Per far camminare le auto ci vuole il carburante, normalmente fossile. Molto più raramente e, più specificatamente negli ultimi tempi, si vedono in giro auto che impiegano la propulsione elettrica. Se ibride, con l’ausilio – e molto minor consumo – sempre di combustibili fossili, se elettriche pure, con energia fossile più o meno pura anche in quel caso, perché l’elettricità deve comunque essere prodotta. Insomma, per avere a disposizione dell’energia di movimento, ci vogliono grandi quantità di energia termica. E, purtroppo, quella immessa nel sistema è sempre molto superiore di quella utilizzata con efficienza.
Il clima e il tempo atmosferico funzionano allo stesso modo. Il sistema riceve energia termica e si mette in moto, producendo gli eventi atmosferici. In atmosfera il vettore di questo calore è il vapore acqueo, che però, essendo anche il più potente dei gas serra, ha anche un ruolo determinante nel modulare la quantità di calore disponibile. In modo molto poco ortodosso, si potrebbe dire che il vapore acqueo decide “da solo” quanto calore avrà da trasportare e quanto ne renderà disponibile per far muovere gli eventi atmosferici. Ma, con le temperature che aumentano o, meglio, sono aumentate, in atmosfera c’è maggiore disponibilità di vapore acqueo, quindi più energia disponibile e più effetto serra, quindi anche temperature che dovrebbero aumentare ancora.
Ma così non sembra che stia accadendo. La Climatic Research Unit della University of East Anglia ha da poco reso disponibile un dataset dell’umidità atmosferica. La faccenda capita a proposito perché nella nostra discussione più gettonata degli ultimi giorni, sono apparsi commenti in cui ci si chiedeva proprio se esistesse un dataset relativo a questa grandezza onde poterne investigare il “peso” nel rapporto statistico di causalità tra fattori forzanti e temperature globali oggetto della discussione stessa. Ci sta che questa recente disponibilità di dati possa far compiere altri passi avanti al tema dell’attribuzione climatica, sebbene si tratti ancora di relazioni statistiche e non fisiche.
Nel frattempo, l’analisi di questo dataset fornisce degli spunti interessanti al tema di questo post, ovvero quello della disponibilità di energia, tema strettamente connesso con quello dell’intensità degli eventi atmosferici estremi. Più o meno tutti gli eventi atmosferici intensi, sono direttamente connessi con l’umidità atmosferica. Più umidità, più energia, eventi più intensi. Quella qui sotto è la rappresentazione dell’umidità specifica così come ricostruita nel dataset in questione. La serie copre il periodo dal 1973 al 2003.
Indubitabilmente, il trend è positivo, sebbene spicchino in bella evidenza tanto i due Niños del 1988 e del 1998, quanto la prolungata persistenza di Niñas di metà anni ’70, seguita subito dopo da uno shift del sistema. Come si correla questa serie con quella delle temperature di superficie del mare (SST), fonte principale di vapore acqueo? Non c’è da fare grossi calcoli, le due curve vanno decisamente a braccetto, così come i due trend.
Ma, dopo il 2003, anzi, notoriamente anche da qualche anno prima (elidere el Niño non ha senso, perché le oscillazioni delle temperature dell’Oceano Pacifico sono quelle che fanno la maggior parte del lavoro), le SST, come la temperatura dell’aria, hanno smesso di crescere, anzi, sono anche diminuite.
Cosa avrà fatto l’umidità specifica? Il dataset della CRU non ce lo dice, ma possiamo ricorrere ai dati NOAA, dal report State of the Climate 2011.
Stazionaria o in diminuzione dal picco del 1998, proprio come le temperature. Non c’è ragione di credere che la correlazione così eccellente delle ultime due decadi del secolo scorso abbia cessato di essere tale. Quindi, da allora ad oggi, nel sistema non si è aggiunto altro carburante per gli eventi atmosferici, deboli o intensi che siano. Quanti continuano ad attribuire all’inarrestabile-che-invece-si-è-arrestato riscaldamento globale il temporale forte di qua e la pioggia alluvionale di là, farebbero bene a dare un’occhiata ai dati, a meno che non abbiano troppo da fare con la CO2 che è arrivata a 400 parti per milione e che, negli ultimi 10-15 anni, si è dimenticata di far aumentare le temperature, che per non essere da meno si sono dimenticate di far aumentare l’umidità atmosferica.
“Ci sta che questa recente disponibilità di dati possa far compiere altri passi avanti al tema dell’attribuzione climatica, sebbene si tratti ancora di relazioni statistiche e non fisiche.”
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Se il dataset è quello indicato, credo di no: la serie è troppo corta per cui mi sembra difficile se non impossibile determinare i coefficienti da inserire nelle equazioni del modello vettoriale autoregressivo utilizzato nel calcolo della causalità di Granger (mono o bi-variata che sia).
Ciao, Donato.