Per una volta con “verde” si intende quello vero, quello delle piante, altrimenti avremmo usato il termine green, molto più di moda e accattivante.
Dunque, secondo Science Daily, o meglio, secondo gli autori dello studio oggetto del loro approfondimento, la rivoluzione verde, cioè la crescita inarrestabile della resa della produzione agricola a livello mondiale starebbe battendo il passo.
Dall’analisi dei dati disponibili infatti, avrebbero ricavato che, con specifico riferimento ad alcune materie prime alimentari, negli ultimi anni si sarebbe registrata una stasi o addirittura un rallentamento della produttività. Più precisamente, la percentuale di aree che avrebbero fatto registrare questi trend oscillerebbe tra il 24 e il 39% della superficie coltivata sottoposta ad esame.
Uno degli elementi salienti del loro studio è quello che mette in evidenza come i raccolti di materie prime alimentari utilizzate per la produzione di cibo avrebbero subito un rallentamento più significativo di quelli dei vegetali coltivati per produrre mangimi o biocarburanti, segno che è stata prestata più attenzione a nutrire gli animali da allevamento e a produrre carburante che alla sicurezza alimentare delle centinaia di milioni di persone la cui sopravvivenza dipende da quei raccolti.
Il resto, che merita la lettura soprattutto perché per una volta non si fa alcun riferimento al clima che cambia e cambia male, lo trovate appunto su Science Daily e su Nature Communications, che ospita lo studio vero e proprio.
“in Italia ad esempio vi sono 9 milioni di ettari di bosco (una superficie quasi raddoppiata in 100 anni)…. che aspettano di essere gestiti in modo razionale….”.
Caro Luigi, le tue sono parole di una razionalità ed un pragmatismo unico, ma (purtroppo) non troppo politicamente corrette: come diavolo possiamo fare per farle entrare nella zucca di chi si oppone in nome di un ambientalismo d’accatto, senza se e senza ma, ad ogni azione di razionalizzazione della copertura vegetale del nostro Paese?
Una simile scelta potrebbe consentire di creare migliaia di posti di lavoro, di rendere più resistenti agli incendi immensi patrimoni boschivi, di presidiare il territorio come si faceva una volta e arginerebbe lo spopolamento delle nostre aree interne (questo per citare solo alcuni dei vantaggi di questo tipo di politiche). Purtroppo, però, da questo orecchio ci si sente poco.
Ciao, Donato.
Mi astengo da un commento diretto circa lo studio, cui non posso accedere in quanto la mia università non è purtroppo abbonata all’ennesima rivista del gruppo Nature.
Rilevo comunque che anzitutto non si deve fare del catastrofismo in quanto le rese unitarie (tonnellate per ettaro) delle principali colture continuano ad aumentare, anche se alcune (mais e soia) aumentano più di altre, probabilmente perchè negli ultimi decenni sono state oggetto di maggiori investimenti nella ricerca a livello di genetica e di agrotecniche.
Quanto sopra ci indica che per ridare slancio alla rivoluzione verde sia necessario che anche per frumento, riso, ecc. si investa di più in ricerca sulla genetica (nuove varietà più produttive e più rispondenti alle esigenze di qualità espresse dal mercato), sulle agrotecniche (lavorazioni del terreno, concimazioni, diserbi, difesa dai parassiti, ecc.) e sulle tecniche di conservazione e trasformazione dei prodotti agricoli.
Ultimo aspetto su cui ritengo sia necessaria una riflessione è quello relativo alle colture a fini energetici. Come ho già scritto altre volte mi pare che la destinazione a fini energetici delle colture agrarie (mais, frumento, canna da zucchero, ecc.) debba essere fatta a ragion veduta e cioè a condizione che non si abbia concorrenza con la produzione di cibo.
A tale riguardo non mi si dica che non vi sono alternative: in Italia ad esempio vi sono 9 milioni di ettari di bosco (una superficie quasi raddoppiata in 100 anni) e un’enorme massa di liquami (di origine zootecnica e non) che aspettano di essere gestiti in modo razionale, anche con lo scopo di ottenere biomasse per scopi energetici.