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Clime ed eventi estremi: E’ Una scienza priva di “attributi”?

Perdonatemi il titolo non proprio nobilissimo e la sua prossimità con la ben più seria frase di Diogene. Il fatto è che di aumento della temperatura media globale, di modifiche alle dinamiche del clima nel lungo periodo e su ampia scala spaziale possiamo parlare finché vogliamo, ma quello che realmente ci interessa nel quotidiano e dovrebbe interessare anche chi su nostra delega prende le decisioni, è sapere se questo aumento e queste modifiche potranno avere o abbiano già avuto un impatto sugli eventi atmosferici estremi che sia discernibile da quello che questi eventi hanno sempre avuto. Se del caso, inoltre, sarebbe altrettanto lecito chiedersi cosa si può fare per mitigare questo impatto o per aumentare la nostra capacità di resilienza.

Prima ancora di porsi questo interrogativo forse sarebbe anche il caso di chiedersi se quanto si potrebbe già fare per limitare i danni provocati da questi eventi o per resistervi con sempre maggiore efficacia, si stia facendo o si programmi di farlo a breve. In valore assoluto e su lunga scala temporale si può dire che questo accada da sempre. Nonostante quanti la vorrebbero dipingere ieri benevola e oggi per causa nostra quanto mai insidiosa, la Natura è sempre la stessa, le fantastiche opportunità che ci ha messo a disposizione le abbiamo sempre dovute pagare a caro prezzo e tutte le valli, a prescindere da quanto erano verdi ieri e siano grigie oggi, prima o poi sono finite sott’acqua, con qualche decimo di grado di temperatura in più o in meno e con o senza cambiamenti climatici intesi nella moderna e assai poco scientifica accezione che questi rappresentino una novità assoluta dei nostri tempi. E con tutto questo abbiamo imparato a convivere. Nel breve periodo il discorso è diverso, come diverse sono le realtà sociali che si confrontano con la Natura. Se è vero che la perdita di vite umane dovuta a eventi di maltempo è in costante diminuzione, è pur vero che sono in forte aumento i danni materiali che questi generano. In sostanza siamo sempre più bravi a proteggerci ma non riusciamo a garantire pari sicurezza ai nostri beni, per la semplice ragione che questi aumentano in valore assoluto a un ritmo tale e con condizioni di rischio tali da renderne difficile se non impossibile la protezione. Una casa sul greto di un fiume o in un vallone è ritenuta essere un valore a prescindere dal fatto che non dovrebbe esserci e se un alluvione se la porta via dare la colpa al Dio della pioggia é quanto meno risibile.

Ma questi sono discorsi attuali, che nella nostra infinita leggerezza possiamo anche prenderci la briga di tralasciare. Meglio concentrarsi sui dannni e sulla relativa mitigazione o adattamento agli eventi estremi che verranno, specie se si ritiene, sin qui in modo molto più fideistico che scientifico, che questi debbano essere soggetti ad aumento di intensità e frequenza di occorrenza.

E così, in una autentica foresta di pubblicazioni già disponibili ma tutte o quasi per lo più fallimentari – l’ultima delle quali di James Hansen della NASA che abbiamo anche commentato – ecco che esce un editoriale su Nature, la rivista scientifica forse più accreditata, con toni sorprendentemente moderati. A seguire, nel contesto di un dibattito che sulla rete è già divenuto piuttosto acceso, arriva anche un post di Gavin Shmidt, anima fondante di Real Climate il blog di divulgazione scientifica del mainstream climatico. Vediamoli.

L’editoriale di Nature, nonostante un incipit che palesa l’atteggiamento pro AGW assunto ormai da tempo indicando nel minimo raggiunto dai ghiacci artici questa estate la chiara ed inequivocabile “prova” dei cambiamenti climatici in atto, soprende per l’onestà con cui si afferma che lo stato dell’arte della conoscenza scientifica impedisce attualmente di attribuire ad un eventuale tendenza del clima a cambiare delle presunte modifiche all’intensità o alla frequenza degli eventi estremi. Per molti di questi, infatti, dato un livello di conoscenza delle condizioni con cui si realizzano ancora imperfetto, qualsiasi discorso di attribuzione è ingiustificatamente speculativo, basicamente non verificabile e meglio se evitato. Nel nostro piccolo, all’indomani dei tragici eventi della Lunigiana e della Riviera Genovese dell’anno scorso, quando impazzavano roboanti dichiarazioni di attribuzione da parte di questo o quell’esperto, abbiamo chiesto che fossero forniti gli elementi scientifici reali a sostegno di queste affermazioni. L’assordante silenzio che ne è seguito è nella scia di quanto leggiamo oggi su Nature.

Ancora più soprendente, se vogliamo, è l’affermazione che, specialmente nei paesi poveri, le perdite di vite umane e i danni generati dagli eventi estremi sono attribuibili alla povertà, a condizioni sanitarie scadenti e alla corruzione dei governi in pari misura al cambiamento climatico. Con quest’ultimo ancora da definire nella debole accezione di cui sopra, forse sarebbe il caso di preoccuparsi delle altre simpatiche precondizioni. E invece l’ONU, pur incontrando grosse difficoltà negoziali, lotta per un fondo di assistenza alle popolazioni dai danni da clima che cambia, più di quanto non lotti per dar loro da mangiare.

Meno condivisibile invece, sempre nell’editoriale di Nature, è l’interrogativo circa l’opportunità di procedere nella ricerca di livelli di attribuzione scientificamente accettabili in assistenza alle decisioni politiche, specie alla luce dell’impegno (almeno a livello di intenzione ma anche di fondi) che i decisori palesano su questo problema pur in presenza di strumenti di diagnosi e prognosi ancora ben lungi dal fornire risposte efficaci. Appena qualche giorno fa, ma in effetti è cosa che accade con frequenza regolare, abbiamo pubblicato un post che riassumeva il livello di efficacia delle attuali simulazioni climatiche a scale spaziale e temporale limitate, quelle a cui si palesano gli eventi estremi per intenderci. Chi lo desidera torni a leggerlo, per tutti gli altri lo riassumo: zero via zero.

Su questa stessa linea, ma per ragioni diverse, ovvero da convinto sostenitore dell’AGW, il post di Gavin Shmidt. La ricerca di risultati utili nell’attribuzione è necessaria oltre che utile, dice Shimdt. Difficile dargli torto, se non fosse che nel sostenere la sua opinione egli palesi di aver recepito interamente il discorso portato avanti da Hansen nella pubblicazione che abbiamo citato qualche riga più su, un paper tutt’altro che convincente. Secondo Hansen e quindi anche secondo lui, aver individuato una modifica della distribuzione statistica delle ondate di calore e delle siccità nel recente passato prendendo a riferimento il periodo più fresco del secolo scorso, ritenere che quel periodo sia rappresentativo dell’attuale era climatica e “dimenticare” di includere nelle proprie valutazioni l’evento siccitoso più vasto, prolungato e intenso che si ricordi, vale per un oggettivo discorso di attribuzione. Ma, del resto, lo scopo di queste pubblicazioni è esattamente questo, uscire, superare l’impatto iniziale delle critiche oggettive e approdare serenamente nel panorama dei risultati scientifici che possono essere citati più o meno direttamente. Nell’affermazione di Shmidt, diverse metodologie – attraverso osservazioni, simulazioni accoppiate e simulazioni mirate – indicano che le ondate di calore sono divenute più frequenti e gli eventi freddi sono più rari, sdogana definitivamente lavori come quello di Hansen, senza accrescerne affatto la robustezza scientifica. Difficile che chi legge vada per proprio conto ad informarsi scoprendo che le cose non stanno proprio così.

Ad ogni modo, sia su Nature che su Real Climate, abbiamo letto che la trasposizione nel mondo reale del global warming e dei relativi cambiamenti climatici, ovvero la loro tangibilità oggi non ci sono. E’ un bel passo avanti.

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Published inAttualitàClimatologia

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