La misura dell’estensione del ghiaccio marino alle latitudini artiche è uno dei topic della discussione sulle dinamiche del clima degli ultimi anni. Più caldo uguale meno ghiaccio, un’equazione che si sente ripetere spesso che risulta vera a scala geologica, come insegna la storia del Pianeta, ma di cui spesso si abusa, dal momento che mal si attaglia alla descrizione di quanto accaduto in tempi recenti.
Il ghiaccio artico è in declino, questo è incontestabile. Più o meno da quando si è iniziato a misurarlo con metodi oggettivi, sebbene ad esempio appena qualche giorno fa abbiamo pubblicato un post in cui si parla di dati un po’ più vecchi ma normalmente non impiegati per rappresentarne l’andamento, che rendono la realtà di questo declino meno decifrabile.
Molto più che alle temperature in area artica in valore assoluto – anch’esse tuttavia aumentate nelle ultime decadi – l’attenzione deve essere rivolta alle dinamiche atmosferiche a scala stagionale che si realizzano nell’area, tenendo conto anche del trend di lungo periodo degli indici atmosferici con i quali si è soliti riassumere l’andamento di queste dinamiche. Durante la stagione dello scioglimento, infatti, la ventilazione nei bassi strati che deriva dal campo barico può avere effetti determinanti spingendo il ghiaccio fuori dal circolo polare o accumulandolo, segnando così il segno dell’estensione.
Alcuni giorni fa Roy Spencer ha pubblicato al riguardo un post molto interessante sul suo blog, nel quale prendeva in esame il trend di lungo periodo dell’Oscillazione Artica (AO) nei mesi invernali e l’andamento dell’estensione del ghiaccio marino. L’AO è un indice barico che esprime l’andamento delle anomalie di geopotenziale alla quota di 1000 hPa al di sopra dei 20° di latitudine nord. Le oscillazioni del segno di questo indice sono note ai meteorologi in quanto associabili alle dinamiche dei flussi emisferici. Una AO negativa è normalmente indice di circolazione meridiana e può quindi portare fasi di freddo intenso verso le medie latitudini (l’esempio più recente è quello dello scorso febbraio), mentre una AO positiva si associa a flussi ad elevato indice zonale (buona parte delll’autunno scorso e dell’inizio dell’inverno), con conseguente confinamento dell’aria fredda alle alte latitudini.
Di fatto, il segno positivo dell’AO deriva da condizioni di pressione atmosferica in anomalia negativa in area polare, con conseguente circolazione nei bassi strati che favorisce la dispersione del ghiaccio verso le basse latitudini, mentre un segno negativo – che deriva da anomalie positive della pressione atmosferica in area polare – può avere l’effetto opposto limitando lo scioglimento.
Se si prende in esame l’andamento di lungo periodo dell’AO, si notano due cose molto interessanti. La prima è che pur avendo una accentuata variabilità a scala temporale molto limitata, l’AO subisce anche una oscillazione a più bassa frequenza a scala multidecadale. Ciò significa che pur persistendo le oscillazioni ad alta frequenza, l’asticella del valor medio si sposta più in alto o più in basso per lunghi periodi. La seconda è che a partire dai primi anni del secolo scorso, l’AO ha avuto dapprima un trend mediamente negativo, poi mediamente positivo e poi ancora mediamente negativo.
Queste fasi hanno segnato in modo significativo l’andamento dell’estensione del ghiaccio marino artico già in tempi in cui decisamente non si poteva parlare di impatto significativo delle attività umane sulle dinamiche del clima. Sono infatti reperibili facilmente degli articoli che parlano di declino dell’estensione dei ghiacci intorno agli anni ’30 del secolo scorso – anni inoltre segnati da aumento delle temperature medie superficiali paragonabile a quello delle ultime decadi – seguito poi da un deciso aumento dell’estensione culminato con l’inversione del segno dell’AO dalla metà degli anni ’70 agli anni ’90, quando è poi iniziata la recente fase di declino culminata nel minimo storico dell’estate 2007. Da notare che quando l’AO ha smesso di scendere, cioè dai primi anni di questo secolo, preparando una presumibile nuova inversione del segno del trend, ha frenato drasticamente anche il declino del ghiaccio artico, che pure persiste su una estensione media fortemente negativa.
In pratica, come dice Spencer, potremmo aver iniziato a misurare con buona attendibilità l’estensione del ghiaccio esattamente all’inizio di una fase di declino in cui hanno senz’altro avuto un peso importante delle dinamiche atmosferiche di origine naturale (difficile definirle diversamente in quanto ricche di precedenti). Fino a che non sarà possibile valutare quale sia effettivamente il contributo di queste dinamiche, sarà anche impossibile decifrare il peso di eventuali forcing di origine antropica. Solo allora, e solo se questi dovessero come molti credono risultare preponderanti, sarà giusto portare l’estensione del ghiaccio marino ad esempio dell’evidenza delle origini antropiche dei cambiamenti climatici, diversamente da quel che accade ora, con annunci catastrofici che alla luce di questi fatti hanno un sapore puramente speculativo.
E’ appena uscito un articolo (abstract qui) dal titolo significativo “The Arctic warms from below” che mostra, tramite meccanismi come la “double diffusive convection and thermobaric instabilities”, come può avvenire il trasferimento del calore (geotermico) tra le acque profonde dell’oceano artico e quelle superficiali. Poca cosa – millesimi o centesimi di grado – che però certifica meccanismi diversi e complessi per trasferire calore nelle zone artiche (e non solo).