“Il vino italiano traina il Made in Italy che sale del 5,4%. Coldiretti: boom in Cina di prodotti di dieta mediterranea: +84% import pasta. Esportazione vino supera il fatturato interno”. E’ record del Made in Italy nel mondo per quanto riguarda l’export di prodotti agroalimentari: a fare da traino è il vino che addirittura, nel 2012, è stato venduto all’estero in misura maggiore di quanto è stato consumato dagli italiani. In controtendenza rispetto all’andamento sul mercato nazionale vola il fatturato agroalimentare all’estero dove fa segnare un aumento del 5,4% per un valore record di 31,8 miliardi nel 2012. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti in occasione della diffusione dei dati Istat sul fatturato sulle ordinazioni dell’industria. Perfino i francesi, conclude entusiastica la Coldiretti, sembrano tradire Camembert e Roquefort per i formaggi italiani che segnano +4%, mentre la birra made in Italy avanza in Germania con +11% e nei paesi scandinavi con +19%.
A tanti lettori sarà molto gradita l’ottima notizia che un settore del “made in Italy” non soffre della crisi. Ma visto che i nostri prodotti all’estero non sono certamente a “Km zero” e che il pianeta è unico, l’incremento dell’export dei prodotti agricoli italiani non dovrebbe essere una buona notizia per i fans della “filiera corta” dei prodotti agricoli sempre ed ovunque, della necessità di consumare solo i prodotti locali per proteggere l’ambiente e sviluppare l’economia. “Quanto più allontano la produzione dal consumo tanto più il cibo smette di significare…Cioé non capisco nemmeno che non sto capendo”, è una delle frasi per comprendere l’aspetto culturale del km zero.
Si può pensare quindi che o si è con l’export o con il “km 0”. Invece l’importante e storica Coldiretti, in tempi e comunicati diversi, desidera sia l’export italiano sia i prodotti “autarchici” a “km 0”. Come mai quando è il vino italiano ad andare in Cina spariscono i problemi per l’impronta ecologica? Come mai quando è la birra italiana ad essere venduta in Germania non interessa la rottura della produzione locale “come fatto sociale e culturale nel rapporto tra città e campagna”?
Qualche domanda sorge spontanea: come mai si usano due pesi e due misure? Mica qualcuno penserà che ciò che interessa realmente è vendere i propri prodotti e non difendere il pianeta? Bando ai pensieri cattivi! La regola di alcuni ecologisti italiani sembra semplice: per salvare l’ambiente quando siete in Italia dovete consumare prodotti a “Km zero” mentre quando siete all’estero dovete consumare, e soprattutto far consumare, prodotti italiani. Unica eccezione per gli ecologisti sembrano i prodotti esteri del mercato “equo e solidale”, che seppur a “km 10000” non sono mai visti come nocivi all’ambiente con le loro emissioni per trasportarli.
Non stupitevi. Non è una novità la doppia morale “machiavellica”, “il progresso” rende accettabile all’opinione pubblica che ci sia una morale privata ed una pubblica, una da potente ed una da cittadino, etc. Forse i tanti che propongono una morale basata sull’ecologia, già hanno accettato che possa divenire doppia e con il rischio di apparire lo stravecchio vizio di utilizzare la morale solo quando serve per i propri interessi.
Per tanti ecologisti televisivi la “terra promessa” è un mondo in cui è possibile consumare solo prodotti locali del proprio orto, senza OGM, dove non ci sono auto e treni ad alta velocità, dove la luce artificiale notturna non offusca le stelle, ove non si spreca l’acqua ed anzi si fa la doccia una volta a settimana quando va male (stavo per scrivere “bene” ma mi sono corretto), dove i forestieri che giungono nel nostro territorio ad inquinare e/o per portare le loro merci devono pagare il dazio, in cui al posto dell’energia fossile si deve utilizzare le biomasse (come la legna), dove anziché i soldi si deve effettuare il baratto, anziché la chimica dei medicinali si devono utilizzare rimedi naturali, dove i rifiuti organici devono essere interrati e gli imballaggi non esistono.
Ma questo non è il futuro, è il passato! Era così prima della Rivoluzione industriale e oggi nei paesi sottosviluppati. Servono decenni per costruire una società sviluppata e benestante come la nostra, in essa la vita media si allunga anche se non si tratta del paradiso terrestre, viverci non è semplice ed inevitabilmente, quando la storica prioritaria sfida giornaliera dello sfamarsi sembra scomparire dalle menti delle persone, emergono prepotentemente tanti altri problemi (evidenti a tutti e che vanno affrontati e risolti).
Basterebbe poco per tornare a vivere come nel medioevo o nella preistoria, può esser sufficiente un solo biglietto aereo di andata. Chi vuole realizzare i propri sogni di un “ritorno alla natura” ha la fortuna di poter cominciare a viverlo subito per se stesso in qualche sperduto villaggio ad esempio asiatico o africano; questo per coerenza andrebbe fatto prima di voler convincere gli altri a cambiare il loro modo di vita, intervenendo nei convegni e concedendo interviste facendo il giro del mondo con gli “inquinanti” e criticati aeroplani o con treni ad Alta Velocità. Troppo spesso invece i pasdaran dell’ecologismo vivono nelle città senza mai aver vissuto in contatto con l’agricoltura e la campagna.
Finora, a parte tanta filosofia e bei discorsi, la realtà è che le persone continuano a spostarsi in massa dai paradisiaci villaggi indiani e africani nell’infernale mondo consumista, mentre solo pochi encomiabili missionari compiono il percorso inverso. Tutti masochisti? Non sarà che molto spesso per diventare giustamente critici del consumismo aiuta l’aver prima consumato? Il mondo è complesso e siamo in sette miliardi, le politiche attuali non possono essere illusori slogan per il ritorno ad un’immaginaria epoca del “mulino bianco”, usati a seconda dell’opportunità; occorrerebbe invece “inventare” il futuro sicuri nella Speranza e senza dimenticare gli insegnamenti del passato.
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Questo post è uscito in originale su La nuova Bussola Quotidiana.
A futura memoria, segnalo quanto ha detto pochi minuti fa’ una giornalista RAI che al GR1 commentava un rapporto di Legambiente dedicato al trasporto su gomma: la CO2 emessa dagli automezzi non è solo dannosa per il clima ma anche per la salute dei cittadini. Io credo che l’unica cosa dannosa per i cittadini siano le castronerie che questi minus habens ci propinano a spron battuto e da cui nullo omo vivente po’ scampare (perché sono troppi…).
Articolo esemplare che bene mette in evidenza l’ipocrisia di chi usa l’ecologia per tutt’altri scopi.
Vorrei aggiungere una sola cosa, anche se già s’intuisce in quel che hai scritto, ma lo devo al mio passato, quando mi fecero una testa così che non bisognava costruire gru, che davano lavoro a due sole persone, là dove lavoravano venti persone. Si sarebbero persi 18 posti di lavoro.
Questo sciagurato e falso ragionamento continua, sotto sotto, a far vittime. Eppure è stato sconfessato miliardi di volte, e la gente ha la verità sotto il naso.
Dici bene:
“la realtà è che le persone continuano a spostarsi in massa dai paradisiaci villaggi indiani e africani nell’infernale mondo consumista, mentre solo pochi encomiabili missionari compiono il percorso inverso.”
perché ?
perché in quel mondo dove si fa perdere il lavoro a 18 persone per mettere una gru al loro posto, si crea ricchezza, e quindi si creano posti di lavoro, molti di più di quelli che si perdono.
La gente si sposta
DAI “paradisi” di povertà (dove l’aspettativa di vita può anche scendere al di sotto dei 40 anni)
AGLI inferni inquinati, dove industrie, scie chimiche, veleni vari, tumori hanno portato l’aspettativa di vita al doppio, e più, ben oltre gli 80 anni
http://it.wikipedia.org/wiki/Lista_di_stati_per_aspettativa_di_vita
non avendo percezione di questo miglioramento della speranza di vita, la gente NON si sposta, però, per vivere più a lungo (quella è solo una conseguenza) ma per TROVARE LAVORO, perché il lavoro si trova là dove i 18 lavoratori l’hanno perso, e NON là dove si mantiene la gru per non far perdere il posto ai 18 lavoratori.
Quello che dico è facilmente verificabile.
Pensate pure alla vostra personale esperienza. Chi ha cercato lavoro all’estero, verso dove si è diretto ? Tolti i pochi missionari, magari “volontari”, animati da un fuoco ideologico, e da sentimenti che non hanno nulla a che fare con la convenienza pratica, la gente di buonsenso ha cercato lavoro (se ha dovuto farlo all’estero) in massima parte nei Paesi più sviluppati, o che avessero soldi da investire.
Secondo me.
Caro Fabio,
complimenti per aver messo a nudo uno dei tanti aspetti contraddittori del messaggio di Coldiretti, quello del chilometro zero a senso unico.
Fino a 50 anni orsono a Milano si praticava il chilometro 0 nel senso che ad ottobre a marzo si mangiavano i cavoli, le verze e le rape prodotte nel circondario. Per quel che mi riguarda il fatto di avere oggi i supermercati pieni di frutta anche in inverno è un grandissimo passo in avanti (anche per la nostra salute) che è frutto delle tecnologie di produzione, trasporto, frigo-conservazione. Ricordo anche che se il chilometro 0 si realizzasse veramente, molti agricoltori che producono per i mercati delle grandi città finirebbero sul lastrico. E sul lastrico ci finirebbero non solo i coltivatori Argentini e Cileni (spesso nostri connazionali) ma anche i coldiretti siciliani, calabresi, sardi, pugliesi, ecc. ecc..
Non so francamente chi confezioni i comunicati stampa di Coldiretti. Tuttavia mi stupisco che i soci di tale organizzazione non si rivoltino contro questa valanga di cavolate, che sono poi divulgate dai media senza alcun senso critico, come fossero oro colato.
Segnalo infine l’andazzo tutto coldiretto di indicare ogni evento meteo avverso come una catastrofe per l’agricoltura (cosa poi spesso smentita dalle statistiche produttive di fine campagna). Tale messaggio, divulgato puntualmente dai media, fa lievitare i prezzi e questo a casa mia si chiama aggiotaggio. In un paese normale le informazioni statistiche le divulga l’Istat, da noi lo fanno la Coldiretti e Artigiani di Mestre.
Comunque non agitiamoci perché le cose non cambieranno; basta vedere come i nostri presidenti del consiglio (Monti buon ultimo) si rechino puntuali ai meeting dell’organizzazione, a “baciare la scarpa” nella speranza di voti.
Luigi