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CO2, tassarla o scambiarla?

Proseguiamo con l’analisi dei due modelli economici più famosi per affrontare la riduzione delle emissioni antropiche ad effetto serra. L’argomento è di stringente attualità , visto il dibattito in corso negli Stati Uniti. Tempo fa abbiamo affrontato qui la teoria, oggi cercheremo di andare più a fondo per comprendere luci e ombre di ciascuno dei due sistemi ed, eventualmente, per capire quale sia il migliore tra i due.

Come per ogni materia soggetta a interpretazione (soprattutto politica) è chiaro che ogni diversa fonte che consulterete, probabilmente, vi fornirà  una visione e valutazione diversa sul carbon trading e sulla carbon tax. Attenzione però: stiamo parlando di interpretazioni e valutazioni politiche. Al termine di questo articolo scopriremo cosa emerge da un ragionamento meramente economico, nel frattempo elenchiamo alcuni punti a favore o contro di ciascuno dei due sistemi.

Cosa succederebbe se venisse applicato un sistema Emission Trading? Ebbene, questo modello prevede innanzitutto l’individuazione del livello massimo di emissioni consentite (Cap), in base al quale verrà  calcolato il prezzo ottimale per singola unità  di CO2. Tale livello di Cap può benissimo variare nel tempo (riducendosi), in questo modo è possibile fare un piano di lungo periodo (ad esempio, per non allontanarci troppo dalla cronaca di questi giorni, possiamo considerare i 40 anni previsti dalla legge in discussione presso il senato americano). Tra i sostenitori dell’emission trading, questo è uno degli aspetti più importanti: poter pianificare un reale piano di riduzione delle emissioni antropiche. Parlando di prezzo dell’unità di CO2 (o diritto a emettere che dir si voglia) vi è un aspetto interessante. E’ un altro cavallo di battaglia dei sostenitori del cap and trade. Essi sostengono, infatti, che a livello di information asymmetry (asimmetria informativa, ovvero quando le informazioni necessarie a prendere una decisione non siano uniformemente disponibili a tutti gli operatori del sistema), questa sia notevolmente inferiore in un sistema di libero scambio quale il cap and trade: il prezzo istantaneo dell’anidride carbonica nasce dall’incontro tra domanda e offerta (tra chi emette e chi sequestra/non emette), quindi è molto più rappresentativo rispetto ad un prezzo fissato dal governo su base annuale (o pluriennale) come nel caso della carbon tax. Possiamo riassumere quanto detto fin qui per il cap and trade: più trasparenza.

Il costo della CO2 individuato tramite il sistema dello scambio di emissioni è anticiclico, ovvero: nel caso di crisi economica, quindi di ridotta attività produttiva, diminuirebbero anche le emissioni di anidride carbonica e di conseguenza il suo prezzo. In caso di boom economico e di una maggiore attività produttiva (e maggiori emissioni) il prezzo della CO2 aumenterebbe di conseguenza. Ciò significa che il peso di un sistema con scambio di emissioni è capace di modularsi in base alla congiuntura economica, a dispetto di una tassa che invece andrebbe a gravare sull’economia, in ogni caso.

Come cambierebbe il panorama industriale con un piano di scambio di emissioni? Nell’ottica dei sostenitori questo sarebbe un approccio più “sostenibile” in quanto le imprese avrebbero uno strumento flessibile per poter inizialmente pagare le proprie (maggiori) emissioni e contestualmente convertire la propria tecnologia. Il vantaggio arriva anche successivamente, in quanto chi è stato più rigoroso prima o più rapido a implementare le nuove tecnologie, riuscirà ad avere un introito extra dalla vendita dei propri diritti ad emettere non utilizzati.

Veniamo al secondo modello: cosa succederebbe con una tassa sulle emissioni, la carbon tax? Innanzitutto, ce lo dice il nome, è una tassa. Questa non andrebbe a impattare direttamente sui redditi bensì, essendo indiretta, andrebbe a colpire dei comportamenti, in questo caso colpirebbe i comportamenti meno virtuosi dal punto di vista delle emissioni. Per esempio la carbon tax andrebbe a colpire il costo dei carburanti di origine fossile, in modo tale da modificare il comportamento del consumatore. Verrebbero tassati anche il carbone e il consumo di elettricità. Come abbiamo detto precedentemente, il prezzo viene stabilito dai governi normalmente su base annuale. Il vantaggio di una tassa, rispetto al sistema di scambio, è la rapidità: la tassa è immediatamente applicabile e il riscontro sarebbe altrettanto immediato (in realtà vi sono alcune rigidità interne al sistema, si pensi ai disincentivi all’utilizzo di auto vecchie, normalmente questo tipo di politiche impiega parecchi anni prima di esplicitare tutta la propria validità).

Il rispetto di una tassa sulle emissioni è più verificabile (basta individuare chi la evade), rispetto ad un sistema di scambio di crediti di emissione (in quanto va verificato che chi vende i propri crediti abbia effettivamente il diritto a farlo). In altre parole, secondo i sostenitori della carbon tax, la parola d’ordine è: trasparenza.

Fin qui abbiamo rapidamente analizzato alcuni degli aspetti peculiari dell’uno e dell’altro sistema: cosa ci dice (se ce lo dice) la teoria economica? Esiste un sistema migliore dell’altro? Purtroppo la teoria non ci aiuta molto, infatti in realtà nessuno dei due metodi primeggia sull’altro. Di fronte ad un market failure (in questo caso per via delle emissioni di CO2, considerate esternalità negative) l’obiettivo di un sistema è quello di ridurre tale fallimento, al minor costo. In altri termini: efficienza. E bisogna dirlo, entrambi i sistemi sono estremamente efficienti, entrambi ottimizzano l’efficienza complessiva del mercato: minimizzare le emissioni al minor costo possibile. In che cosa risiede la differenza (intendiamo dal punto di vista economico)? La differenza sostanziale consiste nella redistribuzione di parte del costo sostenuto per l’abbattimento delle emissioni. Nel caso della carbon tax, i governi avranno degli extra gettiti che potranno essere ridistribuiti, ad esempio, al contribuente sotto forma di sgravi fiscali o ulteriori incentivi alla riduzione delle proprie emissioni. Nel cap and trade, invece, il costo complessivo gravante sulle imprese è inferiore rispetto ad una carbon tax.

Sintetizzando quanto fin qui detto, possiamo dire che:

  1. Carbon tax e carbon trading sono ugualmente efficienti nell’affrontare la riduzione delle emissioni al minor costo possibile;
  2. la carbon tax consente una maggiore ricaduta sociale dell’extra gettito;
  3. il carbon trading grava meno sulle imprese, favorendo un reale rinnovamento tecnologico.

A breve, in un futuro intervento, analizzeremo i sistemi fin qui adottati nel mondo. Ricordiamo infatti che in Europa si stanno sperimentando entrambi i sistemi. Cercheremo di capire come la politica moduli (rinforzando o indebolendo) l’idea economica di base e con quali risultati.

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Published inAmbienteAttualità

5 Comments

  1. […] economico, fatto di ecotasse e licenze di emissione (abbiamo parlato di Emission Trading qui e qui); dall’altro lato un aspetto puramente tecnologico che mira a incentivare la sostituzione […]

  2. MeteoGeek

    A costo di risultare noioso: grazie per questi articoli. Sicuramente l’articolo è utilissimo per districarci nella cronaca di questi giorni, soprattutto per chi come me ne mastica davvero poco di economia.

    Una domanda: non ce l’avevamo pure noi in Italia la carbon tax?

    M.G.

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