Gli stessi campanelli della prima parte di questo post, si sono rivelati preziosi nell’affrontare un altro problema che è strettamente collegato a quello delle SST nel periodo 1940/1945. Si tratta di un lavoro a firma di Ernst-Georg Beck pubblicato su ENERGY & ENVIRONMENT VOLUME 19 No. 7, 2008.
50 Years of continuous measurement of CO2 on Mauna Loa
Per capire bene il lavoro di Beck, inoltre, si può consultare anche quest’altro lavoro.
In questi lavori Beck, spulciando i risultati di diverse migliaia di analisi chimiche su campioni d’aria, contesta i risultati cui è giunto Keeling a proposito dell’evoluzione della concentrazione di CO2 nell’atmosfera sulla base del record di Mauna Loa. Secondo Beck la concentrazione di CO2, nel passato, anche recente, ha conosciuto picchi molto più alti di quelli universalmente accettati. Uno di questi picchi (più di 400 ppmv) registrato intorno agli anni ’40, in concomitanza dell’anomalo andamento delle SST di cui abbiamo parlato in precedenza, a suo giudizio, sarebbe stato una conseguenza dell’aumento delle temperature globali. Ciò avrebbe avvalorato l’ipotesi che la concentrazione di CO2 aumenta in seguito all’aumento della temperatura e non viceversa.
Anche in questo caso i famosi campanellini hanno tintinnato piuttosto violentemente spingendomi a cercare di vederci più chiaro. Dopo aver letto i lavori di Beck mi sono reso conto che molte erano le debolezze delle tesi che li caratterizzavano per cui non mi sento di condividerne le conclusioni. Gran parte dell’articolo del 2008 è dedicata a dimostrare che Keeling e Callendar hanno deliberatamente trascurato i risultati delle analisi chimiche eseguite nel corso del 19° secolo e nella prima parte del 20°. Essi, a tali risultati, prima del 1958, hanno preferito i dati proxy derivanti dalle carote di ghiaccio. Beck reputa questi dati meno precisi di quelli di origine chimica.
Da un’analisi del grafico pubblicato da Callendar nel 1958 e riportato nel paper di Beck del 2008, invece, si evince che i risultati di molte analisi chimiche sono stati presi in considerazione. Sono stati trascurati, invece, quelli che si discostavano eccessivamente dai valori medi. Questo modo di procedere a me sembra corretto, per cui non condivido le critiche mosse da Beck all’operato di Callendar.
Il problema principale che a mio giudizio affligge questi dati è rappresentato dal modo in cui i campioni sono stati prelevati. La CO2 è più pesante dell’aria per cui tende a stratificarsi in prossimità del terreno. Prelevare un campione d’aria a 10 cm dal suolo o ad un metro di altezza comporta risultati profondamente differenti. Questo fatto che si evince del resto anche dal paper di Beck, rende necessario che il prelievo del campione da esaminare venga effettuato in un punto in cui possiamo essere sicuri che l’aria sia opportunamente miscelata. Il sito, inoltre, dovrebbe essere lontano da zone in cui la vegetazione è molto sviluppata. Questo, storicamente, è il motivo per cui è stato scelto il sito di Mauna Loa. I dati cui fa riferimento Beck nel suo lavoro, sono dati grezzi relativi a campioni di cui, in molti casi, non conosciamo l’esatta origine. Alcuni sono relativi alle campagne, altri a zone più o meno urbanizzate, altri provengono dalle navi, altri ancora dai palloni aerostatici ed altri ancora da razzi lanciati nell’alta atmosfera. Va dato atto a Beck di aver fornito dati che possono essere ulteriormente trattati, però, essi costituiscono un insieme piuttosto eterogeneo. Personalmente non sono in grado di stabilire se da essi potrà essere dedotto in futuro qualcosa di utile, ma le conclusioni cui giunge l’autore nel suo articolo mi sembrano piuttosto lontane dalla realtà.
Dall’esame dei lavori di Beck, inoltre, si nota che i dati da lui citati danno un buon accordo con quelli desunti dai dati proxy, eccezion fatta per quelli anteriori al 1870 e quelli compresi tra il 1930/35 ed il 1950. La cosa mi suona alquanto strana e non mi sento di escludere qualche problema di tipo sistematico. Ben 64000 delle 90000 misurazioni prese in considerazione da Beck, infatti, sono riferite ad un breve periodo degli anni trenta e sono state attribuite ad un unico autore.
Per quel che mi riguarda mi sento di condividere le critiche che il dr. G. Hoffmann, in un articolo pubblicato su RealClimate, rivolge al lavoro di Beck.
In primo luogo mancano tracce degli ingenti flussi di CO2 che si sarebbero dovuti avere dai pozzi naturali all’atmosfera e viceversa per giustificare le fortissime variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera di cui parla Beck. Per passare da 298 a 398 ppm di CO2 sono stati necessari circa 100 anni di emissioni antropiche e/o naturali. Come si può pensare di passare da 298 a oltre 400 ppm di CO2 in 10/12 anni? In seguito alla degassificazione degli oceani, dice qualcuno. Dal 1910 al 1930 le temperature globali aumentarono di circa 0,3°C. Se fosse vera questa ipotesi significherebbe che 0,3°C hanno determinato un aumento della concentrazione di CO2 di oltre 100 ppm. Dagli anni ’50 ad oggi la temperatura globale, stando ai dati ufficiali, è aumentata di 0,5°C circa. La concentrazione atmosferica di CO2 dovrebbe essere aumentata di quasi 200 ppm. E questo non é accaduto. Tali flussi, inoltre, dovrebbero essersi verificati in tempi estremamente brevi (Beck parla di una decina di anni) e questo contrasta con i tempi di permanenza della CO2 in atmosfera che sono molto più lunghi. La cosa che maggiormente mi ha convinto della scarsa attendibilità dell’ipotesi di Beck, però, riguarda la mancanza di dati proxy che testimonino questi valori enormi (spropositati) di CO2 nell’atmosfera. Se essi si fossero effettivamente verificati, infatti, ne dovremmo trovare traccia nelle concentrazioni atmosferiche di 13C rilevabili negli anelli degli alberi e nelle carote di ghiaccio. Nessuno di questi indicatori, però, supporta le ipotesi di Beck.
Beck, nel suo lavoro, fa riferimento ad analisi chimiche condotte con metodi tradizionali. Pur volendo considerare precisi i dati relativi a questo tipo di analisi, bisogna tener presente che esse, necessariamente, si basano su campioni molto esigui di aria prelevati occasionalmente ed in località tra le più disparate. Manca cioè,una sistematicità ed omogeneità nelle metodologie di misura in quanto non esistono dei record storici aventi un minimo di continuità (tanto si desume anche dal paper del 2007). La sporadicità delle misurazioni eseguite rende difficilmente confrontabili i risultati ed enormemente incerto il loro processo di omogeneizzazione e/o di compensazione. Alcuni di questi dati, inoltre, sono sicuramente affetti da errori sistematici legati, in massima parte, ai luoghi ove sono stati effettuati i prelievi. Se il campione è stato prelevato in prossimità di uno stabilimento o di una via molto trafficata, per esempio, i risultati non possono essere considerati esemplificativi dell’intera atmosfera terrestre e, perciò, inattendibili. Questi dati, pertanto, sono caratterizzati da fortissime incertezze che inficiano, a mio modesto parere, le conclusioni cui è giunto l’autore dello studio.
A conclusione di questa lunga disamina delle problematiche connesse alle misurazioni di grandezze fisiche mi sento di fare una considerazione. Ogni misura è affetta da una incertezza più o meno grande. Abbiamo esaminato due esempi di misura di grandezze fisiche piuttosto importanti, analizzandone l’andamento nel corso degli anni: concentrazione di CO2 e SST. Entrambe le tipologie di misurazioni presentano ampia incertezza in quanto è necessario esaminare e compensare dati molto eterogenei e piuttosto lontani nel tempo. Sarebbe nostro dovere analizzare questi dati e prenderli per quello che sono: delle stime più o meno attendibili. Leggendo ciò che si trova in rete sembra che esista chi è disposto a farsi crocifiggere sulla base della bontà di questi dati (in un campo e nell’altro). Io, in modo molto pragmatico, sono dell’avviso che bisognerebbe trattarli per quello che sono: misure con un grado piuttosto ampio di incertezza che, in un futuro più o meno lontano, potrebbero subire la sorte di tutte le grandezze fisiche similari: essere sottoposti ad una nuova revisione sulla base di elementi di cui gli scienziati non avevano tenuto conto in precedenza e/o verranno a conoscenza. Fargli assumere un significato ideologico o assoluto è il peggior errore che possiamo fare.
Condivido anzitutto il suo giudizio sul lavoro di Beck. Più nello specifico quando lessi l’articolo di Beck restai anch’io perplesso per la stessa ragione da lei indicata e cioè per il fatto che le misure da CO2 effettuate con metodi chimici erano avvenute in ambienti disturbati da emissioni antropiche di CO2 ovvero dalla vicinanza del suolo (che respira emettendo CO2 in quantità rilevanti) o dalla vegetazione che assorbe CO2 con la fotosintesi e la emette respirando.
Pertanto temo anch’io che i valori elevatissimi evidenziati da Beck per epoche passate siano spesso frutto di fenomeni locali che con la scala globale hanno poco o nulla a che vedere. Non per niente le modalità di campionamento prevedono oggi che le misure siano svolte in ambienti che si avvicinino ad una rappresentatività globale (es: Cimone, Plateau Rosa, Mauna Loa), il che aiuta anche se non esclude interferenze (es: i dati del Cimone risentono dell’attività fotosintetica che avviene in pianura padana).
Ciò non toglie tuttavia che a Beck vada il merito di averci segnalato l’esistenza di una vasta messe di dati su cui in futuro si potrebbero fare nuovi e più robusti lavori.
Pienamente d’accordo anche sulle conclusioni del suo scritto. Ognuno è libero di avere le proprie opinioni sui dati ma i dati devono essere sempre visti con rispetto, non deformandoli mai ai propri fini ideologici.
Circa infine i “tempi di permanenza della CO2 in atmosfera che sono molto più lunghi” penso che la permanenza media di una molecola di CO2 in atmosfera si possa dedurre in prima battuta dal grafico che campeggia al di sopra del suo post. Infatti da esso si nota una caratteristica ciclicità annuale per cui ogni anno, in coincidenza con l’estate dell’emisfero boreale (emisfero delle terre e dunque delle piante), la CO2 cala di circa 7-8 ppm. Questo vuol dire che la permanenza media in atmosfera di una molecola di CO2 nel 1750 (CO2 atmosferica in quell’anno=280 ppmv) era pari a 280/6=47 anni, che salgono a 310/6=52 anni nel 1960 ed a 390/8=65 anni nel 2010.
Tuttavia credo che queste siano stime per eccesso, nel senso che probabilmente molte più molecole di CO2 “fanno il tagliando annuale” venendo assorbite ogni anno dalle piante e ritornando in brevissimo tempo (parlo di uno o pochi giorni -> non tutti i carboidrati prodotti dalla fotosintesi vengono tramutati in struttura della pianta; una certa quota è infatti respirata per dare energia alla pianta stessa).
Innanzi tutto grazie per l’apprezzamento.
Circa i tempi di permanenza della CO2 in atmosfera io ho fatto riferimento a quelli indicati dall’IPCC (50/200 anni). Ad onor del vero, però, mi sono imbattuto in qualche lavoro che riporta dati diversi e molto più bassi. In L. Lepori et al. 2010
http://scienzaonline.com/tecnologia/fisica/299-termodinamica/2551-quisque-leo-non-malesuada.html
si individua, per la CO2 di origine fossile e, di riflesso, per ogni altra forma di CO2, un tempo di permanenza di circa 10 anni (relativamente al periodo 1980/2002).
Personalmente ho qualche perplessità su questi dati:
– l’entità del periodo indagato (20 anni) mi sembra esigua;
– la presunzione che la CO2 di tipo “fossile” si comporti allo stesso modo di quella di origine “naturale” potrebbe non essere vera;
– la mancanza di simili risultati in altri lavori.
Altro aspetto che mi lascia un po’ perplesso è il fatto che il lavoro, probabilmente, non è stato assoggettato a revisione paritaria. Con questo non voglio esprimere alcun giudizio circa la bontà dell’articolo, ma solo precisare i termini della questione.
Tenendo conto di tutto ciò ipotizzare un tempo di permanenza della CO2 in atmosfera di circa 50 anni (valore inferiore della forchetta individuata dall’IPCC) non credo che sia molto distante dalla realtà.
Ciao, Donato.
Caro Donato,
per la verità ci sono anche le stime contenute nell’articolo:
Welp et al., 2011. Interannual variability in the oxygen isotopes of atmospheric CO2 driven by El Nino, Nature, letter, Vol 477, 29 settember 2011
Gli autori ragionando di O18 giungono alla seguente stima: ” The model-derived, hemisphere-specific turnover times correspond to a global tropospheric mean of 0.7–1.4 yr. Allowing for the 22% of the atmospheric mass contained in the stratosphere, which was not included in the model, the estimated global atmospheric turnover time increases to 0.9–1.7 yr.”
Una stima così inusitatamente bassa può essere giustificata solo se si è di fronte ad una produttività ecosistemica ben più elevata di qeulla fin qui considerata (175 Pg di C contro i 120 Pg di C oggi stimati.
In proposito gli autori scrivono:
” Reconciling the short turnover time (0.9–1.7 yr) with current understanding of the global carbon budget would require that the soil invasion CO 2 flux be near the upper case considered in ref. 22 and much greater than soil respiration. At present, there are not enough field observations to confirm such high fluxes of soil invasion. Alternatively, and more plausibly, the fast response can be accounted for by revising global GPP upwards from 120 Pg C yr-1 to 150–175 Pg C yr-1
Using this approach, we argue that 120 Pg C yr-1 may actually be a lower bound on GPP.”
Luigi
PS: mi pareva di aver scritto un commento per CM riferito all’articolo di Welp, dal titolo “Quando la CO2 fa’ il tagliando” ho trovato il file word sul mio PC di casa ma stranamente non sono riuscito a trovarlo su CM… Qualcuno si ricorda di averlo letto?
Luigi confermo. Ma inspiegabilmente non lo trovo, probabili conseguenze del cambio di DB e provider. Piuttosto che impazzire propongo di ripubblicarlo. Se me lo mandi provvedo immediatamente.
gg
Caro Luigi, l’articolo che hai citato è molto interessante (io mi sono limitato all’abstract ed a qualche lavoro divulgativo) soprattutto per le ricadute in ambito climatologico oltre che sulla comprensione del ciclo del carbonio. Se i tempi di permanenza fossero quelli citati significherebbe che la GPP (Gross Primary Productivity) salirebbe da 120 PgC/anno a 150-175 PgC/anno (come citi nell’articolo). Questo significa che verrà fissata una maggiore quantità di energia e, se non ho commesso errori di comprensione, verrà prodotta una maggiore quantità di materia organica. Ciò dovrebbe determinare un maggior sequestro di carbonio atmosferico nelle fibre vegetali e ciò avrebbe un effetto positivo sul clima terrestre (posto valido tutto il discorso sull’effetto serra della CO2).
Secondo quanto riportato in un articolo di ScienceNews, però, sembra che le cose non stiano così.
http://www.sciencenews.org/view/generic/id/334948/title/Science_%2B_the_Public__Study_recalibrates_trees_carbon_uptake_
Il dr. M. Cuntz, biogeochimico presso l’UFZ-Helmholtz Centre for Environmental Research di Lipsia (Germania), sosterrebbe, infatti, che l’aumento della GPP si traduce in un minor sequestro a lungo tempo del carbonio da parte delle piante. Egli basa la sua affermazione sul fatto che è ormai un dato acclarato che le piante fissano a lungo termine nelle loro fibre 1,6 miliardi di tonnellate di carbonio per anno. Se la GPP è di 120 PgC/anno, significa che le piante fissano a lungo termine il 2% della GPP. Se, viceversa, la GPP sale a 150-175 PgC/anno, fermo restando il valore di 1,6 miliardi di tonnellate di carbonio fissato dalle piante in un anno, la quantità di carbonio che, sotto forma di CO2, ritorna in atmosfera (quale prodotto della respirazione delle piante, per esempio) è più elevata. Ciò renderebbe necessario rivedere i parametri dei modelli di simulazione climatica e, a spanne, fa presumere che l’evoluzione climatica sarà… peggiore di quanto si prevedeva. 🙂
La cosa che mi lascia alquanto perplesso, però, è costituita dagli 1,6 miliardi di tonnellate di carbonio per anno che verrebbero fissati dalle piante. Questo numero “fisso” in mezzo a tutti questi numeri “ballerini” è veramente tale o dobbiamo aspettarci una sua revisione? Gradirei un tuo parere sulla questione.
Ciao, Donato.