Leo Hickman, giornalista del Guardian una testata tutt’altro che tenera sui temi dei cambiamenti climatici, ha pubblicato un pezzo sul WMO Bullettin, la rivista semestrale dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale.
L’argomento è quello degli eventi estremi e della loro attribuzione alle oscillazioni del clima, naturalmente partendo dal presupposto che queste debbano essere ascritte alle attività umane.
Senza girarci troppo intorno, nell’articolo di Hickman, l’approccio è quello giusto, lo svolgimento no. In sostanza Hickman ci dice che ogni volta che un evento intenso si palesa, c’è sempre qualcuno pronto ad attribuirlo al climate change e qualcun altro che dice che non si può ascrivere un singolo evento atmosferico al clima. Ma, aggiunge, data l’attualità, con la siccità negli USA la scorsa estate per esempio, sembra proprio che questa opposizione cominci ad essere meno solida.
Per accertarlo Hickman chiede cosa ne pensano a otto “esperti” di clima, tutti rigorosamente appartenenti al mainstream scientifico.
Il primo a rispondere è Kerry Emmanuel, che apre le danze con un intervento molto sensato. Secondo lui infatti, l’unico modo per poter affermare che gli eventi intensi possano cambiare in ragione di una eventuale tendenza del clima a cambiare, è stabilire se per questi è in qualche modo cambiata la loro probabilità di occorrenza, e lascia chiaramente intendere che su questo si sta ancora lavorando.
Peter Stott, il secondo ad essere chiamato in causa, è più o meno della stessa opinione di Emmanuel, pur ritenendo però che stia diventando sempre più chiaro che le probabilità di occorrenza di eventi intensi come le ondate di calore o le alluvioni stiano aumentando. Parla anche di un apposito progetto di ricerca che starebbe sviluppando il meto Office al riguardo, salvo però non dare alcuna indicazione di merito circa i risultati di queste ricerche.
Poi è la volta di Michael Mann, l’uomo del famigerato Hockey Stick, cioè della contestatissima curva delle temperature medie superficiali globali dell’ultimo millennio. Secondo lui non c’è dubbio, stiamo vivendo le “conseguenze del climate change già oggi nel tempo di tutti i giorni”. Per spiegarcelo Mann si rifà alle tesi di James Hansen (senza dirlo però), secondo il quale la giusta analogia da utilizzare è quella dei dadi truccati. Modificando la concentrazione di CO2 in atmosfera avremmo aumentato le probabilità di uscita del sei, dove con il sei si intendono appunto gli eventi estremi.
A seguire Clare Goodness, secondo la quale anche se non sarà mai probabilmente possibile capire se questo o quell’evento atmosferico sia o meno attribuibile al contributo antropico alle dinamiche del clima, quel che potrebbe essere fatto, e sotto certi aspetti è stato fatto, è stimare fino a che punto le attività umane abbiano aumentato il rischio di occorrenza di questo genere di eventi.
Secondo Doug Smith, il cambiamento climatico inevitabilmente finirà per modificare l’intensità e la frequenza di occorrenza degli eventi estremi. La difficoltà tuttavia, egli dici, consiste nel capire il contributo al singolo evento. Secondo lui gli studi di attribuzione sono ancora in corso.
Nel sesto contributo di Michael Oppenheimer tornano i dadi truccati. Per qualche specifica categoria di eventi estremi, egli dice, la confidenza del contributo antropico nella loro frequenza di occorrenza starebbe aumentando. Cita l’ondata di calore in Europa del 2003 e quella in Russia del 2010.
E’ la volta poi di Harold Brooks, tutt’altro che convinto che il cambiamento climatico di origine antropica abbia portato o possa portare eventi estremi più intensi. Se si parla di aumento della temperatura media, egli dice, chiedersi se questo possa portare ondate di calore più frequenti è leggittimo e semplice, ma la risposta è attualmente conservativa. Uno o due gradi di temperatura media in più in che modo possono alterare i flussi atmosferici al punto di generare le condizioni necessarie a questi eventi? E ancora, date la ttuali conoscenze circa gli ingredienti di eventi come gli uragani o i tornado, è probabile che un clima che cambia aumenti le probabilità per alcuni di questi e le diminuisca per altri, lascando quindi inalterato il trend di lungo periodo.
A chiudere è Michael Wehner, l’unico che fa una previsione. nel citare anch’egli le ondate di calore del 2003 in Europa, del 2010 in Russia e del 2011 in Texas, si dice convinto che queste sarebbero potute arrivare anche senza contributo antropico, ma la probabilità di occorrenza è comunque aumentata. Ancora, sempre secondo lui, questi eventi estremi per la fine del prossimo secolo ci sembreranno un tipo di tempo normale.
Bene, siamo arrivati alla fine, l’articolo, anzi, l’intera pubblicazione la trovate qui. Ora facciamo un paio di riflessioni.
Quel che lascia un poò sconcertati è che i pareri di alcuni degli intervistati sembrano essere molto distanti dalle posizioni del Report sugli eventi estremi dell’IPCC uscito nel 2011. In quel documento, se con riferimento alle ondate di calore si è espressa in effetti una certa confidenza nella possibilità di attribuirne le dinamiche all’aumento delle temperature medie superficiali, per “il tempo di tutti i giorni”, anche e soprattutto quello estremo, l’IPCC ha detto chiramente che non è possibile ad oggi fare alcun discorso attendibile di attribuzione.
Insomma, più caldo più tempaccio, dicono gli esperti in questo articolo, difficile a dirsi dicono gli esperti se chiamati a prendere in esame la letteratura disponibile, cioè in ambito IPCC.
Tanto per aggiungere un po’ di pepe alla discussione, vi consiglio di andare a dare un’occhiata a questo progetto di ricerca, i cui risultati sembrano attribuire al Periodo Caldo Medioevale temperature medie più alte delle attuali e individuare una maggiore frequenza di occorrenza di eventi intensi ai periodi freddi come la Piccola Età Glaciale piuttosto che a periodi caldi come il MWP. Quello attuale, naturalmente, è un periodo caldo.
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