Il mio SUV, ma anche il vostro o, se preferite, la vostra utilitaria, è un jet. Ma non nel senso del motore a reazione, piuttosto nel senso del jet stream, ossia il veloce flusso ad alta quota che separa l’aria polare da quella delle medie latitudini e quest’ultima dall’aria sub-tropicale.
Il jet stream, o corrente a getto, è il motore della circolazione atmosferica a livello emisferico, dove il calore ricevuto dal Sole ne è invece il carburante. Volendo potremmo andare avanti parecchio con i paragoni tra un mezzo meccanico e la circolazione dell’aria attorno al Pianeta, ma per il momento ci fermiamo qui.
Ci basti sapere che le oscillazioni latitudinali e longitudinali della corrente a getto polare determinano la rotta delle perturbazioni. Quella che stiamo vivendo per esempio è una stagione che sta vedendo il getto polare muoversi a latitudini piuttosto basse, sicché le perturbazioni viaggiano basse e la stagione è piuttosto piovosa. I “puristi” del meteo mi perdoneranno per questa descrizione a dir poco grossolana, ma ne avevo bisogno per preparare l’argomento di oggi.
Si parla, chi l’avrebbe mai detto, del riscaldamento globale e delle sue possibili origini, ma con una differenza rispetto al solito – questa sì è una novità – non c’è di mezzo la CO2, almeno non nella discussione.
Infatti oggi parliamo di “calore di scarto” (dall’inglese waste), ossia di tutto il calore che viene quotidianamente prodotto dalle attività umane. Combustioni, attriti, funzionamento di motori di ogni genere, illuminazione, riscaldamento, insomma tutto. Naturalmente, la maggior parte di questo calore si concentra dove si concentrano le attività umane, ovvero nelle aree densamente popolate e/o ad alta densità industriale. A qualcuno sarà già venuto in mente il ben noto “effetto isola di calore”, ossia quella componente di modifica del microclima delle aree urbane di cui abbiamo discusso molte volte e su cui è ancora il dibattito circa il potenziale contributo positivo all’osservato aumento delle temperature medie superficiali. Non è di questo che stiamo parlando. Quell’effetto è da intendersi comunque in modo “passivo” cioè generato dalle modifiche delle condizioni ambientali che di fatto alterano la risposta del territorio alla radiazione entrante e successivamente restituita. E non è neanche un problema riconducibile alle emissioni perché i gas serra contribuiscono con la loro concentrazione ad assorbire e riemettere la radiazione uscente in tutto lo strato atmosferico, supponendo comunque che questi siano bene ed equamente distribuiti sia sul piano orizzontale che su quello verticale. Nella fattispecie si parla di calore generato e disperso in atmosfera attraverso la conversione di altre forme di energia.
Già alcune settimane fa Roy Spencer aveva pubblicato un breve post in cui facendo un paio di calcoli relativi però ai soli Stati Uniti, metteva in paragone la quantità di calore disperso con il presunto forcing radiativo della CO2 per come lo quantifica la letteratura scientifica. Numeri da non trascurare, specie se si tiene conto del fatto che mentre il forcing radiativo è di fatto continuamente equilibrato dal riscaldamento, il calore disperso continua a fornire calore in modo costante. Alla fine, secondo Spencer e con riferimento al territorio USA, il forcing del calore disperso è paragonabile al 50% di quello da CO2.
Qualche giorno fa su Science Daily è uscito un articolo che descrive il contenuto di un paper pubblicato su Nature Climate Change:
Energy consumption and the unexplained winter warming over northern Asia and North America
I ricercatori hanno calcolato quello che ritengono essere in termini di energia il calore perduto prodotto dalle attività umane e, con l’ausilio di un modlelo climatico, hanno “trovato” che questa quantità di calore, specialmente in quanto concentrata su aree cosiddette sensibili per la circolazione generale atmosferica e sebbene ammonti ad un mero 0,3% della quantità di calore trasportata fuori dai tropici dalla circolazione atmosferica e marina, è potenzialmente in grado di imprimere delle modifiche alla rotta delle correnti a getto, di fatto quindi estendendo i suoi effetti molto lontano da dove viene generato e soprattutto alterando le condizioni atmosferiche e/o climatiche in funzione appunto di queste oscillazioni evidentemente non naturali. Naturalmente, raccontano, questa scoperta potrebbe essere utile a capire come mai le osservazioni sul comportamento delle temperature medie in alcune zone del mondo siano molto differenti rispetto a quello che ci si dovrebbe attendere in un clima sì antropicamente modificato, ma comunque con il solo effetto della CO2.
Insomma, siamo alle prese con un altro tentativo di modellazione. Non necessariamente questo deve essere un male, in fondo l’impiego corretto dei sistemi di simulazione è esattamente quello dello studio dei meccanismi ancora poco noti, non quello delle prognosi centenarie a cui siamo abituati. Il fatto è però che a prescindere dal contributo antropico e dalle forme che ad esso si possono dare – direi valga la pena precisare che nelle proiezioni IPCC di tutto questo non c’è alcuna traccia – non c’è affatto bisogno di far camminare i treni, cioè di produrre calore, per vedere la rotta delle correnti a getto oscillare anche molto lungo la latitudine, sia nel breve, che nel medio, che nel lungo periodo anche climatico. Anzi, e con questo vi anticipo una serie di lavori che tra poco inizieremo a pubblicare su CM, è proprio dalla latitudine alla quale si muove il flusso zonale che dipendono in larga misura le fasi climatiche. Sicché non vorremmo che in presenza di una chiara tendenza del flusso zonale a restare alto di latitudine nelle ultime decadi del secolo scorso, quelle cioè dell’allarme global warming, si stia cercando una spiegazione fornendo alla replica di un sistema ancora poco conosciuto una spiegazione che non tiene conto delle attitudini del sistema stesso.
Se a qualcuno fosse sfuggito, nella prima decade di questo secolo, la musica del tempo, del clima e, soprattutto, delle temperature è cambiata perché il flusso zonale ha ricominciato a guadagnare terreno verso sud. Se di alterazione antropica della rotta del getto si poteva parlare prima, non si può continuare a farlo oggi e viceversa. E questo vale anche per il forcing radiativo da CO2: se nelle ultime decadi del secolo ha fatto aumentare le temperature governando indisturbato il clima del Pianeta, siamo ancora in attesa che qualcuno ci spieghi perché ha smesso di farlo.
Ho avuto di recente l’occasione di studiare le rianalisi NOAA – Ncep applicate alla topografia di 850 hPa per il periodo 1 marzo-31 agosto (che in Europa è la stagione vegetativa) sul periodo che va dal 1968 al 2011.
Tali rianalisi mostrano che il limite medio dell’area d’influenza dell’anticiclone delle Azzorre (convenzionalmente indicato dall’isoipsa di 1490 m), che si collocava in media sull’Appennino Tosco Emiliano nel periodo 1968-87, risulta collocato mediamente sulla Francia del Nord nei due periodi successivi 1988-2003 e 2004-2011.
La mia diagnosi è che il fatto che la posizione media dell’isoipsa di 1490 m non cambi significativamente nel periodo 2004-2011 rispetto al 1988-2003 sta a indicare che ci stiamo confrontando con una nuova fase climatica stazionaria inauguratasi nel 1988 e con cui dobbiamo fare i conti.
Quanto sopra per dire che il clima in Europa è cambiato nel 1987 e che tale fenomeno si è manifestato attraverso un brusco mutamento della circolazione, con la posizione del getto e del fronte polare e delle stormtracks collocate decisamente più a nord. Le conseguenze di tale cambio di fase sono state:
– sul sud Europa: temperature mediamente più alte di 1.5°C e contrazione delle precipitazioni (anche se quest’ultimo fenomeno si evince con assai minore chiarezza analizzando le serie storiche)
– sul nord Europa: temperature mediamente più alte di 0.5°C e aumento delle precipitazioni.
Capire cosa è l’origine del cambio di fase del 1987 è una sfida conoscitiva tuttora aperta nel senso che la scienza non è oggi in grado di dire se all’origine stia la CO2 o l’attività solare o le emissioni antropiche di calore sensibile o …
Circa le emissioni antropiche di calore sensibile il discorso si fa a maggior ragione complicato in quanto tali emissioni avvengono nel boundary layer (BL) e cioè quello strato che ha spessori compresi fra poche decine di metri e 1500-2000 metri e che sovrasta il suolo. A quanto ne so ogni segnale energetico che si genera all’interno del BL per “parlare” con il clima globale deve portarsi dal BL alla libera atmosfera (free atmosphere FA), il che può avvenire unicamente tramite i meccanismi di convezione. Il problema che abbiamo di fronte è che la descrizione di come BL e FA parlano fra loro tramite i meccanismi convettivi è anche di qualità scadentissima nei nostri modelli e questo getta un’alea considerevole sui risultati presentati su Nature climatic change.
Pertanto se pur mi rendo conto che non possiamo mettere la testa sotto la sabbia, mi parrebbe più onesto dichiarare la nostra ignoranza che non vantare risultati ottenuti con delle “scatole nere”(i modelli GCM) che dovrebbero nutrirsi di una teorie non ancora sufficientemente assestate. E qui mi rendo conto di aver scritto parole analoghe in tema di vortice polare, fisica dei corpi nuvolosi e delle precipitazioni, tutti temi che i modelli climatici globali descrivono oggi “in qualche modo” chiamandoci in sostanza ad atti di fede circa la bontà il loro risultati.
L’inquinamento dell’ambiente esterno è ormai oggetto permanente di preoccupazione generale, sia per quanto riguarda i suoi aspetti contingenti, ormai costantemente seguiti, specialmente nei grossi agglomerati urbani, dove essi si fanno maggiormente sentire, sia per le conseguenze a lungo termine, oggetto di vivaci discussioni in tutto il mondo, dalle quali emergono con sempre maggiore frequenza previsioni catastrofiche, che non possono non richiamarci alle nostre responsabilità verso le generazioni future. Non c’è dubbio comunque che, anche se per il lungo termine si sommano agli effetti delle attività umane le lente modificazioni naturali (finora ben poco comprese) del clima del nostro pianeta, tuttavia per l’immediato sono le nostre attività a influire negativamente sulla qualità dell’ambiente e i responsabili principali, specialmente per l’aria, sono i processi di combustione, che da alcuni decenni noi attuiamo in una misura di vari ordini di grandezza superiore ai passati secoli e millenni. La disponibilità di combustibili fossili a basso costo ha favorito Io sviluppo senza precedenti di industrie, trasporti e benessere abitativo, ma ha avuto e avrà pesanti conseguenze, i cui costi solo in parte sono già emergenti.
Dello stesso argomento oggi si è occupato un servizio di TGR “Leonardo”. La cosa mi ha incuriosito non poco per uno dei motivi citati da G. Guidi nel suo post: la non corrispondenza tra i valori delle temperature misurate e quelli previsti dai modelli GCM basati sul forcing antropico della CO2. Nel servizio si metteva in evidenza che ad un “riscaldamento” degli inverni nord americani, faceva da contraltare un “raffreddamento” di quelli europei e la causa, come appunto ci spiegava G. Guidi, deve essere ricercata nel flusso zonale che sposta enormi quantità di energia da un punto all’altro del globo (il servizio trasmesso, infatti, iniziava con la constatazione che un eremita che vive a 1500 km dalla città risente del calore prodotto in città 🙂 ).
Mi ripromettevo di approfondire la questione previa ricerca del documento cui si riferiva il paper. Colgo l’occasione per ringraziare G. Guidi di avermi risparmiato la fatica della ricerca. Il tempo risparmiato, comunque, è stato utilizzato per questo breve commento. Se dovesse essercene bisogno tornerò sull’argomento (dopo aver studiato, ovviamente 🙂 ).
Ciao, Donato.