Sviluppo Felice non sono un nome e un cognome, ma il titolo di un blog che si occupa (o preoccupa) di esplorare il tema della decrescita e, almeno stando alla pagina di presentazione, lo fa da un punto di vista un po’ di verso dal solito. Benedetto Rocchi, ricercatore presso il Dipartimento delle Scienze delle Produzioni Vegetali del Suolo e dell’Ambiente Agroforestale dell’Università di Firenze, ha pubblicato un post con il suo punto di vista sull’argomento e mi ha mandato il link perché ne facessi il mirror.
Nel dare atto a chi gestisce quel blog di di aver mostrato correttezza e disponibilità non comuni nel dare spazio ad opinioni non propriamente a loro assimilabili, non posso però fare a meno di notare che nel primo dei due commenti giunti al post, un commento firmato dal coordinatore del sito, compaiono proprio quelle semplificazioni, generalizzazioni, dogmi e luoghi comuni propri di un approccio fideistico al tema delle dinamiche del clima. Troppo spesso questi argomenti vengono utilizzati per dar forza e corpo a temi di diversa natura, quali quello dell’ambiente e, perché no, del vivere sociale, finendo per promuovere un uso strumentale di informazioni in molti casi neanche lontanamente scientificamente robuste.
Vi affido lettura e commenti, pregando chi volesse intervenire di rimanere sul tema e, soprattutto, di mantenere toni civili.
Buona lettura
gg
[line style=”normal”][/line]
di Benedetto Rocchi – Università di Firenze
Spett.le Redazione [di Sviluppo Felice],
un qualsiasi processo di sviluppo implica anche una crescita dimensionale. Per questo non vedo opposizione tra crescita economica e sviluppo della società. Mettere al centro il concetto di “crescita” (come fanno i sostenitori della decrescita) indica una certa semplificazione ideologica. Sul piano economico, Pasinetti ha messo in luce i limiti dei modelli di crescita omogenea, mostrando che, con l’accumulazione delle conoscenze, l’aumento di ricchezza sociale implica la soddisfazione dei nuovi bisogni che l’aumento del reddito fa emergere.L’insistenza sulla diminuzione del PIL è solo la punta di un iceberg di semplificazioni. Ad esempio Serge Latouche sostiene, tra i punti del suo “decalogo decrescista”, la necessità di una moratoria nello sviluppo di nuove tecnologie, preconizzando allo stesso tempo la fine del lavoro attraverso una più ampia sua distribuzione (il vecchio “lavorare tutti, lavorare meno”) e l’orientamento verso l’autoconsumo. Ma l’esperienza storica mostra che nelle società rurali a tecnologia arretrata e basate sull’autoconsumo si lavora tutti (eccetto forse alcuni gruppi sociali privilegiati) ma, ahimè, si lavora molto! Basta farsi raccontare dai vecchi delle nostre campagne la vita che facevano per farsi un’idea di quanto la tecnologia sia stato uno strumento di “liberazione” dal lavoro.
Un’altra semplificazione collega la decrescita con la conservazione delle risorse naturali non rinnovabili, sulla base dell’ipotesi che più PIL significhi più consumi materiali e quindi crescente depauperamento delle riserve. Ma il PIL può crescere anche per incremento della qualità dei beni prodotti e non della loro quantità (come ha sottolineato Musu in questo dibattito). Inoltre lo stock di risorse naturali è un concetto sfuggente, la cui definizione (e misura) dipende dalla tecnologia a disposizione. Quelli che sono apparsi nel passato come problemi “globali”, oggi ci sembrano limiti ambientali “locali” e risolvibili con un’adeguata tecnologia. In assenza di possibili “misurazioni” (tutte le misure sperimentali sono stime soggette ad errore, figuriamoci la “misurazione” globale di risorse scarse) il concetto stesso di stock “globale” diventa essenzialmente politico. Ovviamente si devono considerare i limiti posti dall’ambiente all’azione umana, talvolta adottando comportamenti precauzionali; ma quanto più la scala si fa globale tanto più il confronto tra costi e benefici si fa incerto e la decisione si fa politica (vedi ad es. Lindzen http://www.euresisjournal.org/public/article/pdf/EJv2id9_SM2008_Lindzen.pdf). La contrapposizione tutta politica tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo sulle emissioni di gas clima-alteranti lo dimostra.
La questione si fa ancora più complessa quando si parla di sviluppo umano, cioè dell’uomo in tutte le sue dimensioni. I sostenitori della decrescita hanno uno sguardo pessimista sulle società umane. Forse per questo fanno affidamento sulla soluzione politica. Come ricordava Simona Pisanelli nel suo post dell’11 febbraio, Wolfgang Sachs afferma che “i cambiamenti sul larga scala non esistono senza politica”: infatti la ricetta proposta dal rapporto del Wuppertal Insitut sul “Futuro Sostenibile” (www.edizioniambiente.it/eda/catalogo/libri/609/) per passare da una “economia dell’efficienza” ad una “economia della sufficienza” consiste nel pianificare i consumi materiali con una regolamentazione dei comportamenti individuali. Sarebbe necessario che la “moderazione delle pretese” diventasse “una priorità nella politica” e “nella cultura di massa”. In sostanza, spostare il baricentro verso decisioni centralizzate, nonostante nello stesso rapporto la politica e lo Stato vengano descritti, non a torto, come asserviti troppo spesso all’economia e alle sue lobby.
Non esistono soluzioni semplici: neanche sulle diseguaglianze, che pure siamo molto più capaci di “misurare”. Il problema distributivo esiste anche nelle economie pianificate; e l’esperienza storica dovrebbe spingerci a grande prudenza su questo punto.
Lo sviluppo, quando è sviluppo umano, è per definizione sostenibile: da un punto di vista economico, sociale e ambientale. Una decrescita economica verso un (immaginario) stato stazionario mi sembra un progetto sostanzialmente conservatore (forse con residui di un certo imperialismo culturale ereditato dal positivismo).
Non c’è bisogno tanto di diminuire il PIL, quanto piuttosto, come afferma Luigino Bruni, di una decrescita delle transazioni economiche nella regolazione della vita civile. Un tipo di decrescita a favore dello sviluppo umano, che chiede però meno politica e più società: “i prossimi decenni dovranno essere necessariamente caratterizzati da una decrescita e ritirata della politica (non solo e non tanto una decrescita della economia) per far spazio al civile e alla sfera pubblica, poichè più un sistema è complesso meno pesante deve essere la mano che entra dall’esterno nelle sue dinamiche” (L. Bruni, Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni, Roma, Città Nuova, 2012: pp.10-11).
Gent.mi,
a nome della redazione di Sviluppo Felice vi invitiamo a visitare il nostro blog di riflessione economica e sociale e a commentare gli articoli postati dai nostri redattori e dai nostri collaboratori.
Il blog Sviluppo Felice si propone di approfondire temi sociali, economici, culturali, istituzionali tramite agili contributi di analisi concernenti il tema dello sviluppo.
Per info: sviluppofelice@gmail.com
Un semplice esempio proprio sul clima: spendiamo milioni per salvare le città dal clima globale. Operazione che io chiamo di PIL: per salvarci in un futuro ipotetico spendo una enormità concentrando capitali, pubblici, in oggetti inutili ma strumentali a grandi interessi industriali. Alternativa: per salvare le città dal clima locale intervengo con miglioramenti distribuiti nel tessuto urbano. Questo io lo chiamo BIL: ora adesso subito vedo i risultati dei miei interventi miglioro la vita dei cittadini e proprio in virtù del ‘distribuito’ l’economia del cambiamento va a vantaggio delle piccole imprese.
Segnalazione a latere: Rocchi cita un articolo di Lindzen che è a mio avviso assolutamente da leggere, nel senso che Linzen analizza in modo impietoso e per molti versi condivisibile il modo odierno di fare scienza del clima.
1. “spostare il baricentro verso decisioni centralizzate, nonostante nello stesso rapporto la politica e lo Stato vengano descritti, non a torto, come asserviti troppo spesso all’economia e alle sue lobby”
appunto, temo le decisioni centralizzate più di ogni altra cosa; del resto la “dittatura” è il sistema per eccellenza delle decisioni “centralizzate”, e non mi pare che le dittature – di qualsiasi colore politico – abbiano dato una buona prova di sé.
2. “Una decrescita economica verso un (immaginario) stato stazionario mi sembra un progetto sostanzialmente conservatore”
sembra anche a me, e da anni sostengo che l’ambientalismo (e le varie forme ad esso vicine) rappresentano sostanzialmente idee conservatrici e reazionarie, in chiaro antagonismo con l’evoluzione e il progresso.
3. “i prossimi decenni dovranno essere necessariamente caratterizzati da una decrescita e ritirata della politica (non solo e non tanto una decrescita della economia) per far spazio al civile e alla sfera pubblica”
meno Stato, meno politica, più spazio alla gente
(la Società non è stata creata per far star bene una ristretta casta, ma per far star bene il popolo; lo Stato ci vuole ma deve “controllare” NON “fare”, perché lo Stato è fallimentare quando entra in economia in prima persona)
4. “più un sistema è complesso meno pesante deve essere la mano che entra dall’esterno nelle sue dinamiche”
condivido a pieno, anche con un occhio al sistema climatico e alle pretese di modificare un clima di cui non si conoscono i comportamenti, né si possono prevedere, se non entro un brevissimo spazio di tempo.
Secondo me.
4.
Guido ti ribngrazio del mirroring anche perche’ l’argomento del blog e’ uno di quelli che appassiona.
sai che la sostituzione del concetto di PIL con quello di BIl (benessere interno lordo) potrebbe essere un nuovo indicatore della societa’ e l’argomento e’ cruciale per chi fa rigprogettazione urbana anche dal punto di vista microclimatico. Grazie quindi dell’apertura che caratterizza da sempre CM
E come si misurerebbe in modo univoco il BIL? C’é chi considera “qualitá della vita” superiore ad ogni altra l’avere sole, mare, buon cibo e feste tutti i giorni, senza preoccuparsi di come sostenersi o di rispettare certe regole civili; mentre altri (come me) considerano piú importanti nella qualitá della vita il sostentamento (personale e della societá), l’ordine ed il rispetto delle regole, l’efficienza dei servizi, l’abitabilitá urbana, la qualitá dell’ambiente circostante (indipendentemente che ci siano il sole o la nebbia, che sia mare o pianura), la soddisfazione individuale, lo sviluppo tecnologico, l’accesso del massimo numero di persone al “benessere” tecnologico e sociale.
E’ vero, semplifico molto, e faccio assunzioni arbitrarie: ma allora chiedo, piú precisamente, come faccio a stabilire un valore nella produzione culturale?
“E come si misurerebbe in modo univoco il BIL?” -> Ricordo che nei vecchi regimi del socialismo reale il problema era stato in sostanza risolto (si fa per dire…), nel senso lo Stato era garante e nume tutelare della felicità dei cittadini (non per nulla Stalin era detto il piccolo padre..). In proposito ricordo, ancora negli anni ’70, le discussioni con amici dirigenti dell’allora Pci che sostenevano che nei paesi del Socialismo reale non esisteva la pazzia in quanto questa era frutto del sistema capitalistico, e io a dire che non era vero e loro a confermare l’asserzione con una messe d’esempi.
In tal senso temo che i sostenitori della decrescita (uno per tutti: Carlin Petrini leader di slow food, molto amato nei salotti buoni di Milano…) non siano esattamente seguaci delle statistiche accurate. Quel che conta è l’idea…. che poi è sempre “quell’idea”.
Soprattutto, sono sostenitori della decrescita altrui – tanto quanto, mi si permetta, certi bei tipi che sostengono che la Terra sia sovrappopolata, ma senza “farsi da parte” loro stessi.
In ogni caso, non esisteva la pazzia ma esistevano i manicomi: pieni di oppositori del regime. O sbaglio?
Infatti!
il rifiuto della via di Stato alla felicità era considerata un’enorme mancanza di riguardo e dava luogo ad un “parcheggio” in appositi spazi (mi pare che il comico Ferrini li chiamasse Silos..).