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Tre decenni e un terzo di ghiaccio in meno: perché?

Qualche giorno fa è uscito su Science Daily il commento a uno studio di fresca pubblicazione sul GRL. In realtà più che di uno studio si tratta dei risultati di una campagna di misurazione del volume del ghiaccio artico, misure rese possibili recentemente con l’impiego di un satellite europeo, il CryoSat-2.

 

CryoSat-2 estimates of Arctic sea ice thickness and volume

 

Dati riferiti ad un solo biennio, l’ultimo, ma con queste misure e con quelle della missione satellitare GRACE della NASA, questo gruppo di ricerca ha messo a punto un modello con il quale afferma di avere una buona confidenza circa il fatto che il volume della massa glaciale artica sia diminuita di oltre il 30% dall’inizio delle misure satellitari, cioè dal 1979.

 

Curiosamente proprio in questi giorni stavamo ragionando su altri due paper usciti sempre sul GRL con i quali si cerca di affrontare il tema delle cause di questa diminuzione. In realtà questi scritti non sono in relazione tra loro, però, pur affrontando il tema in modo differente, finiscono in parte per essere in contraddizione.

 

 

Il primo di questi si concentra essenzialmente sull’area artica e, utilizzando le simulazioni climatiche impiegate dall’IPCC, prova a verificare l’esistenza di forcing interni o esterni che mostrino un elevato livello di correlazione con il trend di diminuzione dei ghiacci. Non trovando alcun forcing interno che soddisfi questa ipotesi, gli autori dichiarano e mostrano che l’unico forcing che mostri un buon livello di correlazione con questo trend è quello della CO2. Sicché, senza specificare attraverso quale meccanismo questa correlazione divenga un rapporto causale e senza chiedersi come mai un forcing globale quale quello dell’aumento della concentrazione di anidride carbonica abbia effetti così tangibili sulla calotta artica settentrionale e ne abbia di minimi o intangibili su quella meridionale, scopriamo ancora una volta che il ghiaccio diminuisce perché aumenta la CO2.

 

Il secondo articolo da’ decisamente più soddisfazione. Come si recepisce immediatamente dal titolo, si tratta di uno studio che riguarda le dinamiche delle masse glaciali di entrambe le calotte polari. L’analisi, partendo dalle informazioni relative alla stagione dello scioglimento e a quella di nuovo congelamento, identifica un aumento consistente della durata del periodo delle “acque libere” in area artica, un aumento altrettanto consistente per una porzione dell’Antartide, più precisamente la Penisola Occidentale, e una diminuzione invece dell’esposizione dell’acqua alla radiazione solare per il versante orientale sempre dell’Antartide. Trovando una correlazione positiva tra l’anticipo dello scioglimento e il ritardo nel congelamento e non trovandone alcuna nel processo opposto, gli autori giungono alla conclusione che il fattore dominante sia da identificarsi con il feedback positivo innescato dalla diminuzione dell’albedo, ovvero dalla maggior quantità di energia ricevuta dalla superficie liquida dalla radiazione solare. Di non trascurabile importanza, inoltre, il forcing esercitato dalla ventilazione, ovvero dalla disposizione delle anomalie bariche in grado di generare flussi nei bassi strati tali da favorire il deflusso dei ghiacci lontano dalle calotte polari con conseguente scioglimento più abbondante.

 

Si entra dunque nel merito delle dinamiche della circolazione atmosferica, cioè del motore della redistribuzione del calore sulla superficie del Pianeta. Leggiamo dal paper che le situazioni capaci di innescare il feedback positivo per aumento della stagione delle acque libere risultano essere in relazione con la fase positiva degli indici barici emisferici, la NAM e la SAM, fase che sembrerebbe essersi accentuata in seguito ad uno shift della circolazione atmosferica i cui effetti appaiono tangibili a partire dagli anni ’80 nell’emisfero nord e dagli anni ’90 in quello sud. Il fatto che le variazioni delle dinamiche glaciali appaiano più graduali rispetto alle modifiche della circolazione atmosferica, può spiegarsi con le caratteristiche delle dinamiche stesse, soggette a risposte abrupte, tipiche di un sistema che collassa in modo istantaneo a fronte di un forcing graduale, concetto questo identificabile anche dai grafici della figura 2 dell ‘articolo. Si potrebbe configurare quindi una catena causale tipo la seguente, avvalorata, sebbene non esplicitamente dagli stessi autori:

 

 

  • Maggiore disponibilità di energia nella fascia intertropicale (per cause che qui non sono oggetto di indagine) →
  • Il sistema risponde irrobustendo la Cella di Hadley che quindi porta la sua energia più a nord di quanto facesse in precedenza (escludendo dal computo le fiammate dovute agli eventi di EL NINO) →
  •  Il limite di azione dei gradi anticicloni subtropicali si porta più a Nord (ed in Europa lo notiamo dalla maggiore frequenza e persistenza dei promontori subtropicali da sud o sudovest) →
  •  Si irrobustiscono le westerlies, le quali attraverso onde sparse su una vasta gamma di scale (onde di Rossby, onde di Bjerknes, vortici a mesoscala…) trasferiscono energia verso le alte latitudini.

 

Con questa catena causale trovano spiegazione anche:

 

  •  Il fatto che le temperature nella fascia intertropicale salgano poco (la cella di Hadley in quanto cella convettiva diretta trasferisce l’energia con grande efficienza)
  • Il fatto che il ghiaccio marino duri meno (è eroso dalle westerlies sia per effetto dei venti sia per la maggiore energia trasportata verso nord)
  • Il fatto che il ghiaccio marino sul versante orientale dell’Antartide (meno esposto all’effetto delle westerlies di quanto lo sia la penisola antartica) non vada in crisi, anzi aumenti (e con questo vale la pena chiedersi se il fatto che non vada in crisi sia da legare ad una tendenza del sistema a virare verso il freddo in virtù della più ridotta attività solare).

 

Lo schema indicato dovrebbe essere poi ulteriormente complicato prendendo in considerazione le dinamiche oceaniche, anch’esse responsabili di una parte consistente del trasporto di calore dalle basse alle alte latitudini.

 

Sicché, con le dovute riserve rispetto al fatto che in un sistema regolato dai feedback individuare l’esatta direzione delle relazioni causali è forse impossibile, se si considera l’innesco del feedback positivo come un fatto successivo alla tendenza all’aumento della lunghezza della stagione delle acque libere, almeno l’innesco di questa dovrebbe in prima istanza essere imputato allo shift delle westerlies, cioè degli indici barici emisferici, il cui verificarsi è “curiosamente” prossimo in termini temporali al cambiamento di fase degli indici oceanici (PDO e AMO), cambiamento presumibilmente prossimo ad una nuova inversione, comunque avvenuto in modo tutt’altro che graduale e quindi difficilmente relazionabile all’azione di un forcing esogeno (leggi CO2 antropica) con azione lineare. E qui troviamo la contraddizione con il primo di questi articoli.

 

Infine, come mera considerazione a latere, vale la pena anche ricordare che nel periodo caldo medioevale, che secondo proxy vegetali avrebbe goduto di una anomalia positiva persistente delle westerlies durata circa 200-300 anni (si veda in proposito l’articolo di Trouet et al. apparso nel 2009 su Science), i vichinghi sfruttarono molto per i loro grandi viaggi il lungo periodo di assenza di ghiacci, forse simile a quello di cui parliamo oggi. Non è dato sapere cosa facessero i ghiacci antartici all’epoca, ma di sicuro sappiamo che al riguardo non si possa certamente parlare di forzanti estranee al sistema.

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Published inAttualità

6 Comments

  1. donato

    Bell’articolo! La cosa più interessante del post, almeno per me, riguarda le considerazioni svolte a proposito dello shift degli anni ’80 e ’90 del 20° secolo dei patterns circolatori atmosferici. Queste discontinuità improvvise che segnano il passaggio da uno stato di equilibrio del sistema ad un altro, rafforzano sempre di più la mia idea di sistema atmosferico (che ho mutuato da J. Curry, per essere precisi): un sistema caotico caratterizzato da punti di equilibrio all’interno dello spazio delle fasi e regolato da diversi attrattori. Il passaggio del sistema da uno stato di equilibrio all’altro non avviene con continuità, ma in modo discreto. Un esempio, molte volte citato da L. Mariani, lo troviamo nel caso dei ghiacci artici: analizzando il grafico dell’estensione della calotta artica, infatti, si nota chiaramente il passaggio da un plateau ad un altro intorno alla metà del decennio 2000-2010. Successivamente l’estensione dei ghiacci artici si è mantenuta più o meno costante intorno ad un valore medio inferiore a quello precedente e presenta delle oscillazioni maggiori di quelle registrate in passato. Stesso discorso potrebbe farsi per le temperature, il livello dei mari e via cantando. Chi determini le discontinuità ed il passaggio da uno stato di equilibrio all’altro dovrebbe essere oggetto della ricerca scientifica. Invece, mi sembra, che tutti corrano appresso alla CO2 in quanto causa di ogni male. Proprio oggi su Le Scienze di gennaio leggevo un breve articolo del prof. A. Pasini riguardo ai temporali intorno alle grandi aree urbane. Nell’articolo, in modo corretto secondo me, si imputava all’effetto isola di calore urbano un aumento delle occorrenze temporalesce sulle città. Un ulteriore causa sarebbe costituita dal pennacchio di inquinanti che staziona sui grossi centri. Queste due cause determinerebbero sulla circolazione atmosferica un effetto simile a quello delle catene montuose e, quindi, una modifica delle correnti e della frequenza dei temporali. Lo zampino dell’uomo è bello evidente, ma la povera CO2 in questo caso mi sembra innocente. Ecco, mi piacerebbe che, come in questo caso, i ricercatori pensassero di meno alla CO2 e si occupassero di più delle altre cause degli eventi atmosferici e climatici.
    Ciao, Donato.

    • Interessante Donato puoi farci avere qualche riferimento? Sai, qualche anno fa girava voce che l’inquinamento cittadino le piogge le inibisse, causa le ridotte dimensioni del particolato che partecipa alla nucleazione. Poi ancora sembrava invece che piovesse meglio nei giorni feriali, per ovvi motivi di traffico e con grande gioia dei cittadini. Oggi, l’isola di calore, che sappiamo non avere nuuuulla a che fare con le temperature medie, è tale da innescare sonori scrocchioni (perdona il gergo tecnico, mi sono lasciato andare). Tutto ciò è affascinante.
      Scherzi a parte, tieni conto solo del primo periodo del mio commento.
      gg

    • donato

      Guido, l’articolo di A. Pasini fa riferimento ad un paper in corso di prepubblicazione su Atmosspheric Research on line a firma di Sylvain Coquillat et al.
      ciao, Donato

    • luigi Mariani

      Io l’idea di un effetto di incremento delle precipitazioni per effetto urbano ce l’avevo da tempo a seguito della lettura di bibliografia relativamente datata. Ne parla ad esempio Oke nel suo bellissimo Boundary layer climates (Methuen, 1978) dicendo che le urban plumes (pennacchi urbani) sono fonte di nuclei di condensazione che accentuano la precipitazione sottovento alle città.

      Inoltre ricordo:

      1. le considerazioni che anni fa mi faceva un amico che aveva analizzato le serie storiche di parecchi pluviometri meccanici posti in area urbana milanese e che ne aveva dedotto il fatto che la città pare comportarsi come una montagna, accentuando le precipitazioni

      2. le considerazioni di Thor Bergeron, illustre meteorologo della scuola di Bergen , il quale studiando con una rete fittissima di pluviometri manuali (con passo grossomodo di 500 m) la distribuzione delle piogge in Svezia aveva evidenziato (per la verità con riferimento alle zone di duna prospicienti alla riva del mare) il fatto che un cambiamento di scabrezza delle superfici genera onde stazionarie che di propagano verso l’alto accentuando la precipitazione. Questo c’entra con le città in quanto si tratta di aree assai più scabre rispetto alla campagna circostante.

  2. max pagano

    terza riga: ghiaccio artico, non “ANTARTICO”…. 🙂

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