Il 10 giugno 2011 nel post “Il potere dei più buoni: dallo Slow-Food al far-food”, su CM si era scritto di Carlo Petrini, fondatore di “Slow Food” e promotore della manifestazione “Terra Madre”, che da campione del prodotto tipico sembrava invece fregarsene del “kmZero” tanto decantato dalla sua associazione e dalle altre grandi associazioni ecologiste. Il consiglio era infatti quello di acquistare le ottime le pere fuori stagione del Sud America.
Il 18 giugno 2011 Slow-food ha compiuto 25 anni festeggiando in 300 piazze italiane. All’evento, ha partecipato con un video anche Ascanio Celestini, regista, attore e per molti portatore del raffinato pensiero che un tempo si sarebbe detto ‘radical-chic’. Nel video si parla di cibo, volendo si può “gustarlo” qui; al suo interno Celestini sfodera alcune riflessioni sul cibo in generale e sulle mele in particolare, apparentemente profonde come le acque intorno alla costa dell’isola del Giglio per il Capitano Schettino, ma in realtà a mio parere più vuote delle attuali casse della Grecia.
Chi ha capacità di concentrazione può farsi un’idea scorrendo alcuni fotogrammi qui. “Quanto più allontano la produzione dal consumo tanto più il cibo smette di significare…Cioé non capisco nemmeno che non sto capendo”. La sostanza dell’intervento è la solita solfa sulla necessità di scegliere prodotti a “Km 0”: un video di Slow-Food che afferma il contrario dei “consigli” sulle pere del Sud America del 10 giugno dello stesso Presidente di Slow-Food.
Questo clima culturale in cui siamo stati immersi negli ultimi anni ci ha persuaso della necessità di “ricercare un significato” anche nei cibi, ormai non c’è più nessuno che dichiara di mangiare qualcosa perché gli piace o ancor peggio perché è a prezzi sostenibili per la famiglia. Ci hanno abituato a dover dare altre spiegazioni, altri significati. Mangiando non ci si deve nutrire piacevolmente, ci si deve curare, mantenere in perfetta forma, riequilibrare i radicali liberi, si deve salvare l’ambiente, contrastare le storture sociali del mondo, conoscere altre culture, combattere la speculazione, etc. Un consiglio. Se mentre mangiate dell’uva vi chiedono perché l’avete scelta non dite che vi piace, sareste guardati con sospetto. Rispondete inventando che fa bene agli occhi, che ha i radicali liberi o l’omega3, che è di un contadino che la produce solo biologicamente provvedendo alla concimazione in proprio, che voi stessi l’avete coltivata sul vostro balcone. In questo modo vi guadagnerete la stima, l’ammirazione e forse anche un po’ d’invidia dell’interlocutore.
Più recentemente, il 21 dicembre, Ascanio Celestini ha pubblicato sull’Espresso un articolo in cui ripropone le stesse idee criticando il fatto che in Trentino si vendano mele importate dal Cile invece di quelle “politically correct” a chilometro zero. Aggiunge che tale osservazione “Vuol dire che c’è un contadino sottopagato dall’altra parte del mondo che muore di fame”.
Premesso che il contadino dell’altra parte del mondo muore piuttosto di fame se le mele non le vende e che è una truffa far credere che sostenibilità del prodotto dal punto di vista delle emissioni di gas serra per produrlo sia lo stesso di “Km 0” (come ad esempio è ben spiegato in un apposito capitolo del libro “Pane e bugie” di Dario Bressanini), al Celestini risponde, con un articolo sull’inserto Lettura dell’8 gennaio 2011 (Supplemento domenicale del Corriere della Sera), l’agronomo Antonio Pascale, blogger giornalista e scrittore (allego immagine articolo).
“Trent’anni fa”, scrive Pascale, “lo scontro era tra le possibilità che il vasto mondo offriva e quello che invece proponeva la tua ristretta terra. A sinistra c’erano sentimenti di inquietudine e di curiosità, a destra sentimenti immobili e non contestabili quali mito e tradizioni locali. Un concetto come l’autarchia era nel bagaglio della destra; ora invece le idee di derivazione autarchica, come il chilometro zero, sono diffuse da movimenti di sinistra come Slow Food, da movimenti ecologisti e da associazioni agricole come la Col diretti…Il mondo è complicato e siamo in tanti; la sinistra deve essere all’altezza dei tempi, evitare slogan e lottare per l’efficienza energetica”.
E’ bello vedere che ci si confronta su queste questioni, è un segno di vita! Non so voi come la pensiate, ma scrivendo su questi temi e su alcune delle profonde elucubrazioni connesse sento “un dubbio che me rode, un problema che m’accora”: per Ascanio Celestini e Carlo Petrini le “fave con il pecorino” sono “slow-food” o “ fast-food”? Capirete, il prossimo primo maggio non vorrei comportarmi da eretico.
Vi segnalo questo articolo di William Tucker sugli aspetti snob e aristocratici dell’ambientalismo.
http://spectator.org/archives/2012/01/20/environmentalism-and-the-leisu
è mia profonda convinzione che l’ambientalismo sia la trasmissione al popolo del punto di vista aristocratico reazionario e conservatore, e quindi fortemente contro il progresso, e contro ogni attività produttiva.
Si vive di rendita, non c’è bisogno di fare qualcosa di produttivo, e il popolo è solo un peso, un ostacolo (questo è il LORO punto di vista, non il mio!), una massa di persone che consumano risorse, e quindi vanno eliminate (sempre secondo loro).
Ho detto molte volte che il punto fondamentalmente sbagliato di questa impostazione è il vedere le risorse, e il mondo in generale, in modo statico, senza rendersi conto che invece il mondo è dinamico, e così le sue risorse, come dimostra l’evoluzione della popolazione umana, dal milione di persone che questo pianeta poteva nutrire al massimo, prima della domesticazione di piante ed animali, a popolazioni sempre più numerose, man mano che le nuove tecnologie mettevano a disposizione più cibo e maggiori risorse. Infatti un aumento di popolazione, oltre quello consentito dalle tecnologie del momento, portava a grossi problemi, risolti di volta in volta con guerre, emigrazioni, primavere sacre, stragi degli innocenti e via dicendo, perché non c’era cibo per tutti. E quei tutti erano molti di meno di adesso.
http://it.wikipedia.org/wiki/Popolazione_mondiale
Naturalmente il loro punto di vista, per superficiale e mostruoso che sia, nasce dal non doversi confrontare colla fame, con la necessità di lavorare e produrre. Il cibo ? Quello più costoso va bene. Non c’è pane ? Via con le brioche ! E quindi fantasie come il km zero, il cibo biologico e così via….tutte cose adatte a chi non ha problemi di spendere di più, e non rischia di non arrivare alla fine del mese.
Pensateci bene, se non c’è bisogno di gestire al meglio i pochi soldi, se non c’è l’incubo che questi finiscano prima del mese, allora ha molto più senso il km zero, il cibo biologico e le energie rinnovabili, molto più care, sì, ma che importa a chi ha tanti soldi da buttare ?
Che poi, se ci pensate bene, se potessimo trascurare il fattore economico, tutto questo assume un suo fascino:
il cibo prodotto sotto casa (per chi ha orto e lavoranti – magari sottopagati -), come già voleva il fascismo (ricordate l’autarchia fascista ? Io non l’ho vissuta, ma so leggere).
Come non riconoscere un certo fascino al cibo biologico, all’autoproduzione di generi alimentari ed energia (le economie di scala cosa sono ? …e chi se ne frega, ci sono i soldi di papà…).
Decisamente l’ambientalismo con le sue fisime della salvezza del pianeta (che NON ha bisogno di essere “salvato”) si presenta come il sogno utopistico di ricchi e viziati figli di papà.
Tutto questo, naturalmente, è solo il mio personalissimo pensiero (e quello di Tucker) e non vi chiedo di condividerlo, ma più si va avanti e più mi sembra che questa mia opinione trovi ampie conferme.
Secondo me.
Lo stesso argomento del latte in polvere di cui parlava C. Costa, è stato affrontato qualche settimana fa da una trasmissione televisiva di cui, però, non ricordo il nome. In quella circostanza si parlava di latte in polvere prodotto in Germania che veniva importato in Italia in modo semi-clandestino. Il problema, però, è molto più vasto. Oggi alla radio (radio uno Rai, ore 12,40/13,00) si parlava di lavoro più o meno nero ed è stato fatto riferimento all’uso di questo tipo di manodopera in agricoltura. Un rappresentante dei produttori si giustificava dicendo che, pagando a norma di legge i suoi braccianti, non sarebbe riuscito neanche a recuperare il costo del prodotto in quanto dalla Spagna arrivano arance a prezzi stracciati: era conveniente lasciare il terreno incolto o sperare che qualche Ente pubblico lo espropriasse. In parole povere non conviene più coltivare la terra e raccogliere il prodotto in quanto non è commercializzabile (troppo costoso e, quindi, fuori mercato). Stesso discorso per il grano, altri cereali, i legumi e via cantando (durante le feste di fine anno comperai dei ceci abbrustoliti, rancidi al punto da essere immangiabili, made in Turchia). Il kmO, a meno di coltivare l’orto sotto casa, è una pia utopia. Allo stesso modo è un pannicello caldo il mercatino in cui il coltivatore vende direttamente al consumatore il proprio prodotto: si tratta di economie di nicchia che mai riusciranno a dare una svolta al settore agricolo in crisi da decenni.
Il problema è che chi acquista un prodotto pensa all’aspetto esterno ed al prezzo. Se io su uno scaffale metto da un lato una cassetta di arance belle lucide e di grossa pezzatura prodotte in Spagna a, poniamo, 1 euro al kg e dall’altro le stesse arance, prodotte in Italia, a 1,50 euro al kg, il consumatore medio acquisterà le arance spagnole fregandosene del km0. A parità di prezzo, interviene l’aspetto esterno. La grande (ed anche la piccola) distribuzione hanno capito tutto questo e per i nostri prodotti è calato il sipario. Per poter recuperare mercato dobbiamo ridurre i costi e questo, considerando le nostre realtà produttive estremamente frazionate e difficilmente meccanizzabili, è impossibile. Del resto come si fa a competere con realtà produttive in cui gli operai sono sottopagati e sfruttati, l’uso di pesticidi è libero, i controlli di qualità del prodotto e dei terreni su cui è coltivato sono praticamente assenti o, in alternativa, la meccanizzazione è quasi totale?
La soluzione? Magari ne avessi una!
Ciao, Donato.
… e magari i formaggi DOP e a KM zero sono venduti a prezzi nettamente superiori.
Mentre i pastori sardi sono costretti a svendere il loro latte. Povera gente (sia i pastori sia chi crede nella barzelletta del KM0).
E’ gente che si è fatta le ossa a suon di paradossi e incongruenze, come ha scritto Fabio Spina su LaBussolaQuotidiana del 27 ottobre 2011 (http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-la-borsa-dellambienteparadosso-ecologista-3457.htm).
Poi vi devo raccontare del mistero del latte italiano.
dovete sapere che negli ultimi 10 anni (dal pasticcio quote latte) in Italia la produzione di latte e l’importazione di latte è stabile….ma i consumi e la produzione di formaggi sono aumentati dal 15%.
Va che è un mistero! da dove si è autogenerato il latte per fare più formaggi?
La spiegazione può stare solo nel latte italiano in nero, o nel latte ricostituito in polvere sempre in nero. I grandi porduttori di latte in polvere sono Nuova zelanda e Canada, e i caseifici comprano tanti qli di sali ……….e il latte in polvere è molto simile a dei sali.
Ovviamente i formaggi fatti in Italia ( anche se nessuno sa con che latte) poi sono venduti come dop e magari a km zero.
Il km zero è una barzelletta per quanto riguarda l’Italia che importa più del 60% del proprio fabbisogno di prodotti agricoli (che non sono solo cibo) perchè a parte i cibi liquidi (acqua birra vino latte) e quelli cmq molto ricchi di acqua (ortofrutta ma solo se di stagione) il km zero di un prodotto non fa altro che spostare le emissioni su altro prodotto ( ad es mettiamo che la Lombarida decidesse di produrre pollo e latte a km per tutti i lombardi, tutta la terra agricola sarebbe destinata alla produzione di pollo e di latte: bene i lombardi avrebbero il pollo e il latte a km zero ma il maiale a km 10000 il manzo a km 10000 la polenta a km 10000 la pasta a km 10000 ecc ecc perchè dovrebbero importare dal sudamerica cmq il resto.
addirittura importare carne dal sudamerica equivale a emettere meno GHG rispetto alla produzione di carne italiana ma con cereali sudamericani (visto che in Italia non copriamo manco il 30% del fabbisogno teorico totale di cerali e proteici) perchè anzichè 10 navi di cereali si sposterebbe solo una nave di carne.