Questo post è uscito in originale su Chicago Blog a firma di Carlo Stagnaro.
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Non contenti dei generosi sussidi ricevuti finora, i produttori europei di pannelli fotovoltaici puntano tutto riesumando dalla storia del pensiero economico il cadavere più putrefatto: quello del protezionismo.
Un informato articolo di Quotidiano energia parla di una sorta di “partito anticinese” che si starebbe organizzando in Europa. Un gruppo di aziende produttrici di pannelli, guidate dalla tedesca SolarWorld, starebbe promuovendo una petizione alla Commissione europea per ottenere l’introduzione di tariffe “antidumping”, sulla scia dell’analogo provvedimento adottato da Barack Obama negli Stati Uniti (che hanno aumentato i dazi dal 5 per cento a una quota variabile tra il 31,2 e il 250 per cento).
La Commissione, come sempre, non ha una posizione e preferisce, lasciando trapelare voci semiufficiali, dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Secondo Qe,
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“Difenderemo la produzione europea da distorsioni come i sussidi o il dumping”, ha garantito il portavoce della Commissione Ue al Commercio, John Clancy, mentre una bozza della comunicazione sulle fonti rinnovabili che Bruxelles presenterà prossimamente, resa nota da “EurActiv”, afferma che “dati i benefici derivanti dall’espansione del commercio globale, è importante che le misure che possono frenare il commercio siano evitate”.
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Il fatto è che i dazi sui pannelli sono una misura incomprensibile. E non solo perché valgono anche in questo caso gli usuali caveat contro ogni forma di protezionismo. Soprattutto perché non dobbiamo dimenticare che non esiste, oggi e fino al raggiungimento della fantomatica “grid parity”, una domanda di pannelli indipendente dai regimi di incentivazione. Noi compriamo e installiamo celle fotovoltaiche perché il consumatore elettrico è chiamato a pagare un premio alla produzione di energia “pulita”. La teorica giustificazione di questo premio sta nei benefici ambientali derivanti da una minore dipendenza dalle fonti fossili. Va da sé – è perfino imbarazzante doverlo dire – che i benefici ambientali sono funzione del consumo evitato di fonti relativamente più inquinanti, e sono del tutto indipendenti dalla località dove le tecnologie “pulite” sono state prodotte. Una saggia gestione delle risorse pubbliche, dunque, richiede l’impegno ad abbattere il massimo delle emissioni al minimo del costo. Nel caso della generazione elettrica fotovoltaica, questo implica acquistare i pannelli più convenienti, nel rapporto prezzo/qualità: pannelli che sempre più vengono prodotti nel Far East, come dimostra questo grafico.
Cina e Taiwan, che nel 2000 erano sostanzialmente assenti dal mercato, nel 2010 detenevano una quota di mercato congiunta del 60 per cento (in crescita); Germania e Giappone, fino a poco tempo fa “padroni” del mercato, oggi messi assieme non arrivano al 20 per cento, pari alla quota tedesca nel 2007. Il sorpasso si è verificato per una e una sola ragione: i panelli cinesi costano meno di quelli tedeschi. E, poiché il costo medio attualizzato del kWh fotovoltaico dipende praticamente solo dall’investimento upfront, l’energia fotovoltaica prodotta con pannelli orientali costa meno di quella occidentale. O, per metterla altrimenti, a parità di spesa coi pannelli cinesi otterremo una più significativa riduzione della CO2.
Introdurre dazi o altre forme di protezione tariffaria significa dunque far crescere il costo relativo dell’energia “pulita”: a parità di spesa ottenere un beneficio ambientale inferiore, ovvero a parità di beneficio ambientale spendere di più. Questa incongruenza logica fa già parte della normativa nazionale di alcuni Stati membri, inclusa l’Italia che nel Quarto conto energia riconosce un premio del 10 per cento agli impianti solari “made in Europe” almeno per il 60 per cento. Ora, nell’attesa di eventuali accelerazioni europee, si parla di un inasprimento delle norme anti-cinesi nel Quinto conto energia.
Con che risultato? Distribuire un po’ di denari pubblici a chi ne ha già tettati troppi, tradire la natura di “politica ambientale” degli incentivi alle fonti rinnovabili, e incancrenire le difficoltose relazioni Italia-Cina. Raramente si è visto un simile esempio di miopia. Cari tecnici, ripensateci: non siate peggio dei politici.
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