Ghiaccio artico, gas serra, Max Plank Institute. Ci sono tutti gli ingredienti necessari. Il primo diminuisce, i secondi aumentano, il terzo tira le somme.
Non è la solita simulazione modellistica a individuare nell’accresciuto effetto serra l’origine della diminuzione dell’estensione del ghiaccio marino al Polo Nord. No, il ragionamento è più complesso, si va infatti per esclusione.
Dall’analisi delle oscillazioni annuali e pluriennali del periodo 1950-1970, evidentemente naturali, hanno desunto che quanto accaduto dopo naturale non può essere. Il fatto che 20 anni di dati non oggettivi difficilmente si possano mettere a confronto con altrettanti anni di dati oggettivi evidentemente dal punto di vista scientifico non e’ limitante. Quindi, fuori uno. Leggendo poi i dati sulla radiazione solare, che nelle ultime decadi sarebbe stata stabile o in lieve diminuzione, hanno desunto che neanche il Sole può averci messo lo zampino. Quindi, fuori due.
Per cui, esaurite le spiegazioni plausibili, ne resta solo una, appunto i gas serra.
Ci aspettiamo una diminuzione della copertura glalciale, esattamente quello che sta accadendo, dichiarano candidi al reporter di Science Daily gli autori del paper che documenta la loro analisi. Al di là del leggero ribaltamento imposto al metodo scientifico, l’ipotesi, con le altre centinaia di paper che gli si affiancano sull’argomento, se del caso reggerà al confronto scientifico, diversamente si vedrà.
Quel che mi pare più interessante e al tempo stesso ironico, è la spiegazione che si da’ del fatto che tale ragionamento non è evidentemente applicabile al ghiaccio marino antartico, di cui si conosce la scarsa propensione ad adattarsi al disastro e a piegarsi sotto i colpi del forcing antropico.
Laggiù, spiegano sempre gli autori, non è la CO2 il driver dell’estensione del ghiaccio, perché quest’ultimo è libero di andare a zonzo per l’oceano antartico non essendo costretto dalle terre emerse. Sono piuttosto le correnti marine e i venti a determinarne l’estensione. Il ghiaccio del polo nord, invece, non può scappare, e quindi l’alterazione del bilancio radiativo ne provoca l’inevitabile scioglimento.
Apprendiamo dunque da questo articolo su Science Daily le seguenti cose:
- I modelli climatici con cui per decenni ci hanno propinato la litania del riscaldamento globale e del cambiamento climatico, per il polo nord non sono buoni.
- La CO2, che dovrebbe essere causa di sconvolgimenti di ampiezza globale, diviene alla bisogna un forcing locale, lasciando agio di agire ad altri forcing in altri luoghi.
Perché si perché è così.
mi sono letto l’abstract linkato;
diciamo che, nelle linee generali, il discorso che fanno ha una sua logica (al di là del confronto tra dati “storici” e misurazioni satellitari “recenti”);
in sostanza: se è vero (SE…) che il trend di diminuzione dell’estensione dei ghiacci artici è reale, negli ultimi 30-40 anni, l’unica correlazione che trovano coerente con questo trend è l’aumento della concentrazione di gas serra (non parlano di CO2 in modo specifico), aumento che in effetti è un dato credibile;
la spiegazione che viene data sulle “difformità” di comportamento dei ghiacci antartici andrebbe valutata un po’ meglio;
di sicuro c’è una enorme differenza all’origine:
i ghiacci artici sono 100% mare congelato, mentre i ghiacci marini antartici sono le propaggini estese di un immensa calotta glaciale che poggia su terraferma e che in alcune zone raggiunge anche 3 Km e oltre di spessore;
è inevitabile che anche a “parità” di condizioni climatiche (=> % di gas serra nell’atmosfera), la risposta dei due poli non può che essere inevitabilmente diversa;
peartiamo dal presupposto che il pianeta si stia “scaldando” in maniera seppur impercettibile: è noto che la capacità di immagazzinamento – e di rilascio nel tempo – del calore da parte degli oceani è immensamente superiore a quella delle terre emerse, quindi è pure logico che una coltre glaciale che galleggia sul mare (fonte potenziale di surplus di calore immagazzinato derivante da un aumento medio della T° globale) e che ha uno spessore di qualche metro al massimo ne risenta molto di più che non una calotta dalle caratteristiche fisiche dette sopra come quella antartica…..
personalmente ritengo che il ruolo della circolazione oceanica sia fondamentale nella determinazione degli “effetti” sulle coltri glaciali delle zone polari, non è un caso che la penisola antartica, che si spinge ben più a nord del resto del continente, e che viene lambita da correnti oceaniche (e atmosferiche) che non “toccano” il resto dell’Antartide, sia in effetti l’unica che risente in negativo di temperature medie misurate più alte e decrescita della copertura glaciale…
Tanto il post, quanto il commento di L. Mariani si prestano ad alcune riflessioni. La prima considerazione riguarda i modelli climatici. I risultati dei modelli climatici ed altre tipologie di ricerche (non ultime quelle che applicano i modelli econometrici alla climatologia) hanno individuato nella CO2 atmosferica il driver che “causa” il riscaldamento globale (fisicamente per alcuni, secondo Granger per altri). Il riscaldamento, inoltre, deve essere inteso in senso globale, cioè esteso a tutto il pianeta Terra. Secondo molti climatologi questa è la grossa differenza tra il riscaldamento attuale e altre variazioni climatiche del passato. La PEG o LIA, prima negata, poi accettata con molti distinguo, viene considerata da molti studiosi del clima un fatto locale e, quindi, non paragonabile al riscaldamento globale che ci affligge in questi tempi. Quando si fa notare che nel passato ci sono stati periodi caldi come quello attuale, ci si sente rispondere che è vero, ma che i dati in nostro possesso sono pochi e non in grado di escludere che si trattasse di fenomeni regionali e non globali. Stessa motivazione, per esempio, è stata utilizzata per giustificare il fatto che i dati della carota di ghiaccio antartico dimostrano che le concentrazioni di CO2 in atmosfera sono successive all’aumento di temperatura dell’aria e non viceversa. Sulla scorta di quanto ho potuto capire dalle anticipazioni dell’articolo firmato da D. Notz e J. Marotzkei, sembrerebbe che questa benedetta CO2 riscalda globalmente il pianeta Terra, ma produce effetti differenti. Il riscaldamento globale determinerebbe il disgelo Artico, ma non quello Antartico. Secondo il mio modesto parere il meccanismo che i ricercatori hanno individuato potrebbe spiegare una diversa velocità nello scioglimento dei ghiacci marini: maggiore per quelli artici, minore per quelli antartici, ma non un trend di segno opposto. In altre parole entrambe le calotte polari dovrebbero sciogliersi anche se con velocità diverse, in quanto la temperatura atmosferica è maggiore, rispetto al passato, sia in zona artica che antartica. Anzi in Antartide dovrebbero essere attivi due meccanismi che determinano lo scioglimento del ghiaccio: la temperatura atmosferica e l’azione dei venti e delle correnti. In altre parole la velocità di fusione della calotta antartica dovrebbe essere maggiore di quella della calotta artica.
In merito al commento di L. Mariani noto che Perry non è un climatologo, ma un idrologo (parente dei geologi 🙂 ). Come tutti sappiamo i geologi sono tra le categorie meno favorevoli all’ipotesi AGW in quanto, conoscendo la storia della Terra, si rendono conto dell’assurdità di spiegare il riscaldamento attuale come esclusiva conseguenza del comportamento dell’uomo. Essi, pertanto, sono molto più disponibili ad individuare cause naturali che determinino le variazioni climatiche (oggi come nel passato). Non mi stupisce, pertanto, che Perry sembra abbia individuato nella variabilità solare la causa delle variazioni di precipitazioni che determinano la variabilità delle portate dei fiumi.
Come tante volte abbiamo avuto modo di dire, correlazione non significa causalità per cui “l’impronta digitale” del ciclo solare nei cicli dei fiumi potrebbe essere una semplice coincidenza. Perchè, però, non si può parlare di semplice coincidenza anche nel caso della correlazione fusione ghiacci polari-concentrazione di CO2? Perché, infine, nel passato i ghiacci hanno variato estensione ed area anche in mancanza di variazioni nel tasso di CO2 atmosferico? E con queste domande che mi frullano per la testa, vista anche l’ora tarda, auguro buona notte a tutti.
Ciao, Donato.
Caro Guido,
non ho ancora letto l’articolo originale su GRL (e di ciò mi dolgo, ma provvederò quanto prima). Tuttavia la sintesi che emerge da Science Daily, irta di virgolettati, mi lascia molto perplesso in quanto il declino (se guardiamo l’indice geomagnetico – ad es. si veda la figura 1 in http://ks.water.usgs.gov/waterdata/climate/ – sarebbe più corretto parlare di stabilizzazione) dell’attività solare è un fatto recente e che segue ad un incremento consistente avvenuto a partire dagli anni 40 e che si è interrotto con il massimo assoluto a inizio anni ‘90. Mi domando se siamo oggi in grado di escludere che il livello a cui si è posizionata oggi l’attività solare sia compatibile con la stabilità della calotte artica.
Mi pare però che l’importate sia oggi non tanto trovare la verità (che in sistemi complessi è spesso una chimera non ancora alla nostra portata) ma un colpevole, il che se in campo mediatico è prassi odiosa, lo è a maggior ragione in campo scientifico ove il dire solo le poche cose che emergono dai dati che si analizzano dovrebbe essere la regola.
PS: per inciso nella figura che ho segnalato (che è stata prodotta dal dottor Perry dell’USGS, quale cita come riferimenti due suoi lavori scientifici) si evidenzia la correlazione fra deflussi del Mississipi e indice geomagnetico. Ma se il sole parrebbe (e qui uso il condizionale perché potrebbe trattarsi solo di una coincidenza) influenzare il discharge del più grande fiume americano perché escludere a priori un’azione analoga sui ghiacci artici?
Così ad occhio, e forse euforico per aver finalmente lasciato ieri l’ospedale, mi parrebbe che costoro siano alla frutta.
Sbaglio ?