Tra qualche giorno inizierà la conferenza di Rio+20, l’appuntamento dell’anno per il movimento salva-pianeta. Anzi, nelle altisonanti premesse del titolo della conferenza si vorrebbe che fosse l’appuntamento del ventennio, al pari di quanto accaduto per il precedente del 1992.
Che la situazione sia molto diversa e che serpeggi una certa depressione tra gli attivisti che gonfieranno i numeri della partecipazione all’evento, lo abbiamo già detto. Se i primi a non crederci sono i pezzi da novanta dell’economia mondiale sarà difficile che si possa conseguire qualche risultato in termini di policy.
Ma, del resto, non è dato sapere cosa esattamente si vorrebbe decidere.
Sono anni ormai che si è voluto legare a doppio filo il problema ambientale a quello climatico, benché il primo sia per molti aspetti evidente ed affrontabile – e sappiamo anche che nei paesi sviluppati questi temi sono affrontati abbastanza efficacemente – mentre il secondo sia molto più aleatorio e soprattutto fondato in termini di allarme esclusivamente sulle simulazioni climatiche che prospettano futuri scenari apocalittici.
Bene, oggi, per l’ennesima volta ma non basta mai, parliamo proprio di quelle. E le colleghiamo alle policy, a quelle azioni che dovrebbero essere implementate per impedire, mitigare o fronteggiare i disastri suddetti.
Le simulazioni climatiche, ci dicono, sono costruite per produrre scenari di lungo periodo su vasta scala spaziale, forse la più vasta che c’è, ossia quella globale. I recenti appuntamenti diplomatici, Copenhagen, Cancun etc etc, hanno chiaramente mostrato che a livello globale le possibilità di interventi corali sono prossime a zero. La policy dunque, ammesso e non concesso che si voglia dar credito a questi scenari, dovrebbero essere regionali o addirittura locali. Perché si possa mettere in atto una qualsivoglia azione, tuttavia, è assolutamente necessario conoscere lo scenario che si vorrebbe impedire, mitigare o fronteggiare. Non a caso il redigendo 5° rapporto IPCC, il cui primo volume dovrebbe essere disponibile nel corso del 2013 e 2014, sarà probabilmente molto più improntato a valutazioni di medio periodo e di limitata scala spaziale. Perché il mare salirà pure, ma lo fa con pattern anche opposti da zona a zona, perché le temperature medie aumenteranno pure, ma continuano ad essere il risultato di estremi che si manifestano comunque a ridotta scala spaziale, perché gli eventi estremi, di fatto, avvengono appunto anch’essi su aree molto limitate.
Ma questo livello di conoscenza semplicemente ancora non lo abbiamo.
Ross McKitrick, un economista già noto agli addetti ai lavori della scienza del clima, ha pubblicato un articolo molto interessante sul Financial Post canadese. Si parla di random walk, cioè della formalizzazione matematica di traiettorie che consistono di passi casuali. Il concetto è stato utilizzato in molti settori scientifici, la biologia, l’economia, l’ecologia, l’informatica, la fisica e la chimica. Un modello di previsione perfetto, paragonato con uno che si basi sul random walk, dovrebbe avere un punteggio pari a zero. Uno che non faccia meglio di una previsione casuale, dovrebbe avere punteggio pari a uno.
In un articolo uscito nel 2011 sul Journal of Forecasting, si è provato a testare le performance dei modelli climatici a scala regionale e su base decadale, scoprendo che i punteggi ottenuti andavano da 2,4 a 3,7. McKitrick riporta il commento degli autori: “Ciò implica che gli attuali modelli [climatici] non sono appropriati per previsioni localizzate a scadenza decadale, sebbene siano utilizzati come input per il policy making.”
Fare policy su queste basi significa non concentrarsi sul problema ma sulla cura, che incidentalmente può non avere nulla a che vedere con il problema stesso.
E pare non sia un problema di solo alcuni modelli. Mediando tutti e 23 i modelli usati dall’IPCC per il report del 2007, per valutarne la performance sulle temperature della terraferma a partire dal 1979 in comparazione ad un modello di sviluppo socio-economico, McKitrick ha scoperto che nonostante tutti gli effetti di carattere socio-economico si dice siano eliminati/corretti dai dataset delle temperature osservate, mentre i modelli climatici non riescono a simularle, se si tiene conto dei pattern socio-economici si ottengono risultati molto migliori.
L’articolo di McKitrick è qui. Nelle conclusioni l’economista promette altre novità in materia di comparazione delle fluttuazioni della temperatura con l’evoluzione dei pattern socio-economici. Vedremo.
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