Si trova di tutto nel panorama scientifico del clima, anche quello che potrebbe essere paragonato ad un temporary shop della datazione dei dati di prossimità. Avete delle carote di ghiaccio, dei sedimenti, qualcosa insomma da cui si possa tirar fuori una temperatura del passato la cui datazione non fa alla bisogna della vostra ricerca? Rivolgetevi a Marcott e Shakun, otterrete un servizio di revisione della datazione dei vostri proxy rapido ed efficiente, entrando in possesso di dati perfettamente attinenti a quello che vi siete riproposti di dimostrare.
Dunque, l’antefatto è questo, cioè il nuovo paper di Marcott et al. uscito su Science che riprone l’Hockey Stick di Michael Mann. Già nel nostro primo commento, avevamo accennato alle prime critiche che si aggiravano sulla rete. Ora c’è stato il tempo di approfondire e più si scava, più si capisce che siamo di fronte all’ennesimo esempio di pessima scienza.
Normalmente, chi si occupa di ricostruzioni paleoclimatiche, compie lavori di assemblaggio dei dataset pazientemente raccolti dagli esperti del settore che li raccolgono, li datano utilizzando tecniche consolidate e li mettono a disposizione. Ma la scienza del clima funziona diversamente. Se le tecniche di datazione consolidate, pubblicate e di uso comune non garantiscono il risultato sperato, lo scienziato del clima se ne inventa di nuove in barba agli specialisti del settore, né più né meno come è accaduto in passato per le tecniche statistiche. Perché ci serve un’Hockey Stick, ci serve una ricostruzione della temperatura che dimostri che quanto sta accadendo ora è diverso da quanto accaduto in passato, anche se non è dimostrabile.
Nelle serie di dati di prossimità utilizzati nel paper di Marcott et al., ce n’è un discreto numero per cui sono stati impiegati gli Alkenoni (31 serie su 73), che sono composti organici prodotti dal fitoplancton. Ora, la ricostruzione delle temperature di questo paper, come abbiamo visto nel precedente post, termina con un valore decisamente elevato nel 1950. All’individuazione di quel valore di anomalia positiva così alto contribuiscono nella ricostruzione solo tre serie di dati proxy per i quali sia disponibile una datazione pubblicata, cioè ufficialmente riconosciuta come valida. Portando indietro nel tempo la datazione di due di queste serie (entrambe terminanti con anomalia negativa), ne è stato eliminato il contributo al valore finale, mentre spostando in avanti la datazione di cinque altre serie (tutte terminanti con anomalie positive), si è irrobustito il valore positivo finale. Una serie, inizialmente datata decimo secolo, termina ora invece nel 1940 “solo” mille anni di differenza. Altre invece hanno ricevuto shift in avanti di “soli” 5-600 anni.
Steve McIntyre, l’incubo di Mann e soci e ora anche di Marcott e soci, ha prodotto il grafico in testa a questo post plottando le serie impiegate in questo paper sia con la datazione pubblicata che con quella rivisitata. Lo trovate qui sotto, mentre al link indicato c’è tutta la spiegazione.
Ora, un’altra storia interessante che circola intorno a questo paper, è quella che vuole che questo lavoro sia stato già utilizzato da Marcott per la tesi del suo Phd. In quella tesi però non c’era traccia di Hockey Stick, mentre c’erano dei riferimenti identici a quelli del paper uscito su Science in ordine alle tecniche di datazione. Quindi, se le tecniche sono rimaste le stesse e le serie proxy pure, vuol dire che il cambiamento della datazione per i proxy che coprono la parte finale della ricostruzione è successivo, cioè non ascrivibile ad una nuova tecnica di datazione dei sedimenti – che comunque forse dovrebbe essere prima discussa con chi li ha raccolti e pubblicati – quanto piuttosto alla necessità di ottenere un risultato finale soddisfacente in termini di impatto mediatico.
Infine, il fatto che Science e i suoi referi abbiano poi omesso di approfondire la questione come stanno facendo McIntyre e tanti altri ora che lo studio è stato pubblicato è una storia che già conosciamo, ma non è detto che abbia anche l’epilogo che già conosciamo.
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Addendum
Un post al giorno leva l’Hockey Stick di torno: McIntyre ha analizzato una delle serie proxy magicamente scomparse dalla popolazione della data finale della ricostruzione di Marcott et al., l’unica serie che arriva quasi fino ai giorni nostri (per la tipicità del metodo di raccolta), per di più con buona risoluzione temporale. Eliminati i valori più recenti, la “fine serie” è stata portata al 1939, facendola così sparire dal 1940. La serie in questione, per la quale esiste tanto di pubblicazione sperimentale, mostra una diminuzione costante delle SST per tutto l’Olocene e termina sotto la propria media di riferimento. Dati decisamente inadatti alla bisogna.
La questione, se ho capito bene i termini del problema, riguarda diverse problematiche che affliggono il paper di Marcott et al.
Il primo problema riguarda la ri-datazione dei campioni. Mi sembra la cosa più importante perché modifica fortemente gli esiti delle analisi statistiche. Retrodatare o anticipare la datazione dei campioni di centinaia se non migliaia di anni, infatti, può falsare i risultati. E’ pur vero, però, che la rideterminazione delle date potrebbe rappresentare una rettifica delle date individuate negli studi precedenti: in questo caso sarebbero da rivedere le conclusioni degli altri studi e non quelle del paper di cui discutiamo. Mi sembra strano, però, rientra nel novero delle possibilità. Le principale accuse che vengono mosse a Marcott et al. 2013 riguardano, comunque, le date da cui possono considerarsi rappresentativi i dati proxi in nostro possesso. Marcott et al. in alcuni casi hanno esteso al 1950 dati che erano stati troncati mille anni prima da coloro che avevano pubblicato i risultati originari (considerando quasi nulla la perdita di materiale nella parte iniziale del carotaggio) in altri casi hanno troncato a centinaia di anni fa serie di dati che nei lavori originari erano stati considerati attendibili fino ad anni piuttosto recenti (ipotizzando la perdita di parti consistenti della parte iniziale della carota). Per il resto le ridatazioni non hanno determinato variazioni molto significative rispetto ai dati originari.
Il secondo problema riguarda i dati successivi al 1950. Secondo qualche osservatore questi dati sono stati esclusi dal record di dati analizzato in quanto il programma di calcolo utilizzato per la calibrazione dei dati non è in grado di tener conto di quelli successivi al 1950. Questa ipotesi mi sembra piuttosto condivisibile e giustificherebbe il fatto che gli autori del paper abbiano lasciato i valori successivi al 1950 nei set di dati grezzi (liberamente accessibili). Se li avessero voluti nascondere li avrebbero cancellati.
Il terzo problema riguarda la scelta delle serie. Qui mi sento un po’ meno sicuro circa la trasparenza del metodo utilizzato da Marcott et al. Probabilmente le altre serie sono meno complete di quelle utilizzate, ma non ne sono sicuro per cui preferisco sospendere ogni giudizio.
Per concludere una considerazione: ancora una volta ci troviamo di fronte ad un’analisi che, purtroppo, associa dati proxy a dati strumentali. In altre parole si appiccicano i dati derivati da misurazioni attuali (ultimi sessanta anni) a dati che, necessariamente, hanno approssimazioni molto più accentuate di quelli attuali. Ad ogni buon conto mi è sembrato di capire (da una replica di Marcott a S. McIntyre) che gli stessi autori del paper considerino poco robusti i risultati della loro analisi riferiti agli anni a noi più prossimi (quelli successivi al 1890). Sembra, infine, che le obiezioni circa le analisi statistiche avanzate da McIntyre non siano campate in aria in quanto Marcott e gli altri coautori dell’articolo hanno manifestato l’intenzione di aprire una FAQ per chiarire meglio i dettagli del loro lavoro.
Ho passato molto tempo a cercare di capire il senso del lavoro di Marcott et al. 2013 e, per quel che ho potuto constatare, mi sento di condividere alcune considerazioni di R. Rhode riportate nel blog di Revkin. Il lavoro di Marcott et al. 2013 è molto importante in quanto prende in esame una serie di dati proxy che consentono di analizzare in modo piuttosto preciso l’andamento climatico degli ultimi 11.000 anni. Il quadro che emerge da tale ricostruzione conferma, in linea di massima, quanto già conoscevamo per cui rappresenta una robusta verifica delle conoscenze sull’evoluzione climatica dell’ultimo olocene. La principale pecca dello studio, secondo R. Rhode, è l’eliminazione delle oscillazioni climatiche ad alta frequenza in quanto la media mobile è stata eseguita sulla base di un intervallo temporale di 300 anni e, quindi, plurisecolare. Lo studio, pertanto, deve essere considerato di fondamentale importanza per individuare l’andamento climatico a scala millennaria e scarsamente significativo per per intervalli temporali inferiori ai 400 anni. Voler inferire da esso notizie circa l’andamento climatico degli ultimi cento anni, pertano, è del tutto inutile in quanto non possiamo stabilire se negli ultimi 11.000 anni vi siano state oscillazioni ad alta frequenza uguali o maggiori di quella misurata nel corso dell”ultimo quarto di secolo. In altre parole nulla possiamo dire circa l’eccezionalità o meno della velocità con cui è variata la temperatura nel recente passato. In altre parole ancora non sappiamo se le variazioni attuali di temperatura costituiscano la normalità della macchina climatica. A maggior ragione non possiamo dire se esse siano imputabili esclusivamente a cause antropiche, esclusivamente a cause naturali o ad un mix di entrambe.
Ciao, Donato.
Già, però Marcott su SD sottolinea l’eccezionalità del riscaldamento recente. Per l’appunto.
gg
Guido, però, la pubblicità è l’anima del commercio! 🙂
Un poco di “sana” propaganda è necessaria per promuovere la Ditta: chi se li filava se non avessero detto che il loro lavoro dimostra che è “peggio di quanto si potesse immaginare”?
Per quel che ho potuto capire le rassegne stampa e le interviste degli autori del paper poco o nulla hanno a che vedere con i contenuti dello stesso. Dà fastidio, ma che vogliamo farci? Questo passa il convento.
Ciao, Donato.