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Il giorno (o giornale?) dell’Apocalisse

Erano i tempi di Martin Lutero e della riforma anglicana quando si parlava di apocalisse. Contestualmente si affermava la prima grande rivoluzione tecnologica in termini di comunicazione: l’invenzione della stampa. Ora siamo sicuramente in un nuovo periodo di rivoluzione tecnologica nel campo dell’informazione e si torna a parlare di apocalisse in tutte le salse. Ci sono canali tv dedicati, laddove sui canali a tema più generalista non manca mai in palinsesto un programma opportunamente apocalittico. Sulla rete non ne parliamo, si formano addirittura delle comunità sconfinate, nascono siti web all’upo nominati, si rilancia il tam tam a più non posso. Un caso banale ma esplicativo per tutti il presunto terremoto di Roma del maggio dell’anno scorso o, se preferite, l’assurda isteria del 21 dicembre 2012.

Sicché la maggior parte della gente ci avrebbe fatto il callo e non ci farebbe più caso, anzi, ogni nuova presunta apocalisse sarebbe occasione per fare spallucce, ove invece i pochi che restano vivrebbero una vita di fobie. Questa abitudine sarebbe all’origine della scarsa propensione dei più – e quindi di chi li rappresenta in sede decisionale – a prendere sul serio il rischio global warmig, la cui derivata apocalisse, ovviamente, sarebbe da annoverare tra quelle reali.

Questo il pensiero riassunto in questo lunghissimo articolo che a sua volta costituisce l’estratto di un libro sull’argomento Apocalyptic Thinking.

Come non essere d’accordo circa l’inutilità di continui messaggi di armageddon imminente? Persino in ambito climatico gli autori ammettono che si faccia decisamente abuso della pratica dell’annuncio a sensazione. Eppure sfugge loro un tassello importante. Togli l’apocalisse – che di sicuro non ha alcun fondamento scientifico – dal tema del global warming e dei cambiamenti climatici, e togli il problema dall’agenda delle cose importanti. Per quale ragione invece secondo loro dovrebbe restarci non è dato saperlo.

Ma non solo, l’altro errore che commettono, almeno secondo l’opinione di Judith Curry che appare del tutto condivisibile, è quello di scrivere e pensare che tutti questi messaggi distraggano dall’azione. Non è così, la distrazione c’è di sicuro, ma riguarda le cose importanti che si potrebbero e dovrebbero fare subito a beneficio del rapporto ambiente-uomo-clima a prescindere dalla fosca e indefinita immagine del disastro che verrà.

Anche per questo c’è un esempio. Ne parla sempre la Curry per il tramite di Mark Lynas, che di fatto riporta spunti del suo libro. Si parla di aumento del livello dei mari e di atolli del Pacifico. Gli eventi intensi, causa di inondazioni e repentini fenomeni erosivi, non sono più collegati all’aumento del livello del mare a scala globale di quanto lo siano le ondate di calore con l’aumento delle temperature globali. Per molte delle zone cosiddette a rischio con riferimento al livello del mare, pur sussistendo un trend positivo noto a livello globale, tutto questo aumento a livello regionale e locale non c’è stato. Questo è normale, perché una media si compone di alti e bassi. Ma è altrettanto normale, oltre che noto alle popolazioni locali, che la variabilità climatica di breve periodo, ad esempio connessa con il segno dell’ENSO, provochi oscillazioni di decine di centimetri da un anno all’altro, cose con cui quelle zone del mondo hanno a che fare da sempre. Molto meno normali sono invece le pratiche – queste sì di origine antropica – di costruzione di muri per ‘rubare’ la terra al mare aggravando il processo erosivo  o prelevare materiale dalle coste e dalle barriere coralline per farne costruzioni, esponendosi maggiormente al moto ondoso. Ancora meno normale, all’arrivo dell’evento intenso, è puntare il dito verso un’origine globale della sventura, chiedendo misure mitiganti altrettanto globali, quando una sana mitigazione locale sarebbe molto più efficace.

Troppo lontane le isole del Pacifico per farsi un’idea del problema? Non direi. A distruggere New Orleans è stata la rottura di argini malamente manutenuti e notoriamente sottodimensionati, piuttosto che la furia diretta dell’uragano Katrina. Ancora troppo lontano? I fiumi alle spalle di Genova non avevano ancora imparato a scorrere in tubi di cemento quando è arrivata l’ennesima alluvione nel novembre scorso. Mi piacerebbe sapere da allora ad oggi quanti convegni sono stati fatti e quanti paper sono stati pubblicati sul presunto aumento degli eventi estremi e quanti invece sulla necessità di sanare le ferite inferte al territorio. Ma temo di conoscere la risposta.

Addendum

Sta succedendo qualcosa di strano. Mentre il flusso di informazioni tecniche sulle dinamiche del clima ha rallentato parecchio, forse perché di questi tempi si dovrebbero mettere in evidenza più segnali contro che pro circa l’ipotesi AGW, sta aumentando vertiginosamente il numero di interventi di stampo sociologico. Ne abbiamo appena commentato uno, ma c’è n’è subito un altro. E non è un libro o un articolo di giornale dell’opinionista di turno, è un paper vero e proprio pubblicato su Nature Climate Change, cioè su rivista peer review.

Questo processo sarebbe di per se naturale. E’ infatti normale che tutti i settori dello scibile umano partecipino alla discussione. Ancora una volta è però meno normale il fatto che si discuta assumendo che il cambiamento climatico di origine antropica sia un fatto accertato e dimostrato, e ci si meravigli, fornendo anche poi delle spiegazioni, dell’atteggiamento di chi è obbiettivo del processo informativo. Nella fattispecie si legge in questo paper che non saremmo attrezzati dal punto di vista psicologico e quindi sociologico ad accettare la realtà del climate change e quindi ad affrontarla come si converrebbe. In fondo siamo nello stesso ambito dell’articolo che ha originato questo post: non è un problema di inefficacia della comunicazione o di predisposizione d’animo, è un problema di assenza del problema nei termini con cui viene descritto. Ma se quei termini cambiassero, non ci sarebbe più il problema. Il ‘comunicatore climatico’ se dicesse come stanno veramente le cose come stanno, magari prendendo spunto dalla seppur tardiva ma devastante franchezza della recente uscita di James Lovelock per esempio, cesserebbe istantaneamente di essere necessario. Foreste intere di articoli tutti fondati sulla stessa balla, cioè che saremmo in grado di riprodurre il funzionamento del sistema in modo sufficientemente accettabile da immaginarne l’evoluzione in relazione al forcing antropico. Siccome il tempo passa e la balla si rivela sempre più tale ogni giorno che passa, ora gli scienziati del clima tacciono e si fanno avanti quelli delle scienze sociali chiedendosi come mai non ci crediamo.

E dovremmo starli a sentire? Che ci spieghino prima perché ci credono loro…  Ma forse non c’è ne bisogno, tutto il casino attorno al clima ha origini molto più ideologiche che scientifiche e l’ideologia è la palestra delle scienze sociali.

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