Appena ieri abbiamo pubblicato un post linkando alcuni articoli che affrontano in modo a dir poco critico il tema dello sviluppo della filiera delle risorse rinnovabili nel nostro Paese.
Un tema assai scottante, non solo perché tocca il più importante dei settori strategici, ma anche perché, piaccia o no, sia avvenuto con merito o no, il business del vento, del sole di poco altro ancora, e’ ormai una fetta importante dell’economia nazionale, con tutto quello che questo comporta anche in termini occupazionali. Con prospettive, come abbiamo letto, tutt’altro che rosee.
Poteva quindi questo settore sfuggire all’endemica attitudine italica di farsi del male da soli anche in termini di cura del territorio e relativa gestione ‘sportiva’ ove non addirittura malversata della cosa pubblica?
Naturalmente no. A lanciare il segnale, per la verità già sentito, sono stati sempre ieri Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella sulle pagine del Corriere della Sera.
Quelle pale eoliche come grattacieli davanti alla piccola Pompei dei Sanniti (il link e’ della rassegna stampa ENEA).
Una bella fila di torri eoliche a incorniciare un luogo di incredibile valore storico e culturale. Un esempio classico di sfruttamento della situazione, di convinzione, non sappiamo ancora se si potrà dire fondata o meno, che nel settore delle risorse rinnovabili tutto e’ possibile, anche quello che in condizioni normali scatenerebbe un putiferio. E’ curioso e anche molto significativo, che di queste cose si venga a sapere dalle pur attente analisi delle firme del Corriere, piuttosto che da indignati sit-in di protesta delle associazioni ambientalistiche che per altri casi hanno dato vita ad azioni spettacolari.
Soltanto pochi giorni fa un tribunale regionale ha dato ragione a Greenpeace contro Enel perché quest’ultima non ha gradito la campagna di “informazione” in cui i paladini dell’ambiente hanno usato termini come killer, vittima, crimine e sporca verità per descrivere l’impatto delle centrali a carbone. Lungi da noi voler entrare nel merito della sentenza, leggere pero’ che l’uso di questa terminologia e’ conforme ai dati scientifici e a quanto a conoscenza della comunità scientifica internazionale lascia quanto meno perplessi. Ripeto, non nei termini della sentenza, perché Enel pare non abbia sollevato eccezioni sulla ricerca commissionata da Greenpeace a Somo, il network di ricerca che ha raccolto i dati, quanto piuttosto sul carattere diffamatorio (evidentemente non riconosciuto come tale) della terminologia utilizzata.
Altra faccenda spinosa dunque. Forse potrà aiutare leggere qualcosa dal sito webdi Somo:
Lo scopo di Somo e’ quello di fornire ad altre NGO informazioni che possano essere utilizzate nella loro attività di lobbying e sostegno. Quando Somo gioca un ruolo di ospite per un network, sarà anch’essa impegnata in attività di sostegno e lobbying […]
Non proprio una terza parte insomma. Anzi, si direbbe proprio una parte in causa. Ma siamo certi che nell’indicare di quante morti e di quanti danni sono oggi responsabili le centrali a carbone, danni climatici compresi ovviamente, avranno avuto cura di indicare anche quanta gente si salva dalla povertà e quante attività produttive esistono grazie alla disponibilità di energia a basso costo? Pare che la stima dei primi sia attorno ai due miliardi/anno a carico della comunità. Solo di incentivi per lo sviluppo delle rinnovabili cosi’ efficacemente gestite e raccontate da Rizzo e Stella, sempre a carico della comunità, tiriamo fuori una cifra tre volte superiore ogni anno.
Non ne usciremo mai.
La lettura dell’articolo di S. Rizzo e G.A. Stella è stata, per me, un pugno allo stomaco.
Io conosco bene Altilia (la vecchia Saepinum) per averla visitata diverse volte. Mi rendo perfettamente conto che non tutti mostrano uguali sensibilità nei riguardi dei luoghi storici ed archeologici. Posso garantire, però, che passeggiando, al tramonto, lungo il decumano della città o sostando sull’ampio piazzale del foro, si avverte un brivido di emozione lungo la schiena allorché un gregge di pecore o un gruppo di mucche, reduci dal pascolo, si avviano verso i ricoveri notturni percorrendo le stesse strade che percorrevano le greggi e le mucche di 2000 anni fa. Si ha l’impressione di un’immersione totale in un mondo che ormai non esiste più. Lo scampanio dei campanacci di mucche e pecore, ora come allora, riempie l’aria tersa del luogo creando delle atmosfere fuori dal tempo e dallo spazio. Il visitatore è assalito da emozioni continue. Dopo il gregge ecco arrivare, ansante, il cane pastore e, buon ultimo, il pastore che batte con il bastone sui basoli di pietra. In lontananza si intravvede una contadina che, con passo svelto, attraversa uno spiazzo delimitato da colonne e rovine e sparisce in un piccolo uscio che immette in chissà quale antro. La suggestione è talmente violenta che la comparsa di un uomo in tunica e calzari che avanza verso il visitatore non susciterebbe una grande sorpresa. Altilia è un luogo magico in cui passato remoto, passato prossimo e presente si intersecano a formare un groviglio inestricabile fino ad essere indistinguibili. Una sensazione che neanche Pompei riesce a suscitare e che ho provato in un solo altro luogo: lo stadio dell’antica Olimpia in un (rarissimo) intervallo tra l’uscita di una comitiva e l’ingresso di un’altra.
A qualcuno queste frasi appariranno retoriche, a qualcun altro melense e sdolcinate. Esse, però, rappresentano una sintesi, molto imperfetta, di ciò che si prova visitando Altilia. Io abito a circa 50 km da questo luogo incantato. Insegno in un luogo che dista non più di trenta chilometri dal sito archeologico. Si può dire che esso rappresenti le mie radici più profonde, il legame indissolubile che mi unisce ai miei progenitori. Da Altilia passava il tratturo che, superati i contrafforti dell’alto Tammaro, scendeva verso la vallata del Tammaro (a sei km da casa mia) e proseguiva verso il tavoliere pugliese. Lungo tutto il percorso del tratturo centinaia di insediamenti pre-romani, romani e post-romani: un libro di storia fatto di pietre, epigrafi, tombe, sculture e milioni di frammenti di ceramica.
Ecco. Questa è Altilia, questo è il luogo ove si vogliono installare le torri eoliche. Valuti ogni lettore, nel proprio intimo, l’opportunità di un simile intervento. Non credo che serva una Valutazione d’Impatto Ambientale per avere una risposta.
E, infine, solo un piccolo accenno al problema torri eoliche. Partendo da Altilia si arriva a Morcone dopo aver percorso una quindicina di chilometri di superstrada. Da Morcone, attraverso la viabilità provinciale, si parte in direzione di Circello e di Colle Sannita. Dopo venticinque chilometri circa, si entra in uno dei più grossi insediamenti di torri eoliche d’Italia che si sviluppa sui territori dei Comuni di S. Marco Dei Cavoti, Foiano in Valfortore, S. Giorgio La Molara, S. Bartolomeo in Galdo, Montefalcone in Valfortore e Castelfranco in Miscano (per limitarsi al territorio della provincia di Benevento). Diverse volte ho provato a contarle, ma, poiché si estendono su qualce centinaio di chilometri quadrati, non sono mai riuscito nell’impresa. Ho stimato che siano oltre 300. Messe ovunque ed in spregio ad ogni normativa. Qualcuna a ridosso di abitazioni. Due elettrodotti aerei le collegano alla rete elettrica nazionale. Tutto il crinale dell’Appennino meridionale a cavallo della Campania, del Molise e della Puglia brulica di “mulini a vento”. Per non parlare di centrali fotovoltaiche (tre nei territori di Colle Sannita e Circello, uno in quello di Pietrelcina) e di micro-impianti fotovoltaici domestici. Potremmo definire la valle del Fortore ed i territori limitrofi una “green valley”. L’emigrazione, però, la fa da padrona e di “green jobs” se ne vedono ben pochi.
In merito ai soggetti cui fa capo la società imprenditrice di cui parlano Rizzo e Stella è meglio stendere un velo pietoso: più che argomento di blog è argomento di atti giudiziari.
Come vedete quando parlo di energie alternative, parlo di qualcosa che tocco quotidianamente con mano (e non solo figurativamente 🙂 ).
Ciao, Donato.