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Giuseppe Gisotti, geologo, mi ha mandato la copertina del suo libro insieme ad una breve nota che ne riassume i contenuti alla quale, con il suo permesso, ho aggiunto alcune considerazioni in ordine al fattore meteorlogico.
Buona lettura.
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Dissesto Idrogeologico
di Giuseppe Gisotti
Abbiamo ottimi ingegneri, geologi, architetti, agronomi, progettisti e pianificatori, ma ciò non impedisce lo squallore di tante costruzioni, di tanti quartieri urbani, lo sconquasso del paesaggio, il dissesto idrogeologico con frane, alluvioni, subsidenza artificiale, ecc.; il disordine urbano e territoriale è sotto i nostri occhi.
Cosa fare? Cosa suggerire?
Bisogna abbandonare il concetto dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita solo economica e abbracciare il concetto della sicurezza e della bellezza innanzi tutto. Rifacciamoci a Vitruvio, il quale diceva che i parametri fondamentali dell’architettura erano la firmitas, la utilitas e la venustas, cioè la struttura statica, ossia la sicurezza, la funzionalità e l’estetica, ossia la bellezza.
Noi discutiamo di eventi che mietono vittime, provocano danni gravissimi, processi che si ripresentano quasi regolarmente e colpiscono spesso gli stessi luoghi. Eppure si fa poco per prevenirli, per evitarli, o almeno per limitare il numero delle vittime e i danni più gravi.
Perché? Si parla da molto tempo, specialmente dall’alluvione del 1966, di investire più risorse economiche nella prevenzione e riduzione del rischio, ma queste risorse sono sempre insufficienti, come faceva rilevare la Commissione De Marchi nei primi anni ’70.
Ma, secondo me la causa principale delle vittime e dei danni non sta tanto nella scarsezza delle risorse economiche per la lotta al dissesto, quanto nell’uso dissennato del territorio e delle sue risorse, che deriva dalla concezione sempre più utilitaristica delle risorse naturali, usate per ricavare il massimo profitto nel minor tempo possibile.
La questione della privatizzazione dell’acqua è esemplare a questo riguardo. Adesso si è aggiunta la prevista privatizzazione delle spiagge.
In questi anni è emerso anche il fenomeno (naturale o artificiale? ai posteri l’ardua sentenza) dei cambiamenti climatici.
Sappiamo tutti della fragilità geomorfologica del nostro territorio, della scarsità/vulnerabilità delle risorse naturali, della naturale pericolosità meteorologica, ma a maggior ragione la nostra società dovrebbe essere molto più attenta nell’utilizzo del territorio, cosa che invece non avviene.
Non solo i precedenti danni da alluvioni e frane, ma anche quelli più recenti, sono dipesi dalla nostra sottovalutazione dei naturali processi geologici, idrologici e meteorologici, dall’aver considerato il territorio come un supporto inerte e non soggetto a delicati equilibri geodinamici. I casi di Scaletta Zanclea (una colata rapida di fango nel 2009) e di Soverato (un’alluvione nel 2000) sono solo degli esempi. Il camping a Soverato aveva occupato lo spazio naturale del corso d’acqua, era una “zona a rischio idrogeologico” riconosciuta dalla Regione, malgrado questo è stato tollerato; altra “tragedia annunciata”. Il Consiglio dei Ministri per l’occasione proclama lo stato di emergenza: è il solito ritornello.
Di chi è la colpa? Di alcuni privati che costruiscono abusivamente nelle aree a rischio, ma anche di tanti pubblici amministratori che autorizzano costruzioni in zone al alta pericolosità idrogeologica, di pubblici dipendenti con funzioni di controllo tecnico che “chiudono gli occhi”, di alcuni liberi professionisti che in modo superficiale, con la scusa di “portare a casa la pagnotta”, danno il loro assenso, firmano progetti di opere ad alto rischio.
Un mistero è quello per cui si continua a costruire decine di miglia di nuove abitazioni, quando ve ne sono altrettante vuote, nelle città come nei paesini; costruzioni che spesso vanno a occupare aree ad alto rischio idrogeologico ( o già soggette a frane o alluvioni).
Ritornando a quanto detto all’inizio, la nostra società, quella occidentale in genere ma quella italiana attuale in particolare, ha perduto il senso della misura, prevale l’interesse “particulare” e la corsa al profitto e allo sfruttamento accelerato di tutto ciò che abbiamo sottomano, non solo non interessandosi di ciò che lasceremo alle prossime generazioni (quindi niente sviluppo sostenibile), ma provocando danni spesso immediati a noi stessi, con ciò vanificando la nostra presunta intelligenza o meglio furbizia.
I possibili rimedi? Anzitutto si tratta di comportamenti sociali: è necessaria una migliore coscienza civile da parte dei cittadini e dei politici e amministratori, coscienza che secondo me non è mai scesa così in basso come in questi ultimi anni.
Gli interventi strutturali di recupero certamente sono utili, ma servono anzitutto interventi non strutturali, cioè una a corretta pianificazione territoriale e urbanistica. Qui entra il discorso che, a causa della scarsità delle risorse finanziarie, conviene abbandonare alcuni siti, territori o centri abitati, a rischio troppo elevato, dove non conviene intervenire poiché i costi economici e di risanamento strutturale sono troppo elevati.
Inoltre è opportuno che i tecnici del territorio siano più ascoltati e le loro suggerimenti vengano messi in pratica da chi governa il territorio: i geologi e gli ingegneri idraulici perché conoscono i processi idrologici e geomorfologici che governano i dissesti, e sanno dove si manifesteranno tali fenomeni calamitosi, dato che essi si ripresentano periodicamente nelle stesse località; ma bisogna sentire anche i meteorologi, perché fra i tre parametri che controllano i dissesti, aspetto geologico/morfologico, opere umane sulle quali impattano i fenomeni catastrofici, è sempre più determinante il terzo aspetto, quello dei fenomeni atmosferici. Infatti le piogge molto intense che in questi ultimi anni hanno provocato la devastazione delle Cinque Terre, della Lunigiana, del Messinese, provocando oltre che ingenti danni anche morti e feriti, sono eventi di cui è purtroppo ricca la nostra storia e ad oggi non è dato sapere se questi stiano subendo o meno una modifica in qualche modo collegabile alle dinamiche climatiche, quindi bisogna prenderli seriamente in considerazione per effettuare una strategia di previsione-prevenzione, anche attraverso l’allertamento delle popolazioni, con congruo anticipo di tempo, al fine di prepararle al peggio.
Infine, non si può non tener presente una importante opzione nello sviluppo di nuove politiche di difesa del suolo: è la logica della adaptation (o adattamento), che si basa sulla necessità di adattare gli insediamenti e lo stile di vita alle condizioni del clima (vedi Settimo Programma Quadro dell’Unione Europea). Aspetto questo, che, a pensarci bene, rappresenta quello che l’uomo ha sempre fatto, ma che curiosamente oggi sembra essere importante solo in ragione di cambiamenti (reali o presunti?) sopraggiunti nelle ultime decadi.
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Concordo pienamente con le riflessioni dell’amico Giuseppe Gisotti, fondatore e Presidente della SIGEA (Società Italiana di Geologia Ambientale). E’ assurdo che tuttora si abbiano perdite di vite umane a causa di frane ed alluvioni. Il concetto corretto “bisogna correre avanti alle calamità naturali e non dietro” solo a parole è stato accettato anche dai politici, in maniera da far prevalere attività di prevenzione a quelle di risanamento dopo i guasti. In pratica invece prevale la consuetudine di intervenire dopo gli eventi catastrofici , e purtroppo allo stato attuale delle politiche di intervento non si può fare altrimenti. Occorre un controllo capillare del territorio che può essere attuato con il concetto del “geologo condotto” che spesso ho tentato di proporre senza successo. Il territorio è un organismo vivente con le sue “malattie” (frane, alluvioni, terremoti,ecc.); il medico di questo organismo non può che essere il geologo.
Uberto Crescenti
Condivido quasi per intero l’intervento di Gisotti, dissento tuttavia sul ruolo degli ingegneri idraulici che tanti danni hanno fatto al territorio, soprattutto in Italia. Dal dopoguerra in poi hanno proposto sempre e comunque, in ogni luogo della penisola, le stesse vetuste soluzioni, ossia rettificazioni, arginature, scavo degli alvei, disboscamento della vegetazione ripariale ecc… considerando fiumi e torrenti solo come canali di scolo per far defluire quanto più velocemnte possibile il flusso d’acqua, soprattutto durante le piene. In realtà oggi sappiamo che tali soluzioni, ancora avallate dalla vecchia generazione ma anche, purtroppo, dalle nuove leve, sono in realtà profondamente errate!
Occorre anche un cambio di mentalità per approcciare soluzioni moderne, meno costose e sicuramente più funzionali, ma temo che passerà molto tempo e tanta altra acqua sotto i ponti!
Giovanni
Sottocrivo in toto le sue considerazioni.
In particolare circa la frase relativa al “Di chi è la colpa?” ricordo che il nostro è un Paese in cui le conventicole grandi o piccole sono sempre all’opera (cito dalla splendida sociologia paesana della “Signorina felicita” di Guido Gozzano “Per la partita, verso ventun’ore, giungeva tutto l’inclito collegio politico locale: il molto Regio Notaio, il Signor Sindaco, il Dottore…) ed un professionista pronto a dare il proprio assenso per un pezzo di pane lo si trova facilmente.
Da ciò il fatto che l’eccessivo decentramento nell’assunzione di decisioni relative all’uso del suolo (decentramento di cui tutte le parti politiche si sono riempite la bocca per decenni) si trasforma inevitabilmente nell’aggiramento delle regole da parte delle categorie segnalate dall’autore.
L’impressione è che al Sud regni l’abusivismo mentre al Nord il territorio sia devastato con l’assenso dei comuni, che su tale attività lucrano gli oneri di urbanizzazione.