Per omeostasi si intende la capacità dei sistemi biologici e ambientali di resistere al cambiamento e di mantenersi in una condizione di equilibrio. L’omeostasi è frutto delle capacità di autoregolazione che caratterizzano gli ecosistemi al pari degli organismi e delle popolazioni che li compongono (qui).
Prendendo come esempio le chiome degli alberi di un bosco, al loro interno – cioè nel cosiddetto canopy layer – tutta una serie di caratteristiche (es. temperatura, umidità, velocità del vento, ecc.) risultano smorzate rispetto all’atmosfera esterna. Questo si rivela essenziale perché le piante possano evitare un eccesso di traspirazione o possano con facilità acquisire la CO2 che viene emessa dal terreno e che per le piante stesse è l’alimento primario.
Ma fin dove si spinge la capacità della piante di garantire l’omeostasi dell’ecosistema? Parlare di effetto stabilizzante delle piante nel canopy layer oppure nello strato di suolo esplorato dalle radici è un fatto da tempo acquisito per la comunità scientifica. Più difficile è quantificare gli effetti delle piante sulla libera atmosfera e sul clima globale. Anche da questo punto di vista sono da tempo note alcune azioni primarie delle piante sul clima fra cui ad esempio:
- La cessione all’atmosfera di vapore acqueo, che oltre a essere di gran lunga il principale gas serra è anche il principale vettore energetico dell’atmosfera. Da tale punto di vista si può ricordare che le piante si inseriscono in un “anello mancate” del ciclo dell’acqua in quanto senza la loro azione lo strato sotto-superficiale del terreno manterrebbe al proprio interno l’acqua indefinitamente.
- L’azione sull’albedo (esempio: alle alte latitudini l’albedo invernale è molto maggiore sulle distese di neve che coprono la tundra che sulle distese di neve sovrastate da foreste di conifere e inoltre l’albedo di un deserto è assai maggiore di quello di una prateria).
Meno noto perché assai più difficile da indagare è il ruolo climatico che le piante svolgono rilasciando in atmosfera svariate sostanze chimiche. Da questo punto di vista una novità è costituita dagli studi sui Criegee, biradicali in grado ad esempio di stimolare l’ossidazione dei solfati favorendo i processi di nucleazione. Anche se l’esistenza di tali sostanze era stata ipotizzata nel 1950 da Rudolf Criegee non era stato fin qui possibile studiarle direttamente in laboratorio. Oggi invece il comportamento di tali sostanze è stato finalmente indagato da una equipe di ricerca delle Università di Bristol e Manchester e dei Sandia National Laboratories che ha pubblicato il proprio lavoro su Science.
In tale ricerca la rilevazione dei Criegee e la misurazione di quanto velocemente reagiscano è stata possibile grazie ad un apparato di misura innovativo, progettato dai ricercatori Sandia, che utilizza la luce del sincrotrone di terza generazione del Lawrence Berkeley National Laboratory. L’intensa luce sintonizzabile dal sincrotrone ha in particolare permesso ai ricercatori di discernere la formazione e la rimozione di diverse specie isomeriche, molecole cioè che contengono gli stessi atomi ma disposti in diverse combinazioni.
Le ragioni dell’importanza di tale studio risiedono nel fatto che i Criegee sono potenti ossidanti in grado di agire su sostanze inquinanti prodotte per combustione come il biossido di azoto (NO2) e l’anidride solforosa (SO2), accelerando la formazione in atmosfera di solfati e nitrati che danno luogo ad aerosol, per esempio importanti per la genesi dei corpi nuvolosi. Ciò fa si che i risultati conseguiti siano suscettibili di impatti rilevanti sulla nostra comprensione della capacità ossidante dell’atmosfera con implicazioni di ampia portata per l’inquinamento ed i cambiamenti climatici.
Più in particolare secondo i ricercatori che hanno svolto il lavoro in questione non è da escludere che successive ricerche pongano in luce il ruolo di stabilizzatori del clima di queste sostanze, e ciò anche in virtù del fatto che lo studio condotto ha posto in luce che la rapidità d’azione dei Criegee su SO2 e NO2 è superiore ad ogni attesa, il che dovrebbe indurre a modifiche nei modelli che descrivono la chimica atmosferica di solfati e nitrati. A tale riguardo si deve osservare che un importante ingrediente per la produzione dei Criegee è costituito da sostanze chimiche emesse naturalmente dalle piante, per cui in tal modo gli ecosistemi naturali potrebbero svolgere un ruolo importante in termini climatici favorendo la genesi di sostanze nucleanti.
Si noti che il presente studio si colloca nello stesso filone (quello della chimica degli aerosol atmosferici) cui fa riferimento il progetto Cloud condotto al CERN di Ginevra (anche in quel caso con l’ausilio di un acceleratore di particelle) e di cui abbiamo già parlato su CM.
Concludo osservando che il passaggio da un lavoro di taglio strettamente chimico come quello presentato nell’articolo su Science ad una stima quantitativa dei reali effetti climatici dei Criegee richiederà a mio giudizio ancora molto ma molto lavoro di ricerca. Se tuttavia il peso climatico dei Criegee (sostanze che qualcuno ha già ribattezzato “particella fredda”) venisse confermato, si potrebbe iniziare a guardare sotto una nuova luce l’incremento della biomassa vegetale terrestre globale che negli ultimi anni viene segnalato dai satelliti e che secondo recenti stime dell’università del Montana (University of Montana Numerical Terradynamic Simulations Group NTSG) ammonterebbe ad un +6% circa nel periodo che va dal 1982 al 1999. Fin d’ora si deve tuttavia costatare che questa nuova vegetazione emette moltissima acqua – il più terribile fra i gas serra – in atmosfera. Cominciate a tremare!
NB: Per approfondimenti
- http://wattsupwiththat.com/2012/01/13/the-cool-particle/
- http://www.sciencedaily.com/releases/2012/01/120113093631.htm
Credo di averlo già detto altre volte, ma non mi dispiace ribadirlo, che per approcciare un sistema complesso è necessario semplificarlo in qualche maniera, ma questo introduce ovviamente e necessariamente delle distorsioni.
Le semplificazioni devono essere tali da rendere il problema “trattabile” coi mezzi che si hanno a disposizione, ma una eccessiva semplificazione può introdurre una distorsione tale da rendere inutile lo studio, o addirittura, portare a conclusioni diverse o magari opposte a quelle vere.
Quanto si deve semplificare, allora ?
Da quanto detto, si può semplificare finché i risultati non si discostino eccessivamente da quelli veri.
Facile a dirsi, ma come si fa a controllare che i risultati non si siano distaccati troppo dal comportamento reale del sistema ? Non è nello scopo di questo mio post discutere questo aspetto. Mi basta aver accennato che esista.
Applichiamo questo discorso al caso dei cambiamenti climatici.
Potremmo creare dei modelli introducendo una serie di parametri importanti, e trascurandone altri non significativi.
Per esempio, potremmo trascurare i raggi cosmici, considerare costanti altri parametri, non considerare altri, o perché il loro contributo è piccolo, o perché in realtà non conosciamo bene il loro comportamento, o perché non li conosciamo e basta.
Che questo sia vero, ce lo conferma Kevin Trenberth in persona:
Kevin Trenberth, head of the Climate Analysis Section of the National Center for Atmospheric Research in Boulder, Colorado (USA), wrote that one of the major objectives of upcoming climate modeling efforts will be to develop “new and better representations of important climate processes and their feedbacks.” The new work, Trenberth wrote, should increase “our understanding of factors we previously did not account for … or even recognize.”
fonte:
http://www.nipccreport.org/reports/2011/pdf/01ClimateModels.pdf
Espressioni (ed ammissioni) come “we previously did not account for … or even recognize.” parlano da sole.
Ma mano che la scienza va avanti, e i computer diventano più potenti, potremmo migliorare questi modelli, e permetterci di considerare anche l’effetto di quel che prima avevamo trascurato, o che perfino non avevamo riconosciuto.
Tutto bene, mi sembra, in questo discorso.
Ma questi parametri interferiscono tra di loro, o no ?
Detto in altri termini, potremmo prevedere come verrà una pietanza, prendendo in esame un ingrediente alla volta ? Ma il gusto finale non è forse una sintesi ben dosata di molti elementi ?
Lo stesso ingrediente può avere effetti diversi a seconda delle sue quantità, in rapporto alle quantità degli altri. Per esempio, non potrei assolutamente valutare il sale da solo, ma devo farlo in relazione agli altri ingredienti. Solo in rapporto ad essi avremo le sensazioni di insipido, saporito o salato.
Ogni ingrediente climatico non agisce da solo, ma in armonia con tutti gli altri. Una nuvola non fa più caldo o più freddo in assoluto, ma la sua azione dipende da vari parametri (per esempio la sua altezza). Questo mi porta a dire che una certa nuvola può avere un effetto raffreddante, ed un’altra può averne uno riscaldante.
Tutto questo mi fa pensare che ogni scoperta sia importante, come questa particella “fredda” e qualsiasi altro ingrediente del clima. E’ importante in sé, ma è anche importante in collegamento con gli altri fattori che contribuiscono al clima, perché nessun fattore agisce come se gli altri non esistessero. Trascurarne qualcuno può quindi portare probabilmente a distorsioni inaccettabili della verità.
Questo non vuol dire che non si debba proseguire nello studio dei modelli. Ma non bisogna nemmeno prendere per oro colato gli scenari (non “previsioni”, “scenari” !) che ci vengono proposti.
Aver “riconosciuto” un altro attore che può avere effetti sul clima è importante per una modellazione più vicina alla realtà. Quale sia il suo reale contributo, è questione che sarà oggetto dei prossimi sviluppi di ricerca.
Secondo me.
La CO2, il vapore acqueo, gli ossidi di azoto modificano il bilancio radiativo della Terra. Le maggiori percentuali di questi gas favoriscono un aumento di temperatura e, contemporaneamente, un aumento della biomassa che, alla fine, produce più “particelle fredde” (il nome mi piace). Queste ultime, favorendo la formazione di solfati e nitrati, tendono a ridurre le temperature globali. Questo schema di meccanismo termoregolatore è estremamente interessante. La natura non finirà mai di stupirci!
Ciao, Donato.