Tecnologia e agricoltura: associare i due termini è del tutto spontaneo per l’agronomo ma lo è assai meno per il comune cittadino, vittima dei luoghi comuni del naturale, del biologico, del biodinamico, del chilometro 0, della tradizione, dei buoni cibi di una volta, ecc. E così mentre è chiaro a tutti che sarebbe tecnicamente improponibile ed oltremodo pericoloso realizzare un’automobile con la tecnologia di fine ‘800, lo stesso concetto di “improponibilità tecnica” e “pericolo per la salute” fatica non poco ad essere avvertito in relazione alle filiere agro-alimentari, anche perché le stesse ditte tecnologicamente più avanzate usano i concetti di naturale e pre-tecnologico come strumenti di marketing dei propri prodotti (un esempio per tutti: il “mulino bianco” di Barilla) contribuendo non poco al proliferare di miti e luoghi comuni. In proposito occorre dire in modo netto che è l’agricoltura tecnologica a sfamare il mondo, gran parte del cibo di cui si nutre l’umanità essendo oggi prodotto in aree ad agricoltura tecnologica evoluta quali Usa, Canada, Australia, Europa, Brasile ed India. Inoltre gli esseri umani al di sotto della soglia di sicurezza alimentare sono circa 900 milioni secondo FAO, cifra rimasta pressoché invariata in termini assoluti dagli anni ’60 ad oggi ma che in termini relativi è scesa dal 35% dell’umanità del 1970 al 15% attuale. Per intenderci sono usciti da una cronica insicurezza alimentare i giganti asiatici Cina ed India e la stessa Africa mostra segnali significativi di progresso nell’autosufficienza alimentare. All’ottimismo dovrebbero spingere inoltre i dati in figura 1 ed il fatto che l’outlook FAO del marzo 2013 preveda un raccolto di frumento per l‘anno in corso di ben 690 milioni di tonnellate (28 milioni di tonnellate in più del 2012; il secondo raccolto record di sempre).
A tale riguardo è oggi interessante leggere lo speciale della rivista online IEEE spectrum dedicato al tema “nutrire il mondo”, accessibile gratuitamente. IEEE (si pronuncia “I triple E” – AITRIPOLI – ed è l’acronimo di Institute of Electrical and Electronic Engineers) è un’associazione internazionale di scienziati e professionisti che ha l’obiettivo di promuovere l’uso della tecnologia e che è nata il 1º gennaio 1963 dalla fusione di due istituzioni precedenti: l’IRE (Institute of Radio Engineers) e l’AIEE (American Institute of Electric Engineers), nate nel 1884. La sua sede è nello stato di New York – USA e ad oggi annovera più di 320.000 membri in 150 nazioni, comprendendo tecnici, ingegneri, ricercatori, studenti, professori, nonché amatori di tutto il mondo nel settore elettrotecnico ed elettronico. Le pubblicazioni dell’IEEE sono il 30% della bibliografia e documentazione ingegneristica globale e coprono quasi tutti gli aspetti dell’elettronica e dell’informatica moderna. Inoltre l’IEEE ha definito oltre 900 standard industriali. Lo speciale di IEEE “nutrire il mondo” è ricchissimo di tematiche tecnico-economiche legate alla tecnologia agricola ed in questa sede mi limiterò ad alcuni commenti generali, invitando i lettori ad una lettura critica, che credo utile anche in vista del’Expo 2015.
Nel 2050 il giorno del giudizio alimentare globale?
L’introduzione allo speciale focalizza anzitutto la necessità di affrontare con strumenti critici adeguati la corrente di pensiero che fissa nel 2050 una sorta di “giorno del giudizio alimentare globale”, come conseguenza dell’incapacità della filiera alimentare mondiale di far fronte al problema di rifornire di cibi e beni di consumo una popolazione che avrà raggiunto i 10 miliardi di esseri umani. Lo speciale si propone allora di mostrare come l’uso intelligente della tecnologia ed il miglioramento nelle politiche di gestione potranno permetterci di nutrire il mondo a metà del XXI° secolo e oltre. E qui un invito all’ottimismo ci viene da Keith Fuglie, economista del Dipartimento statunitense per l’agricoltura (USDA), il quale affronta la questione non solo in chiave tecnologica ma anche economica, perché la tecnologia è una bellissima cosa ma è destinata a franare miseramente se non fa’ i conti con la sostenibilità economica. Fuglie inizia il suo scritto citando le opinioni di illustri esponenti della corrente di pensiero che potemmo definire del “catastrofismo agro-alimentare” ad iniziare dal professor Paul R. Ehrlich della Stanford University, che con la moglie Anne scrisse nel 1968 il best seller “The Population Bomb”. In tale libro si metteva in guardia dal rischio di una catastrofe umanitaria che avrebbe dovuto manifestarsi fa gli anni 70 e 80 del XX secolo a causa della sovrappopolazione e si invitava ad intraprendere rigorose politiche di contenimento demografico. Più specificamente le prime edizioni del “The Population Bomb” iniziavano con la frase “The battle to feed all of humanity is over. In the 1970s hundreds of millions of people will starve to death in spite of any crash programs embarked upon now. At this late date nothing can prevent a substantial increase in the world death rate..” che è stata in seguito eliminata perché smentita dai fatti. Il libro di Ehrlich si è in tal modo adeguato alla legge non scritta di Nostradamus, secondo cui la fama del profeta di sventura sarà imperitura se le sue profezie sono riferite ad un futuro il più possibile lontano.
In proposito ricordo che la corrente dei catastrofisti attuali fa riferimento ad idee già radicate in epoca romana, come dimostra il De Re Rustica, uno dei principali trattati georgici latini, scritto da Lucio Moderato Columella che lo dedicò a Publio Silvino, un agricoltore suo vicino di casa. Nell’introduzione al trattato spiccano infatti queste significative parole: “Io odo spesso gli uomini principali di Roma lagnarsi, chi della sterilità dei campi, chi dell’intemperie dell’aria nociva alle biade da lungo tempo in qua; e finalmente alcuni di loro, volendo addolcire le querele con qualche ragione, mostrarsi di parere che il terreno per l’abbondanza dei passati secoli affaticato e spossato, non possa oggidì somministrare agli uomini gli alimenti con la cortesia de’ primi tempi. Quanto a me, Publio Silvino, tengo tutte queste ragioni per lontanissime dalla verità.”… Giova qui ricordare che Columella con il suo trattato si impegnò a dimostrare come si potesse fare agricoltura anche con il clima del suo tempo (si era in una fase calda, l’optimum climatico romano, per molti aspetti simile all’epoca attuale) e che la fertilità dei suoli si poteva non solo conservare ma anche incrementare adottando buone pratiche agronomiche. Ovviamente se consideriamo quanto produce il frumento oggi in Italia (60 quintali per ettaro di media contro gli 8-10 quintali dell’epoca romana) ci rendiamo conto di quanto Columella avesse ragione. Ciò nondimeno non si possono trascurare i molti nostri concittadini che sposerebbero oggi le considerazioni degli “illustri personaggi” avversati da Columella, che sono poi gli immortali campioni del luogo comune e di quel millenarismo che è uno dei tratti più caratteristici della cultura umana, un archetipo con cui tutte le generazioni si sono probabilmente trovate a fare i conti da migliaia di anni a questa parte.
Il catastrofismo agro-alimentare: tante smentite ma sempre nuovi adepti
Padre moderno del “catastrofismo agro-alimentare” è senza alcun dubbio Thomas Robert Malthus (1766-1834), il quale sosteneva che la progressione geometrica della popolazione umana a fronte di quella aritmetica delle risorse alimentari avrebbe in breve portato il mondo ad una catastrofe alimentare. Secondo Fuglie, per capire la ragione del fallimento della teoria di Malthus basta riflettere sul fatto che quando Malthus scriveva, e cioè all’epoca della rivoluzione francese, un operaio francese doveva lavorare per un giorno intero per procurarsi il denaro necessario ad acquistare le 2 pagnotte che servivano per alimentare per un giorno una famiglia di 4 persone. Oggi un operaio francese acquista lo stesso cibo con i proventi di 15 minuti di lavoro, il che costituisce di fatto un mutamento enorme, frutto del fatto che ogni singolo agricoltore lavora molta più terra e produce molto più cibo per unità di superficie. Dal 1950 ad oggi infatti gli arativi pro-capite sono calati del 50% (da 0.40 a 0.20 ettari) e nonostante ciò la disponibilità di cibo pro-capite è cresciuta del 30%. Ad analoghe conclusioni porta il confronto fra i dati delle popolazione mondiale, aumentata di 4 volte in un secolo, e la produzione dei cereali base dell’alimentazione umana, che nello stesso periodo è aumentata di 4-6 volte. Tale incremento si deve per il 50% all’innovazione genetica (varietà molto più produttive e di qualità molto migliore) e per il 50% all’innovazione nelle agrotecniche (tecniche di lavorazione del terreno, concimazioni, diserbi, interventi fitosanitari, tecniche di raccolta e conservazione dei prodotti, ecc.). Tuttavia, nonostante le clamorose smentite, Malthus trova in continuo emuli, e fra quelli contemporanei Fuglie cita lo statunitense Lester Brown (ambientalista) e l’australiano Julian Cribb (divulgatore scientifico). E’ qui necessario dire che Fuglie, beato lui, non conosce il caso italiano, un Paese in cui la tecnologia agricola ha fatto passi da gigante, portando ad esempio le produzioni di frumento tenero dagli 11 quintali per ettaro del 1910 ai 60 quintali per ettaro attuali. A questa intensificazione produttiva, che ha interessato le buone terre di pianura e bassa collina, si deve ad esempio il fatto che la superficie a bosco sia aumentata del 70% in 100 anni, con enormi vantaggi per la biodiversità. Ciò nonostante nel bel Paese si sta diffondendo a macchia d’olio il mito (peraltro radicato in altri settori chiave quali quello dell’energia e della medicina) secondo cui la tecnologia distrugge, affama e crea insicurezza alimentare (giusto l’opposto dunque di quanto ci dicono i dati). E’ in un tale contesto ideologico che siamo chiamati ad assistere impotenti alle esibizioni di una pletora di soggetti che godono di un incredibile spazio sui nostri media e che preconizzano catastrofi qualora non si torni ad un’età dell’oro che viene collocata in un tempo passato e che, ovviamente, è solo nella loro testa. Sui media non trova invece alcun risalto l’aumento delle produzioni mondiali cui tutt’oggi stiamo assistendo e che è il tardo epigono di quella rivoluzione verde che oggi andrebbe rinverdita in vista delle sfide che ci attendono nel XXI° secolo.
La rivoluzione verde
La rivoluzione verde del XX secolo ha vari personaggi simbolo fra cui Keith Fuglie cita a ragione Gregorio Mendel, scopritore delle leggi dell’ereditarietà e padre della genetica e Fritz Haber, scopritore di un metodo efficiente per fissare l’azoto atmosferico al fine di produrre concimi chimici azotati. Con la fine della seconda guerra mondiale le fabbriche di munizioni furono convertire in fabbriche di concimi chimici ed i ricercatori capitalizzarono le scoperte di Mendel creando varietà che rispondevano a maggiori dosi di concimi, il che si ottenne ad esempio con il mais (ibridi più grandi e più produttivi) e con il frumento ed il riso (varietà a taglia bassa). Questa combinazione di fenomeni si tradusse nella “rivoluzione verde” che prese il via negli anni ’40 nel Nord America e negli anni ’60 nei PVS e che in Italia ebbe i sui antesignani in scienziati come Nazzareno Strampelli. Per comprendere a che livello abbiano agito gli avanzamenti tecnologici del 20° secolo, si deve considerare che le piante obbediscono alla legge da Lavoisier secondo cui nulla si crea e nulla si distrugge. In base a tale legge esse, sfruttando il sole come unica fonte di energia, attingono dall’aria la CO2 e l’ossigeno e dal terreno l’acqua, l’azoto, il fosforo, il potassio, i macroelementi secondari e i microelementi, trasformandoli in prodotti utili, stoccati nei serbatoi costituiti da fusti, foglie, radici e organi di riserva. In tale chiave per puntare a produzioni elevate e stabili è anzitutto essenziale disporre di varietà produttive e di qualità elevata (il che è compito del miglioramento genetico) ed inoltre occorrerà, e qui entrano in gioco le tecniche agronomiche, che i diversi nutrienti siano resi disponibili in quantità non limitante, che siamo contenuti gli attacchi di parassiti e patogeni (insetti, funghi, batteri, virus, ecc.) e che le piante siano protette dalle avversità (eccesso idrico, siccità, grandine, gelo, vento, ecc.). Degli innumerevoli aspetti tecnologici sopra accennati mi limiterò a citarne due a mò d’esempio. Anzitutto l’introduzione di tecniche irrigue moderne che ha portato ad efficienze (intense come % dell’acqua consumata dai vegetali rispetto a quella che attiva al campo) prima inimmaginabili e pari all’80-90% per i sistemi a goccia o per le grandi ali piovane. A ciò si aggiunge la diffusione delle tecniche di difesa integrata, che ad interventi eseguiti solo in condizioni di effettiva necessità associano l’uso di agrofarmaci a tossicità sempre più ridotta e con dosi ettariali sempre più contenute per limitare l’impatto ambientale (oggi disponiamo di diserbanti per riso che prevedono dosi di 5 grammi di principio attivo per ettaro). All’ottimismo spinge anche la diffusione crescente delle biotecnologie che non si limitano oggi solo agli organismi geneticamente modificati ma si estendono ad esempio ai marcatori molecolari in grado di velocizzare le tradizionali tecniche di selezione. Ulteriore elemento di ottimismo è dato dalla crescita delle produzioni nei Paesi in via di sviluppo e qui invito a leggere, dallo speciale di IEEE, l’articolo “Africa: continent of plenty” di Pascal Zachary, in cui si parla di un boom agricolo in atto e che francamente ignoravo. Se siamo tutti in grado di intuire che l’agricoltura moderna dipende dalla scienza e dalla tecnologia non è invece intuitivo quantificare il livello di tale dipendenza. Se fino agli anni 50 del XX secolo ogni aumento di produzione dipendeva dalla messa a coltura di nuove terre, in seguito la terra pro-capite è diminuita a fronte di un aumento della produzione pro-capite del 30% circa che è stato frutto dell’innovazione nei settori della genetica, delle agrotecniche e dei sistemi gestionali, innovazioni che sono frutto di ricerca: oggi 7 miliardi di essere umani si alimentano su 1.4 miliardi di ettari di arativi, il che indica che la terra pro-capite è di 0.2 ettari (un terzo della dimensione di un campo di calcio). Il futuro progresso tecnologico in agricoltura non può tuttavia prescindere dal considerare che il progresso di tale settore ha caratteristiche eminentemente locali in relazione alle peculiarità dei diversi climi e suoli. Si pensi ad esempio al frumento tenero e duro: esso viene coltivato in quattro tipologie di macroclimi designati secondo il sistema di classificazione di Koeppen e cioè i climi continentali Df (es: Canada, Ucraina, Russia), i climi oceanici Cf (es: Australia, Argentina, Usa, Europa), i climi mediterranei Cs (Europa e nord Africa) ed i climi monsonici A (India, Pakistan). Se si osserva una carta dei tipi di Koeppen ci si avvede che i climi Cs sono relativamente rari, per cui come paesi rivieraschi del Mediterraneo non possiamo in alcun modo aspettarci che la selezione di nuove varietà di frumento adatte ai nostri climi la facciano altri per noi. E’ inoltre da evidenziare che il progresso tecnologico in agricoltura richiede che si stia sempre “qualche passo più avanti rispetto alla natura”. Ad esempio funghi, insetti e malerbe sono estremamente rapidi nello sviluppare resistenze agli agrofarmaci o a superare i fattori di resistenza inseriti nelle varietà coltivate con il miglioramento genetico. Pertanto la ricerca dev’essere rapida e qui si pone un notevolissimo problema delle risorse. Da non trascurare poi che lo sviluppo tecnologico richiede una crescita sostanziale delle conoscenze da parte degli agricoltori ed una gestione aziendale integrata a livello territoriale. Sul primo aspetto occorrerebbe molta più attenzione da parte dei governi e delle organizzazioni dei produttori agricoli mentre sul secondo si pensi al tema della gestione dei reflui zootecnici che sono un’interessantissima fonte di nutrienti per le piante e che necessitano altresì di essere gestiti a livello comprensoriale, in modo da fare incontrare la domanda di concimi con l’offerta di suoli su cui applicarli.
Il progresso agricolo: politiche e sistemi di valutazione
Elemento di grande rilevanza per il progresso agricolo è costituito dalle politiche dei governi volte alla formazione e aggiornamento professionale degli agricoltori, al credito finanziario, alla creazione di infrastrutture (strade per migliorare l’accesso ai mercati, elettrificazione per aumentare la qualità della vita rurale e favorire la conservazione dei prodotti), alla valorizzazione dell’iniziativa individuale (es. il settore agricolo cinese ha fatto un enorme balzo in avanti da quando si sono abbandonate le iniziative collettivistiche in favore delle imprese a carattere familiare. La proprietà della terra infatti stimola i coltivatori ad investire nel miglioramento fondiario, potenziando l’irrigazione o la difesa del suolo). In tal senso è necessario superare l’idea che la produttività agricola si misuri solo in termini di output per unità di superficie o per persona impiegata. L’efficienza del processo può essere meglio apprezzata valutando la Total Factor Productivity – TFP e cioè la produttività dell’insieme del fattori di produzione (terra, lavoro, capitale e materiali), la cui misura comporta la disponibilità di dati completi sugli input e sugli output che è frutto di un sistema statistico-agrario efficace. Ogni crescita di TFP riflette innovazioni tecniche e manageriali che spesso non si sostanziano nell’usare più macchine o più chimica ma nell’ottenere di più con meno. In tal senso l’aumento del prezzo di un fattore di input (es. il lavoro) spinge l’imprenditore a surrogare tale input con altri. Proprio utilizzando la TFP è possibile far emergere alcune buone notizie fra cui:
- il fatto che dal 1961 al 2009 l’output agricolo globale è triplicato e che solo il 60% di tale incremento è attribuibile all’uso di più terra, capitale, lavoro e materiali mentre il resto si deve alla crescita della TFP (= uso più efficiente di terra, capitale, lavoro e materiali)
- il fatto che, sempre dal 1961 al 2009, il contributo della TFP è via via crescente, tanto che nella decade 2000-2009 l’incremento della TPF è stoto responsabile dei tre quarti dell’incremento annuo della disponibilità globale di cibo.
Gli agricoltori accrescono la TFP divenendo più precisi nell’applicare gli input (e qui si possono citare tecniche innovative – su cui lo speciale IEEE si dilunga – quali la precision farming, il minimum tillage, il sod seeding o la selezione di razze animali più efficienti nel trasformare gli alimenti zootecnici).
Elementi critici su cui riflettere
Un primo elemento di riflessione si lega al fatto che la produzione mondiale del mais cresce del 2% l’anno mentre quella degli altri cereali cresce a ritmi inferiori (1% per riso e frumento) il che viene da alcuni interpretato come sintomo dell’avvicinarsi di epoche di vacche magre. E qui si deve notare che il mais è il cereale su cui si è più investito in termini di miglioramento nella genetica e nelle agrotecniche, il che la dice lunga sul ritorno degli investimenti in ricerca e sviluppo per il settore agricolo. Ulteriore elemento critico può essere costituito dalla tendenza dell’offerta di mezzi tecnici (sementi, concimi, ecc.) a concentrarsi nelle mani di un ridotto numero di ditte multinazionali, il che può andare a detrimento della capacità innovativa insita in un sistema concorrenziale (anche su questo tema lo speciale di IEEE si dilunga). Altro elemento su cui riflettere è costituito dall’incremento nell’alimentazione a base di carne, verso cui stanno muovendosi in modo assai deciso nazioni come la Cina che prima privilegiavano l’alimentazione basata sui vegetali. Il sempre più deciso prevalere dell’alimentazione a base di carne potrebbe rivelarsi problematica alla luce del fatto che per fare un kg di carne occorrono 7 kg di cereali per il manzo e 4/5 kg per polli e maiali. A tale riguardo occorre intraprendere campagne che promuovano un’alimentazione equilibrata senza tuttavia demonizzare la carne, la quale è fonte di proteine nobili e importanti per lo sviluppo. Circa la carne e gli altri prodotti zootecnici (latte in primis) occorre per inciso considerare che il pascolo del bestiame è l’unico modo per sfruttare i 3.5 miliardi di ettari di pascoli disponibili a livello mondiale e per valorizzare una gran massa di sottoprodotti dell’industria agro-alimentare. Da segnalare infine che il progresso tecnologico incessante vissuto dal sistema produttivo agricolo mondiale negli ultimi 100 anni non è stato indenne da effetti collaterali negativi legati ad esempio all’irrazionale utilizzo dei concimi azotati con inquinamento delle falde o all’irrazionale utilizzo degli agrofarmaci (diserbanti, pesticidi, anticrittogamici), anche qui vi è spazio per grandi incrementi d’efficienza.
Conclusioni
Quel che emerge dallo speciale di IEEE è la fiducia nel progresso tecnologico in agricoltura, progresso che ha risulto i problemi del passato allontanando le più oscure prospettive maltusiane e che è ancor oggi la chiave per affrontare con speranza di successo i problemi del futuro, legati in particolare all’aumento delle popolazione mondiale. Tale fiducia non può essere tuttavia disgiunta dalla consapevolezza che il problema sta oggi non tanto nella capacità innovativa della scienza quanto nella volontà della società di credere nell’innovazione e nell’appoggiarla, economicamente ma prima ancora culturalmente.
E qui l’ottimismo cala un po’, scrive Fuglie nella chiusa del suo articolo…
“Tale fiducia non può essere tuttavia disgiunta dalla consapevolezza che il problema sta oggi non tanto nella capacità innovativa della scienza quanto nella volontà della società di credere nell’innovazione e nell’appoggiarla, economicamente ma prima ancora culturalmente.”
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In questi giorni sono impegnato negli esami di Stato conclusivi del corso di studi nelle scuole secondarie di secondo grado (comunemente ed impropriamente noto come esame di maturità 🙂 ) e, con stupore (poco) e disappunto (molto), noto il profondo calo di interesse dei commissari quando il/la candidato/a conferisce in matematica, fisica e scienze naturali. E’ questo stato di cose che mi rende estremamente pessimista circa la capacità della società di credere nell’innovazione e nell’appoggiarla: viviamo in un mondo culturalmente anti-tecnologico ed anti-scientifico (almeno nella linea di pensiero dominante) che in modo preconcetto rifiuta tutto quello che è scienza, innovazione e tecnologia applicata alla filiera alimentare (e non solo).
Il tutto senza rendersi conto che la produzione “biologica” o “biodinamica” o la “decrescita” non saranno mai in grado di soddisfare le esigenze alimentari dei miliardi di esseri umani ed animali, domestici e non, (anche loro mangiano 🙂 ), che popolano la Terra. Non capire questo, come dice G. Botteri, significa dare le brioches a chi lamenta la carenza di pane.
Ciao, Donato.
Molto interessante.
Ma voglio commentare su di un aspetto invero secondario, che pero’ mi ha colpito. In Indonesia, che e’ senza dubbio un paese in via di sviluppo, invece alcuni produttori di pane e te’ in bottiglia (che viene consumato in quantita’ enormi) fanno della tecnologia avanzata un punto di marketing.
Infatti, le pubblicita’ di questi prodotti mostrano fabbriche moderne ed asettiche nel quale i prodotti vengono lavorati solo dalle macchine.
E per un indonesiano basta andare avedere il piu’ vicino chiosco di cibi fritti per capire quanto piu’ igienica sia una fabbrica automatizzata rispetto alla lavorazione manuale.
Certo,
quello che segnala (preparazioni alimentari realizzate rispettando le norme igieniche) è un aspetto tutt’altro che marginale della sicurezza alimentare.