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É solo questione di protocollo

Etichetta, non nel senso del bon ton, ma in quello del cartellino. Se la CO2 viene da un paese che ne produce poca ha un valore, se viene da uno che ne produce tanta ha un costo. Questa, a grandissime linee e senza alcuna pretesa di entrare nel dettaglio, la filosofia dell’ETS, il mercato dove si scambiano le quote di emissione. Filosofia e norme che scaturiscono dal Protocollo di Kyoto.

Ora, che in quella surreale attività che a molti piace definire ‘lotta ai cambiamenti climatici’ il suddetto protocollo e tutto quello che questo comporta non servano a un accidente é cosa nota. Qualora infatti tutti i paesi firmatari lo ratificassero e decidessero di fare di tutto per centrare gli obbiettivi fissati, in termini di simulazioni climatiche forse il global warming arriverebbe nel 2106 anziché nel 2100. Che invece in termini finanziari sempre il suddetto protocollo sia un affarone per pochi e un disastro per tutti gli altri é forse meno noto, benché anche su queste pagine lo si vada dicendo da tempo.

Ma no, é necessario, vedrete, quando il sistema andrà a regime sarà un’altra cosa, ci saranno ricchi premi e cotillons per tutti, ci dicevano.

E poi é arrivata la crisi, il valore della CO2 é sceso nel sottoscala, il mercato, più che deprimersi si é fermato. Negli USA, dove comunque qualcuno aveva fiutato l’affare ma non era riuscito a ottenere adeguata copertura normativa di sostegno, il CCX, analogo dell’ETS europeo, é letteralmente fallito. Sulla nostra sponda dell’Atlantico, invece, dove la copertura normativa c’è eccome, si lotta selvaggiamente per salvare il salvabile, cioè per sostenere il prezzo della CO2. Ma la crisi non molla, e i costi aggiuntivi cui alcuni settori industriali sono stati costretti per adeguarsi alle norme di sicuro non giovano, nè, per le rispettive economie nazionali, può aver giovato l’altro ‘effetto collaterale’ del protocollo, la delocalizzazione. Molte industrie, infatti, hanno spostato o progettano di spostare nei paesi ove sono consentite quote di emissione più alte le proprie attività, così si salva il conto economico ma resta uguale il saldo della CO2, che ovviamente non conosce confini.

Ripeto, tutte cose note, anche a chi ha preso le decisioni.

Bene, ora che sta terminando la prima fase attuativa del protocollo di Kyoto e si sta per aprire il secondo periodo previsto dagli schemi ETS, qualcuno scopre che cambiando le regole e consentendo agli stati che ne abbiano, di vendere anziché di cedere gratuitamente le quote concesse, selezionando attività industriali particolarmente in difficoltà, si potrebbero fare un sacco di soldi e magari guadagnare qualche punticino sulla crisi. Non solo, così facendo, anche limitando la vendita a una piccola parte di queste quote, si scongiurerebbe il rischio di delocalizzazione salvando qualche posto di lavoro.

Apriamo il mercato dell’aria perché ci porterà alla rivoluzione verde, ci dicevano. Milioni di posti di lavoro arriveranno a far tornare verdi le nostre valli, raccontavano. Ora, per evitare che quel mercato dell’aria dove guadagnano in pochi e ci rimettiamo tutti ammazzi quei pochi posti di lavoro che restano, occorre cambiare le regole.

Dall’ANSA

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Cmcc, emissioni possono valere 6,7 mld all’anno per i Paesi indebitati dell’euro-zona, con il sistema ETS

ROMA – Dalla lotta ai cambiamenti climatici possono giungere anche delle soluzioni anticrisi. Le emissioni possono, infatti, valere 6,7 miliardi di euro all’anno attraverso la riorganizzazione della modalita’ di assegnazione dei permessi di emissione del sistema Ets (Emission trading scheme). E la cosa riguarderebbe i Paesi indebitati dell’euro-zona, contribuendo a salvaguardare migliaia di posti di lavoro. A dirlo il Centro Euro Mediterraneo per i cambiamenti climatici (Cmcc) che cita l’ultimo studio pubblicato dalla London school of economics. Secondo il rapporto ”per tutelare le imprese e l’occupazione, nella fase di scambio 2013-2020, i settori a uso intensivo di carbonio” potrebbero ricevere ”delle quote di emissione gratuite”. Un intervento su determinate imprese e su assegnazioni generalizzate dei diversi settori ”potrebbe far guadagnare miliardi di euro all’anno e consentire ai Paesi dell’Unione europea di vendere i propri permessi”. Questa iniziativa ridurebbe ”la probabilita’ di una rilocalizzazione delle emissioni di CO2”. Per gli autori dello studio ”il rischio aggregato di perdita di posti di lavoro o CO2, risultante dall’applicazione delle attuali normative europee, potrebbe essere raggiunto gia’ con una piccola quantita’ dei permessi che vengono assegnati gratuitamente”.

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E la chiamano finanza verde.

Chiudiamo con una piccola nota ironica. Tutto questo, come abbiamo detto e letto, lo chiamano ‘lotta ai cambiamenti climatici’, quello che prima che si chiamava riscaldamento globale ma che ora non si può più dire.

Dal diario del web, che riprende una notizia della BBC:

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Gas serra, per gli scozzesi troppa Co2.

Colpa del freddo ll governo non è riuscito a rispettare gli obiettivi prefissati di riduzione delle emissioni per il 2010 a causa del freddo eccessivo, che ha costretto i cittadini a ricorrere massicciamente a termosifoni e stufe

ROMA – Il governo scozzese non è riuscito a rispettare gli obbiettivi prefissati di riduzione delle emissioni per il 2010 a causa del freddo eccessivo: è quanto pubblica il sito della BBC. + 1,9% – Secondo i dati ufficiali resi noti dalle autorità scozzesi – i primi che contengono gli obbiettivi di riduzione dei gas serra – le emissioni del 2010 rispetto all’anno precedente erano aumentate dell’1,9%, a causa dell’ondata di freddo – la peggiore dell’ultimo secolo – che ha costretto la popolazione a ricorrere in modo massiccio ai riscaldamenti.

BENE PERO’ RINNOVABILI E CASE A IMPATTO ZERO – Da allora sono però stati fatti dei progressi: il numero delle abitazioni con un’elevata efficienza energetica è passato dal 55% al 62%, con un tasso di crescita quasi raddoppiato nel biennio 2011-2012; l’anno scorso poi ha visto il record di produzione di energia dalle rinnovabili, con il 35% del fabbisogno.

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E lo chiamano riscaldamento.

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Published inAttualitàEconomia

3 Comments

  1. donato

    Guido Botteri nel suo commento ha tirato in ballo la vicenda che in queste ore infiamma Taranto e dintorni. Questo argomento, a prima vista, sembra OT, ma, in realtà, è perfettamente in linea con i temi trattati nel post. L’industria siderurgica, infatti, assorbe molta energia e produce molta CO2. Essa è il tipico esempio di attività costretta a comperare i famigerati permessi di emissione del sistema ETS. Se invece di perdere tempo (e soldi) appresso alla CO2 il management dell’ILVA avesse avuto la possibilità di investire nella bonifica ambientale, probabilmente non saremmo arrivati a questo punto. Tutti hanno riconosciuto all’azienda di aver fatto molti passi avanti rispetto a quanto fatto dall’impresa da essa rilevata. Il guaio è che la bonifica andava piuttosto a rilento. Perché non si sono accelerate le operazioni di bonifica riducendo, per esempio, i costi dei certificati verdi? Oggi sembra che nessuno sappia che pesci prendere. Tutti, tranne i magistrati ed i lavoratori, balbettano e annaspano indecisi su tutto. Gli ambientalisti sembrano aver vinto, ma devono fare i conti con la rabbia dei lavoratori e delle loro famiglie. I politici brancolano letteralmente nel buio: alcuni, dopo aver cavalcato per anni la tigre ambientalista, si trovano a dover dar conto del loro operato ad una base piuttosto irritata (per usare un eufemismo). In tutto questo a rimetterci saranno i cittadini italiani: a Taranto continueranno a morire a causa dei guasti ambientali causati nel passato dalle acciaierie (il sequestro, in questo senso, non serve assolutamente a nulla), perderanno il posto di lavoro, la filiera produttiva italiana perderà parte della materia prima e dovrà importarla dalla Germania o dalla Cina, il PIL scenderà, le tasse aumenteranno per far fronte ai costi sociali della terribile crisi occupazionale pugliese.
    Secondo me se, invece di partire, a mo’ di ariete, con il sequestro preventivo, si fosse fatto ricorso a procedure altrettanto severe, ma che garantissero la continuità della produzione e la tutela dei posti di lavoro con costi umani molto contenuti, saremmo riusciti a salvare capra e cavoli. Ho l’impressione, invece, che se qualcuno non ci mette una pezza, ne abbiamo combinata un’altra delle nostre: abbiamo, ancora una volta, buttato l’acqua sporca con il bambino. Dipendesse da me alleggerirei i costi per l’acquisto dei certificati di emissione e dirotterei tutte le risorse così ottenute nei programmi di bonifica ambientale. Io, però, non ho simili poteri per cui sono costretto ad assistere, impotente, alla distruzione di un altro pezzo della nostra industria pesante. Dopo la chimica, l’alluminio, il tessile, l’energia, l’industria metalmeccanica, un’altra delle realtà industriali del nostro Paese è entrata nel tunnel della dismissione. Un altro esempio di decrescita felice ben riuscito. Peccato che il conto lo pagheranno i nostri figli.
    Ciao, Donato.

    • Donato, come al solito: ben detto.
      gg

  2. Guido Botteri

    Dall’ANSA citata:
    — i settori a uso intensivo di carbonio” potrebbero ricevere ”delle quote di emissione gratuite” —
    cioè, fatemi capire, i settori a uso intensivo di carbonio vanno agevolati…ma allora a chi stanno facendo la lotta, questi ambientalisti…a chi fa un uso moderato di carbonio ? O quale lotta stanno “realmente” facendo ?
    E qui devo autocensurarmi su quel che mi verrebbe da commentare. Meglio che mi sto zitto.
    Insomma si afferma che la CO2 causerebbe la fine del pianeta (cosa a cui personalmente non credo neanche un po’), ma poi, con disinvoltura, si vogliono agevolare proprio gli usi intensivi di carbonio… perché, non lo sapevano da prima, questi economisti, che distruggendo quelli possono dire addio ai posti di lavoro, e a tutto ciò che deriva da una florida economia (maggiore speranza di vita, migliore sistema sanitario, più solido sistema di welfare ecc.) perché finiremo mani e piedi nelle mani di chi sa bene cosa sia tutto questo, e se la ride mentre fa l’asso pigliatutto ?
    Intanto vorrei sapere quali posti di lavoro daranno agli operai dell’ILVA (senza contare l’indotto) che qualche zelante ambientalista sta buttando sulla strada. Li accoglierà in casa sua ?
    Secondo me.

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