Sarà perché sta per arrivare l’inverno boreale, sarà perché si fa sempre più pressante la richiesta di previsioni stagionali, sarà perché più si studia l’atmosfera e più diventano vasti gli orizzonti nella cui direzione guardare, ma è un fatto che negli ultimi tempi si stanno moltiplicando gli sforzi per individuare le relazioni attraverso cui il sistema terra, oceani, atmosfera realizza le sue dinamiche.
Ho scritto scientemente atmosfera e non troposfera, derogando, ma con diritto, alla regola numero uno che mi è stata inculcata quando ho iniziato a occuparmi di meteorologia: lo strato atmosferico che ci interessa è uno e uno solo, quello compreso tra la superficie e la tropopausa, la troposfera. Neanche a farlo apposta, poteva resistere una tale limitazione in un sistema che da’ segni ogni giorno di essere intimamente connesso in ogni sua parte? La risposta è scontata, decisamente no.
A dire il vero, senza voler rivendicare alcuna paternità, ma avendo sviluppato sin da subito un certo interesse per le relazioni tra gli strati atmosferici più alti e quello in cui viviamo, già da tempo su queste pagine abbiamo cercato di approfondire la questione. Oggi andiamo ancora più a fondo, cioè, lo fanno per noi gli autori di un paper appena pubblicato su Nature Geoscience. Arriviamo fino all’oceano, il socio di maggioranza del sistema clima.
A stratospheric connection to Atlantic climate variability – Reichler et al., 2012 – doi:10.1038/ngeo1586
Però, leggendo in giro per la rete i commenti a questo paper, mi sono imbattuto in un altro lavoro che con questo ha molto in comune, ma che di fatto ne rovescia le conclusioni.
Multi‐decadal variability of sudden stratospheric warmings in an AOGCM – Shimanche et al., 2011 – doi:10.1029/2010GL045756
Andiamo con ordine, prima i punti in comune. Entrambi i lavori prendono spunto dalla supposta variabilità decadale o multidecadale delle dinamiche stratosferiche polari, ovvero dalle oscillazioni dell’intensità del Vortice Polare Stratosferico, da cui derivano o deriverebbero diverse probabilità di occorrenza di eventi di rottura del vortice stesso definiti Sudden Stratospheric Warming. Come abbiamo scritto appena qualche giorno fa, questi eventi hanno notevoli ripercussioni sulla circolazione emisferica e quindi sul tipo di tempo che interessa le medie latitudini nelle settimane che seguono un SSW ((va detto però che tutti e due questi paper fanno riferimento ad una sola tipologia di SSW, quello conosciuto come Mayor, caratterizzato da rallentamento e successiva inversione del vento zonale alle alte latitudini, con ‘dispersione’ dei nuclei di aria fredda derivati dal Vortice Polare verso le medie latitudini. Tutti gli altri eventi, normalmente più deboli in termini di valori raggiunti dagli indici stratosferici, caratterizzati da temporaneo displacement del vortice e definiti Minor, non rientrano in questi casi di studio, pur avendo anch’essi notevoli ripercussioni sulla circolazione emisferica)). Analizzando le poche decadi di dati attendibili di cui si dispone, si nota che la frequenza di occorrenza di questi eventi è stata molto elevata negli anni ’80, decisamente bassa negli anni ’90 e nuovamente alta dall’inizio di questo secolo. Un segnale significativo ma ovviamente non sufficientemente robusto per definire cicliche o comunque regolari queste oscillazioni, per cui in tutti e due i lavori si è deciso di affidare lo studio delle proprie ipotesi a simulazioni numeriche, nel primo caso addirittura tornando indietro nel tempo di 4.000 anni, nel secondo ‘appena’ di 400. Per tutte le simulazioni sono state fissate condizioni pre-industriali della concentrazione di CO2. Questi lavori, una volta tanto, non parlano di cambiamenti climatici e questa scelta va nella corretta direzione di eliminare dai modelli impiegati per le simulazioni la visione CO2centrica che ne governa la logica. E questo ci piace.
Un altro significativo elemento di contiguità tra questi due studi è rappresentanto dalla convinzione che gli eventi di repentino riscaldamento del vortice polare stratosferico abbiano un’origine totalmente dipendente dalla propagazione delle onde planetarie troposferiche verso la stratosfera, con conseguente trasferimento dell’energia necessaria al processo di riscaldamento. Questo aspetto in particolare è abbastanza controverso, perché tende ad escludere, ma forse non è questa la sede per parlarne, ogni genere di dinamica fisico-chimica dell’alta atmosfera che invece potrebbe avere un ruolo importante.
Ma le similitudini finiscono qui, perché nel primo lavoro, analizzando la corrispondenza delle oscillazioni stratosferiche con le dinamiche dell’Oceano Atlantico settentrionale identificate nella fattispecie con l’AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation), si ipotizza un trasferimento dalla stratosfera alla troposfera (attraverso la NAO) e successivamente all’oceano, degli effetti di un SSW di tipo major, con modifica dell’AMOC e contributo alle oscillazioni multidecadali delle temperature di superficie. Nel secondo paper, invece, sono le oscillazioni oceaniche ad agire come forzanti atmosferiche e a generare quindi le condizioni per un rafforzamento/indebolimento del vortice da cui deriverebbe il comportamento di lungo periodo del vortice.
Insomma, nasce prima l’uovo o la gallina? Probabilmente tutti e due insieme, nel contesto di un sistema complesso e strettamente interconnesso in cui individuare relazioni causali che agiscano in un solo senso è quasi impossibile. A meno che, forse, non si guardi ancora più oltre, magari nella direzione di un forcing esogeno che agisca sia sulle quote atmosferiche più elevate sia sugli oceani, che magari non si parlano neanche. In fondo tutti e due i paper si fondano su segnali di oscillazioni cicliche rilevati nelle serie (pur simulate e pur con elevato rumore), specificando che sono comunque necessari molti più dati per capire. Inoltre si sottolinea la necessità, come abbiamo detto qualche giorno fa, di modelli climatici che descrivano più efficacemente la stratosfera. Questi segnali oscillatori somigliano tanto a qualcosa di già visto che viene dalla fonte di tutta l’energia di cui dispone il sistema, l’attività solare. magari sarà possibile reperire i dati impiegati da questi scienziati e incrociarli con quelli dei lavori di Nicola Scafetta proprio sulla forzante solare, hai visto mai che possa saltar fuori qualche ‘strana’ coincidenza?
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