supposizione che esista una corrispondenza lineare tra temperatura ed accrescimento degli alberi. Porre in dubbio questo pilastro della dendroclimatologia rappresenta un’obiezione di grossa portata in grado di inficiare quasi tutti gli studi in materia e che trova conforto anche nel fondamentale lavoro di C. Loehle, 2009 (problema della divergenza). Nel caso di Briffa et al. 2013, così come di altri studi, questo problema viene evitato in quanto si scartano a priori tutti quei dati che evidenziano un rapporto non lineare tra temperatura ed accrescimento degli anelli. Ciò, in ultima analisi, impedisce di accertare se il legame non lineare tra temperatura ed accrescimento degli alberi è un fatto reale o un artefatto analitico. Questo, però, è un problema estremamente serio in quanto, ad oggi, non esistono metodologie in grado di discernere tra artefatti analitici e relazioni non lineari tra temperatura ed accrescimento degli alberi. Far finta che il problema non esista, però, non è un fatto positivo.
J. Bouldin fa notare, inoltre, che le curve di standardizzazione regionale (RCS) funzionano bene, nel senso che danno risultati non polarizzati, solo in presenza di opportune condizioni. Il problema è che queste condizioni quasi mai sono rispettate in presenza di alberi reali soprattutto se i dati dendrologici sono stati raccolti in epoche relativamente remote. Nel caso di Briffa et al. 2013 il problema non sembra molto rilevante in quanto i dati dendrologici sono piuttosto recenti.
Analizzando i dati di Yamal e quelli degli Urali polari, J. Bouldin per poter escludere fenomeni di polarizzazione nelle relative RCS, ha concentrato la sua attenzione sulla cosiddetta “età cambiale” dei campioni. Quest’ultima è una grandezza che tiene conto del fatto che gli anelli degli alberi rappresentano l’accrescimento dell’albero e non la sua età. Mi spiego meglio: quando un albero nasce cominciano a formarsi gli anelli annuali e, anno dopo anno, il loro numero aumenta. Questo accade alla base dell’albero, però, se ci allontaniamo dalla base del tronco verso la punta dell’albero, non potremo mai trovare gli anelli del momento della nascita dell’albero in quanto all’epoca l’albero era semplicemente….più basso. Appare evidente, pertanto, che se il campione è prelevato ad una certa altezza, quindi lontano dalla base del tronco, il numero degli anelli è diverso dall’età dell’albero, in altri termini esso appare più giovane di quanto sia effettivamente. Si definisce età cambiale l’anno in cui l’albero ha generato il suo primo anello di accrescimento, ovvero l’anno di nascita dell’albero. La pratica dendrocronologica consente di stabilire che questo parametro, nel caso degli alberi sub fossili, può essere determinato con grande sicurezza (si tratta di sezioni piuttosto vicine alla base dell’albero che si conserva molto più a lungo del tronco). Nel caso dei campioni degli Urali polari e di Yamal l’analisi dell’età media cambiale effettuata dal dr. Bouldin è riportata nei due grafici seguenti.
I due grafici evidenziano una notevole variabilità nel tempo delle età medie cambiali, però, nel caso dei campioni di Yamal questa variabilità oscilla intorno ad una posizione media pressoché orizzontale. Ciò ha anche una giustificazione logica nel fatto che il campione degli Urali polari è caratterizzato da una maggior presenza di alberi viventi. Secondo Bouldin, quindi, il campione di Yamal è meno probabile che presenti bias, connessi alla datazione del campione, in grado di polarizzare il segnale della temperatura atmosferica.
Egli, però, ha sottoposto i dati di Yamal utilizzati da Briffa et al., 2013 ad un ulteriore test in cui ha calcolato la frequenza delle età cambiali nei vari campioni. In altri termini visto che l’età cambiale massima degli alberi presi in esame è di 416 anni, ha riportato in un grafico sull’asse delle ascisse l’età cambiale degli alberi e, sull’asse delle ordinate, la frequenza con cui le varie età cambiali sono presenti nei campioni.
Nel grafico 3 sono riportate le frequenze delle età cambiali dei singoli campioni e, come è facilmente intuibile, le età cambiali dei dischi più giovani (quelli più vicini al midollo) sono le più frequenti mentre quelle dei dischi più vecchi (quelli più esterni) sono meno frequenti. Successivamente (grafico seguente) ha calcolato l’anno medio in cui è occorso il primo anello cambiale, l’anno medio in cui si è occorso il secondo anello cambiale e così via fino al 416° anello.
Nel grafico 4 il dr. Bouldin ha cercato di correlare le età medie cambiali dei singoli anelli dei vari campioni con gli anni solari e, come si vede, mediamente, i dischi più giovani (più vicini al midollo) si sono verificati in anni molto remoti, mentre, sempre in media, gli anelli con età cambiale maggiore, tendono a verificarsi in epoche più vicine a noi. Logica vorrebbe, secondo Bouldin, che queste età medie dei dischi oscillassero intorno ad un valore medio, ma questo, purtroppo, non accade e ciò deve essere considerato fonte di preoccupazione. Bouldin non fornisce alcuna spiegazione esplicita in merito a questa circostanza, ma la considera indice di una polarizzazione del campione in grado di determinare polarizzazioni e, quindi, errori anche nelle curve regionali di normalizzazione. Secondo il mio modo di vedere la polarizzazione delle varie età cambiali è indice di una distribuzione non uniforme del campione per cui le serie di dati presi in esame tendono a rappresentare, in modo preferenziale, alcuni periodi dell’arco temporale analizzato e, quindi, risentirebbero di quelle influenze ambientali che le curve RCS dovrebbero eliminare.
In altri termini queste curve sarebbero affette da un bias legato a fattori ambientali e, quindi, non sarebbero dipendenti solo dall’età del campione. J. Bouldin ammette di non essere in grado di suggerire soluzioni che possano risolvere questo problema che, però, deve essere tenuto presente nel momento in cui si deducono informazioni di tipo ambientale da curve dendrocronologiche normalizzate sulla scorta di curve regionali affette da errori dovuti proprio a cause ambientali.
J. Bouldin nel suo lavoro mette in evidenza anche un’ulteriore criticità di Briffa et al. 2013 legata alla forma del campione (quarta parte del suo lungo post) che, però, mi sembra meno rilevante di quelle analizzate in precedenza. Sul problema della forma del campione, comunque, è in corso un’accesa discussione che coinvolge anche il famigerato bastone da hockey di M. Mann. Questa, però, è un’altra storia…..
Come si può vedere il lavoro di J. Bouldin riguarda proprio i fondamenti dell’analisi di Briffa et al. 2013 e mette in luce alcune criticità sostanziali di cui sarà necessario tener conto negli studi futuri.
“Le ricostruzioni climatiche prima dei problemi di standardizzazione statistica hanno problemi biologici.”
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E’ quanto sostengono anche Bouldin, Loehle e tanti altri e, personalmente, concordo con il prof. Piovesan e con tutti loro. Nel mio post ho messo l’accento solo sugli aspetti statistici in quanto sono più vicini alla mia formazione, ma ho potuto rendermi conto che nella comunità dendro (come si usano definire gli studiosi di dendrocronologia) le poblematiche sollevate nel commento di G. Piovesan sono fortemente sentite e, per quel che mi è parso di capire, si nota anche un certo disappunto per il peso eccessivo che gli aspetti climatologici hanno assunto rispetto a quelli più propriamente cronologici. Nella foto che G. Guidi ha messo in testa al post, per esempio, nell’angolo in basso a destra, si nota una specie di triangolo più chiaro e, al suo interno, gli anelli hanno delle forme molto più irregolari che nel resto della sezione. In quella zona, probabilmente, si è verificata una lesione sul tronco e gli anelli ne hanno risentito. Ho avuto modo di verificare che alcuni alberi (pini se non erro) presentano accrescimenti molto anomali in zone soggette a traumi: la biologia dell’albero ha questo modo di reagire agli insulti esterni che il fusto subisce. In altre parole la larghezza degli anelli risente molto dello stato di salute dell’albero e delle condizioni ambientali del sito in cui esso cresce. Su questo, per esempio, battono tutti coloro che contestano l’esclusione degli alberi del fiume Kaditha dal set di dati utilizzato da Briffa et al., 2013.
Si, G. Piovesan ha perfettamente ragione quando scrive che “… gli anelli degli alberi ci possono raccontare tante cose ma prima dobbiamo comprendere ancora meglio il loro linguaggio”.
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A questo voglio aggiungere una mia personale considerazione che ho maturato leggendo i tanti commenti a Briffa et al., 2013. Probabilmente il dr. Briffa e molti dei coautori dell’articolo (esclusi gli studiosi russi cofirmatari dell’articolo, ovviamente) non hanno mai visto né gli alberi che hanno utilizzato, né le aree in cui essi sono cresciuti. Nelle loro repliche a S. McIntyre e ad altri critici incentrate sullo stato di salute degli alberi utilizzati, infatti, si sono limitati a scrivere che si sono affidati alle relazioni degli studiosi russi che hanno materialmente operato sui luoghi.
Sono convinto, pertanto, che le obiezioni di G. Piovesan, Bouldin e via cantando sono perfettamente fondate e che la biologia dell’albero esaminato, le caratteristiche ambientali dei luoghi in cui l’albero cresce non possono essere assolutamente trascurate e, in qualche caso, possono mascherare (al di là delle acrobazie statistiche) il segnale climatico. Ecco perché ho in grande considerazione il pensiero di persone come G. Piovesan e J. Bouldin che gli alberi li conoscono perché vivono parte della loro vita tra i boschi e non solo in un asettico laboratorio zeppo di computer.
Del resto la dendrocronologia non è nata affatto per studiare il clima, ma per datare reperti archeologici in legno.
Ciao, Donato.
Le ricostruzioni climatiche prima dei problemi di standardizzazione statistica hanno problemi biologici. Gli alberi sono plastici ossia hanno capacità di acclimatarsi perchè devono passare attraverso i secoli e a differenza degli animali non possono migrare. Da anni stiamo tentando di pubblicare un lavoro in cui abbiamo dimostrato che le risposte al clima di una specie cambia con il clima della stazione per cui in molti ambienti la ricostruzione climatica non è possibile….vi sono poi problemi di densità del bosco che modificano la risposta al clima quanto l’età ma anche di questo non se ne parla….insomma gli anelli degli alberi ci possono raccontare tante ma prima dobbiamo comprendere ancora meglio il loro linguaggio