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Come ti aggiusto il clima

Sulle nostre pagine, così come sulla maggior parte dei siti web specializzati in discussioni sul clima, si fa sempre un gran parlare di temperature globali. Del resto lo spauracchio dei nostri tempi è il global warming, un fenomeno appunto globale. Il problema, come molti sanno, è che la temperatura è di per se un fattore misurabile solo in un dato luogo e in un dato momento. Perché si possa ampliare la scala spaziale di riferimento occorrono quindi molti di questi luoghi adibiti alla misurazione. Se poi si vuole conoscerne l’evoluzione nel tempo, occorre ripetere l’operazione a intervalli regolari per procedere poi a comporne la media.

Quanti di questi luoghi ci sono al mondo? Moltissimi. Quanti di questi sono effettivamente utilizzati e/o utilizzabili per monitorare l’andamento della temperatura? Molti meno. Dove sono questi sensori? Quasi tutti sulla terraferma, ovviamente e, altrettanto ovviamente, quasi tutti nelle zone ad alta densità urbana dei paesi più avanzati. Gli Stati Uniti e l’Europa fanno la parte del leone.

Ne consegue che per dare una valenza globale ai dati disponibili sono necessarie molte operazioni di omogenizzazione, anche e soprattutto per limitare il peso delle zone con più alta densità dei dati rispetto a quelle che ne sono molto povere. Ma non è tutto. Le stazioni vengono aperte, chiuse, spostate, dotate di sensori di nuovo genere etc etc. Oppure l’ambiente che le circonda può cambiare. Le zone aride possono essere dotate di verde se vi si costruiscono delle città, come delle aree rurali possono cessare di esserlo se soggette ad opere di urbanizzazione. Insomma, misurare la temperatura nello spazio e nel tempo è molto difficile. Il miglior risultato possibile più che una misura è quindi una stima.

Tuttavia, giustamente, molti centri di ricerca hanno nel tempo costruito dei dataset che la comunità scientifica ha più volte validato circa la rappresentatività dei risultati cui sono giunti. Dal loro lavoro abbiamo scoperto che negli ultimi 150 anni la temperatura media superficiale globale è aumentata di circa 7/8 decimi di grado. Un problema? Sì se si ritiene che questo aumento sia diverso dalle normali evoluzioni di questo parametro e se questo qualcosa si identifica con le attività umane.

Ma siamo proprio sicuri che quando si parla di attività umane e di temperatura si debba necessariamente far riferimento alle emissioni di gas serra? Difficile a dirsi, specie dopo la lettura dell’ultimo post che Roy Spencer ha pubblicato sul suo blog.

Prima di continuare devo chiedervi però di dedicare qualche minuto a leggere anche il penultimo, o almeno il commento che noi abbiamo pubblicato appena una decina di giorni fa. Si parla naturalmente di temperature e di come i dati grezzi differiscano sensibilmente da quelli post-elaborati, specialmente con riferimento all’influenza che su queste misure può avere l’effetto Isola di Calore Urbano. Sembra che il contributo al trend delle temperature della densità urbana sia piuttosto significativo. Siccome però il mondo non è affatto una immensa città, prima di parlare di segnale globale occorre eliminare quel contributo.

E veniamo quindi al post in questione. Roy Spencer è americano, gli Stati Uniti, come abbiamo visto, hanno una elevatissima densità di siti di misura, una densità che pesa certamente sui trend globali. Logico quindi che egli si occupi di analizzare il dataset dell’USHCN, appunto quello che raccoglie i dati di tutte queste stazioni. E cosa salta fuori? Due cose in particolare:

  1. Il trend lineare per il periodo 1973-2012 è più alto nei dati USHCN che in quelli catalogati dalla Climati Research Unit inglese. Terzo classificato il dataset costruito da Spencer tenendo conto della densità della popolazione.
  2. Il segno positivo del trend dei dati USHCN sembra essere interamente frutto di operazioni di aggiustamento dei dati, con un evidente balzo nel biennio 1995-97.

Computando la differenza tra le serie, risulta evidente come questa aumenti progressivamente, subendo un incremento più accentuato a partire dalla metà degli anni ’90, come se da quel periodo in poi gli interventi sui dati grezzi per renderli omogenei, affidabili e rappresentativi abbiano dovuto essere più significativi.

Scrive Spencer: “Leggendo la descrizione dell’USHCN Version 2, sembra che ci siano in realtà soltanto due operazioni sui dati del dataset che possono avere un impatto sostanziale sul trend delle temperature: 1) l’orario di osservazione (TOB) e 2) spostamenti delle stazioni basati su elaborate interpolazioni statistiche tra stazioni di prossimità. Il secondo di questi dovrebbe intercettare e sistemare i cambiamenti e spostamenti della strumentazione così come l’effetto UHI.”

Allora, si potrebbe immaginare che i metodi e gli standard di osservazione siano migliorati nel tempo, giungendo in tempi recenti a livelli accettabili. Evidentemente non è così, perché i dati più recenti sono sottoposti a modifiche più incisive. Tanto che la maggior parte del trend risulta essere attribuibile a queste modifiche. Sono certamente operazioni indispensabili sulla cui precisione e necessità avranno riflettuto e studiato a lungo. Certo è che se il segnale del riscaldamento scaturisce tutto per effetto di attività umane (nel senso degli uomini che sistemano i dati), qualche dubbio sul carattere globale di questo riscaldamento comincia ad essere leggittimo.

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Published inAttualitàClimatologia

Un commento

  1. Alessio

    Interessante che Spencer non ha ancora commentato il commento di Foster (riportato nei commenti del suo post) riguardo il dataset direttamente curato da Spencer (UAH), temperature della bassa troposfera.

    Riportiamolo qui a beneficio di lettori. Come si spiega che il trend UAH 1979-oggi sopra gli USA e’ un significativo +0.22ºC/decade in accordo con il trend CRUTem3 e USHCN, ma molto maggiore dei dati “non aggiustati” di Spencer? Mi aspetto che spieghi come la troposfera mostri trend maggiori della superficie o eventuali problemi col suo dataset. O come l’UHI influisca sulle temperature ricavate dalle radianze misurate da satellite.

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