Alcuni anni fa ho letto il capolavoro di Jared Diamond ‘Armi Acciaio e Malattie’. Quel che mi aveva portato ad interessarmi a quel libro, oltre che una generica curiosità per un trattato di storia dell’evoluzione della razza umana, era il ruolo che pur brevemente l’autore assegnava, nell’ambito delle dinamiche dell’evoluzione, alle caratteristiche geografiche e quindi climatiche delle zone del mondo che hanno cullato i primi passi della nostra specie in quella che si potrebbe definire non senza una generose dose di approssimazione l’era moderna.
Quella di Diamond era, in un contesto che ha reso unico e imprescindibile il suo lavoro, una forma prudente di determinismo climatico. Il clima al pari di molti altri fattori, non ultimi quelli propri della specie cui apparteniamo. Il clima come elemento facilitante di questa o quella piega che potevano prendere le cose.
Questo approccio, molto in voga in passato, è stato recentemente sostituito da una nuova forma di determinismo che Mike Hulme, autore di uno scritto molto interessante di fresca pubblicazione, definisce in modo provocatorio ‘riduzionismo climatico’. Una nuova visione che assegna al clima il ruolo di protagonista assoluto, di driver incontrastato del nostro futuro, prescindendo completamente dal contributo che la nostra capacità, il nostro modo di essere e di essere sempre stati potrebbero dare all’evoluzione della società.
Ridurre il futuro al clima: Una storia di determinismo e riduzionismo climatico.
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Abstract
Cento anni fa, una popolare teoria sosteneva che i vari aspetti del clima abbiano determinato la fisiologia e la psicologia degli individui, e che a loro volta essi abbiano definito il comportamento e la cultura della società alla cui formazione partecipano. Con la riforma del mondo politico e morale operata dalle guerre ideologiche del ventesimo secolo, il determinismo ambientale è stato screditato ed emarginato all’interno del pensiero accademico tradizionale. Sicché, all’inizio di un nuovo secolo la cui ansia sui cambiamenti climatici è in crescita, l’idea che il clima sia in grado di determinare il destino delle persone e della società è riemerso sotto forma di ‘riduzionismo climatico’. Questo documento traccia come il clima si sia spostato da un ruolo deterministico ad uno riduzionistico nei discorsi sull’ambiente, la società e il futuro. Il determinismo climatico aveva già offerto una spiegazione, e quindi una giustificazione, per la superiorità e il dominio di alcune razze e culture. La tesi sostenuta è che il nuovo riduzionismo climatico sia guidato dall’egemonia esercitata dalle scienze naturali predittive sugli aspetti contingenti, fantasiosi e umanistici della vita sociale e delle visioni del futuro. Si tratta di una egemonia che conferisce un potere sproporzionato nell’ambito politico e sociale a descrizioni modellistiche di un ipotetico futuro climatico. Si suggeriscono alcune possibili cause per questo riduzionismo climatico, così come alcuni dei limiti e pericoli di questa posizione per il rapporto dell’uomo con il futuro.
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Sicché, a facilitare l’insorgere di questo nuovo approccio, che a detta di Hulme presenta notevoli limitazioni, sarebbe, nel contesto degli anni recenti che vedono crescere l’ansia per paventate mutazioni climatiche disastrose, l’egemonia delle scienze predittive rispetto a quelle sociali e umanistiche. In sostanza, come si legge nel suo lavoro, grazie al supporto delle simulazioni, “il clima diviene l’unica variabile ‘nota’ in un futuro altrimenti sconosciuto“.
L’articolo ha molti spunti interessanti. Tra tutti forse spicca il neologismo ‘discrepanza epistemiologica’, che Hulme identifica con il trasferimento dell’autorevolezza predittiva da un settore dello scibile ad un altro, senza che per questo sussista un adeguato supporto analitico, con le “simulazioni del futuro climatico derivate dai modelli che vengono inappropriatamente elevate al ruolo di predittori universali delle performances della società e del destino dell’uomo“.
Il processo storico che avrebbe visto l’insorgere di questa forma di riduzionismo climatico avrebbe avuto tre elementi facilitanti sostanziali:
- Il ritiro delle scienze sociali, la geografia in particolare, dal loro ruolo di interfaccia tra la Natura e la cultura;
- L’insorgere di una nuova comunità epistemologica, i modellisti climatici;
- L’asimmetrica assimilazione dei cambiamenti climatici e dei cambiamenti sociali nel futuro immaginato.
Al di là del notevole interesse che una discussione su questi argomenti ha la potenzialità di suscitare, direi che forse manca una premessa sostanziale. La climatologia, intesa cone studio delle dinamiche del sistema nello spazio e nel tempo (passato e presente), è certamente una scienza. La sua componente predittiva, riferita quindi al futuro e sostanzialmente fondata su modelli che devono ancora provare di essere attendibili, le cui fondamenta sono costituite dal ruolo che si assume a priori possa avere la CO2. Quest’ultima dipende da altri innumerevoli fattori anch’essi altamente impredicibili oltre che scarsamente noti. In un contesto quale quello descritto un’egemonia non è solo riduzionistica, è usurpata, oltre che potenzialmente pericolosa.
Vi rimando quindi al personale approfondimento dell’argomento e, perché no, ad una discussione su queste pagine, così come sta accadendo su numerosi altri ambienti di discussione del settore (qui da Judith Curry per esempio).
Scusate se rischio di annoiarVi ma, a mio avviso, limitare la questione climatica alla CO2 o al più ai GCR, non è un approccio riduzionista, è solamente riduttivo. Come ho già sostenuto in passato, il riduzionismo in epistemologia tende ridurre al “minimo sufficiente” gli enti in gioco cioè a non aumentare “inutilmente” le variabili, secondo l’insegnamento di Occam, quello del rasoio. E’ ormai abbastanza chiaro che da sola la CO2 non è in grado di spiegare il clima con ragionevole approssimazione, non raggiunge il “minimo sufficiente”. In tal caso un sano riduzionismo dovrebbe allargarsi e prendere in considerazione nuovi argomenti. Non farlo è riduttivo e dettato da interessi di diversa natura.
Reply
Maurizio, forse è quello che pensa anche Hulme, ma non lo può o vuole dire.
gg
Non ho letto “Armi, acciaio e malattie”, ma ricordo che, a suo tempo, lessi una bella recensione del libro su “Le Scienze”. Allo scopo di rinfrescarmi la memoria ho letto anche il breve sunto al link indicato nel post. Concordo con G. Guidi circa l’ampio spettro di fattori che Diamond individua quali cause determinanti lo sviluppo della “civiltà”. Alla luce di questa premessa appare in tutta la sua fragilità l’approccio
“riduzionista” allo studio della nostra storia e, soprattutto, del nostro futuro.
Ho da poco completato la lettura di un numero monografico di “Le Scienze” che si occupa di città (Le Scienze, novembre 2011). Buona parte degli articoli pubblicati analizzano gli scenari dello sviluppo delle città del fututo partendo, in buona sostanza, da un unico punto di vista: l’impronta ecologica dell’uomo. Tale impronta ecologica, inoltre, viene misurata in modo prevalente sulla base delle emissioni di CO2 e di altri gas ad effetto serra (metano, ossidi nitrosi e via cantando). I vari autori analizzano in modo approfondito le varie problematiche connesse allo sviluppo delle città e ne individuano l’importanza dal punto di vista socio-economico. Concordemente con quanto afferma Diamond nella sua opera, essi vedono nella città il luogo in cui lo scambio di opinioni, la socializzazione, la collaborazione reciproca, consentono di ottenere risultati che le piccole comunità mai potrebbero raggiungere. A questi vantaggi, difficili da contestare, però, ne aggiungono altri su cui potrebbe anche discutersi. Le città, secondo il parere concorde di quasi tutti gli articoli, hanno un impatto ambientale sicuramente minore delle comunità rurali. Apparentemente sembra di trovarsi di fronte alla figura retorica dell’antitesi. La campagna, nel sentire comune, rappresenta un luogo più a misura d’uomo, da un punto di vista ambientale, della periferia inquinata e degradata di una qualunque grossa metropoli (non parliamo delle favelas o delle bidonvilles)! Tutto si spiega, però, se noi riduciamo il problema al calcolo dell’emissione di CO2 di un abitante di un centro rurale rispetto a quello di una città. Chi abita in città può raggiungere il luogo di lavoro a piedi, in bici o con mezzi pubblici per cui il suo impatto ambientale risulta meno forte di chi, per recarsi al lavoro, deve utilizzare l’auto (non parliamo dei SUV a trazione integrale, ovviamente 🙂 ). Non parliamo poi di chi alleva animali (mucche, in particolare) in campagna: la sua impronta ecologica è enorme. Alla fine della lettura dei vari articoli credo di aver capito che il “green man” del futuro deve abitare in un grattacielo, vicino ad un altro grattacielo in cui si trova il suo luogo di lavoro o vicino ad una fermata della metro (da utilizzare per raggiungere il luogo di lavoro), deve muoversi a piedi o con car sharing non inquinanti (elettriche, preferibilmente) per poter fare la spesa o per recarsi in luoghi deputati alla socializzazione. Il cibo deve essere prodotto non più in campagna, ma in città all’interno di fattorie verticali (grattacieli adibiti a serre); l’energia deve essere prodotta in loco da fonte rinnovabile (solare, ovviamente); l’acqua per irrigare prati e giardini deve essere derivata dalla fognatura pubblica previa depurazione. Il raffrescamento degli edifici deve essere garantito da enormi vasche di acqua congelata nelle ore notturne (con energia a buon mercato) e utilizzate nelle ore diurne per rinfrescare l’aria. Altre cose importanti: tutti i tetti dovranno essere bianchi per riflettere la luce del sole; le facciate coperte da “pellicole fotovoltaiche”; le città dovranno svilupparsi in altezza (per ridurre l’occupazione della terra); ecc., ecc., ecc.. Da questo punto di vista, secondo alcuni degli articolisti le città riusciranno molto più degli Stati a ridurre le emissione di gas climalteranti e, quindi, la loro azione sarà molto efficace per rcontrastare il cambiamento climatico.
Ecco, credo di aver dato un’idea di quello a cui può portare un approccio riduzionistico ad un problema importante come il progetto degli ambienti in cui dovremo vivere nel futuro.
Avvertenza finale: per poter contenere il commento in spazi accettabili anche il sottoscritto ha adottato un approccio “riduzionista” 🙂 .
Ciao, Donato.
Penso che il riduzionismo in climatologia si sia ormai da tempo affermato con conseguenze negative enormi in termini di capacità di analisi della realtà.
“Legge” chiave del riduzionismo in climatologia è quella per cui “tanta CO2 tanta temperatura”. In virtù di tale “legge” troviamo ad esempio lavori di paleoclimatologia in cui viene utilizzata un’equazione lineare che a partire dai livelli passati di CO2 atmosferica ricostruisce le temperature del pianeta dalla creazione ad oggi, trascurando il ruolo delle nubi, del vapore acqueo, ecc.
Un tale approccio rappresenta una scorciatoia che consente a chi ne fa uso di pubblicare e di far carriera nel settore ignorando concetti chiave quali le logiche di scala sottese ai fenomeni atmosferici, le strutture circolatorie atmosferiche (a partire dalla circolazione generale e giù giù fino alle strutture di brezza), il rapporto delle temperature di superficie con le componenti del bilancio radiativo ed energetico, ecc. (tutte cose complicate da capire ma che fanno la bellezza della nostra materia).
Che dire: stiamo creando tanti posti di lavoro, il che sarà anche una gran cosa… e tuttavia la cultura resta un’altra cosa, nel senso che l’approccio riduzionistico ad un sistema complesso come quello climatico è una vera barbarie.
Luigi