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Durban: affrontare la sfida o ritrattare?

Come avrete notato il layout di Climatemonitor è cambiato e rimarrà tale per i prossimi giorni, per consentire una analisi approfondita della conferenza di Durban. Rimaniamo a disposizione per qualsiasi segnalazione di documenti, audio e video per arricchire questa pagina. Sulla fascia sinistra troverete i consueti articoli a programmazione quotidiana, mentre nella fascia centrale e di sinistra scorreranno gli articoli e i tweet da Durban. In fondo alla pagina, poi, troverete una sezione di approfondimento con documenti multimediali.

Come anticipato, oggi è iniziata la conferenza di Durban, la cosiddetta Conference of Parties numero 17. La COP17 è stata preceduta dalla conferenza di Cancun e da quella di Copenhagen, giusto per citare le ultime due ancora vive nella nostra mente. Sembra retorico sottolinearlo, ma ci troviamo di fronte ad un panorama piuttosto diverso, rispetto alle precedenti due edizioni. Gli spunti sono molteplici, ne riassumiamo qui alcuni. Innanzitutto la crisi finanziaria, contrariamente a quanto previsto, invece di allentare la propria morsa ha ricominciato a mordere in modo molto severo le economie di tutto il mondo, specialmente quelle occidentali. Inutile ripercorrere gli eventi legati alla crisi dei debiti sovrani, in quanto ci siamo tutti ancora dentro fino al collo. La sintesi estrema è che i soldi sono finiti. E ormai se ne sono accorti tutti i governi, chi prima e chi dopo. I capitoli di spesa vengono ridimensionati o eliminati del tutto e, che piaccia o meno, la green economy è tra questi capitoli di spesa (in quanto settore pesantemente sussidiato). Per green economy intendiamo sia la (mancata) creazione dei milioni di posti di lavoro verdi, sia tutto il comparto delle energie alternative. Per quanto tutti facciamo il tifo per fonti di energia pulita e rinnovabile, nell’ultimo anno è cresciuto notevolmente il disincanto verso le fonti eoliche e solari fotovoltaiche. I perchè li trovate su CM, dove il dibattito è quotidiano. Al tema appena citato, si affianca quello dei cambiamenti climatici. Tralasciamo per oggi il caso del Climategate 2.0, in quanto ormai ciò che accade a certi livelli è proprio il segreto di Pulcinella. Anche sul fronte dei cambiamenti climatici è cambiato qualcosa nell’ultimo anno e soprattutto negli ultimi mesi. Tra sensibilità del clima terrestre che vengono riviste al ribasso, ricostruzioni più o meno dubbie, sta emergendo un atteggiamento singolare: chi fino a ieri ha urlato al mondo intero il messaggio “Moriremo bruciati” sta iniziando a fare una serie di distinguo che esprimono la mal celata volontà di mettere le mani avanti. “Forse non farà proprio così caldo da bruciare vivi”, “Forse non farà nemmeno caldo come pensavamo che avrebbe dovuto fare”. O forse non ne capiamo ancora a sufficienza e ci siamo affidati troppo a modelli matematici che da più parti vengono messi in discussione. Strumenti raffinati, evoluti, utilissimi, ma mai la rappresentazione corretta (nemmeno lontanamente) della realtà.

Ma allora a cosa serve Durban? Da un lato sicuramente a mantenere viva una certa autoreferenzialità. Dall’altro lato, si spera, ad affrontare qualche problema concreto, che non è il (finto) affondamento delle Maldive, ma le reali e concrete carestie occorse nel Corno d’Africa, ad esempio. Non è retorica, lasciatemelo dire, perchè su questi temi, alla fin fine, non ci importa quali siano le cause individuate (global warming antropico o la natura arcigna), a noi interessano le soluzioni.  Mentre la gente muore di fame, i raffinati occidentali si imbarcano in spese ultra miliardarie per costruire pannelli solari. Mentre la gente muore di fame, gli chiccosi occidentali convertono terreni agricoli per la produzione del biofuel. Ecco la soddisfazione: contribuire a emettere lo 0.00001% in meno di CO2, ma sapere che milioni di persone muoiono di fame.

Ecco a cosa deve servire Durban, a riportare l’ago della bilancia della equità sociale e ambientale al centro, o magari un po’ più spostata verso i paesi del terzo mondo. E giusto per essere chiari, l’equità sociale e un mondo sostenibile non transita dalla decrescita e dalla denatalità.

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Published inAttualità

3 Comments

  1. Guido Botteri

    e’ proprio vero che non tutti i mali vengono (solo) per nuocere, ovvero, come dicono i taoisti, in ogni male ci sono lati buoni, ed in ogni bene ci sono lati non buoni.
    Si sa che il troppo benessere rende la gente molle e stupida (lo diceva già Giulio Cesare nel primo capitolo del de bello gallico). Per svegliare l’intelligenza e la dignità serve patire qualche sofferenza.
    Ed ecco che un occidente troppo ricco tenta di suicidarsi attraverso l’ambientalismo, che di per sé, per qualche aspetto, avrebbe anche qualche messaggio buono (serve ricordarlo, ora che è gravemente ammalato….), ma anche i sentimenti migliori, quando finiscono in mano all’ideologia e alla politica finiscono per diventare dei mali.
    Bentornata Scienza !
    Per questo saluto con piacere il ravvedimento di qualcuno, i distinguo, le ammissioni, ora, finalmente dicono quel che gli scettici hanno detto da anni…era ora !
    Questa crisi, che è un grande male (non dimentichiamolo) porta con sé (spero) anche il bene della concretezza. Basta con le utopie e con i principi di precauzione. Sostituiamoli con il rispetto della realtà, con l’attenzione non pregiudiziale di quel che essa ci racconta, e con una giusta prudenza, che non sia però di impedimento al progresso, senza il quale da questa crisi non si esce.
    Purtroppo non sarà indolore, e qualcuno avrà da meditare su cosa sia VERAMENTE la decrescita e se essa possa mai essere “felice”. Credo che la montagna di dolore, fame, disoccupazione, stenti e sofferenze che essa si porta appresso convinceranno più di qualcuno di cosa sia davvero la decrescita e che essa non potrà mai essere che tragica e miseranda.
    Non so cosa farà il clima, ma continuo ad essere convinto che esso sarà più caldo o più freddo per ragioni sue, principalmente. Forse qualcuno vorrà vederci, se il caso gli sarà favorevole, la conferma delle sue ipotesi (o magari esse saranno chiaramente sbugiardate)…ma anche Calcante poté mostrare agli Achei che avere assassin…cioè “sacrificato” l’innocente Ifigenia, avrebbe portato il risultato auspicato, una traversata serena per la flotta achea. Ora sappiamo che fu solo un caso. Quegli dèi (e questa ipotesi) erano fasulli, e prima o poi una realtà che è casuale (o è mossa da principi che non conosciamo talmente a fondo da prevederne ogni conseguenza) cozza con la realtà, e il re (cioè l’ipotesi) resta nudo.
    Si tratta solo di aspettare, e per questo non ho fretta.
    Altri hanno fretta, e a fronte di allarmi che non si dimostrano poi così minacciosi credono di poter arrampicarsi sugli specchi con frasi come “è peggio di quel che temevamo”…ma fino a quando ?

    • donato

      Guido, concordo pienamente con te. Oggi leggevo un bell’articolo di antropologia che trattava di longevità (Rachel Caspari – L’evoluzione dei nonni – “Le Scienze” di ottobre). A prima vista sembra che con il clima l’antropologia non abbia alcuna attinenza, ma non è così. L’autrice illustra i risultati di diversi studi che dimostrano come la longevità, più che un fatto genetico, è stato un fatto ambientale e culturale. Ad essere più precisi le pressioni ambientali e culturali hanno favorito la selezione del tratto genetico che determina la longevità. Analizzando le dentature di centinaia di fossili, lei ed i suoi colleghi, hanno potuto accertare che la percentuale dei “nonni” cioè delle persone che arrivavano a vedere i propri nipoti e che, quindi, vivevano più a lungo, è aumentata in modo piuttosto lento passando dagli australopiteci ai neanderthaliani. Con l’avvento di homo sapiens, però, è esplosa fino ad arrivare alle percentuali attuali in cui l’ottanta per cento di noi giunge a vedere i propri nipoti. Due parametri hanno guidato questa evoluzione: le condizioni climatiche e quelle culturali. L’aumento della durata della vita ha coinciso con il marcato miglioramento delle condizioni in cui gli uomini hanno vissuto: maggior benessere, più longevità; più longevità maggior benessere e così via, in un circolo virtuoso, che ci ha portato fino ai nostri giorni. Guarda caso questo è accaduto dopo che le condizioni climatiche sono migliorate (aumento delle temperature dopo la fine dell’ultima era glaciale) e dopo che l’incremento della popolazione mondiale è stato tale da favorire una maggior probabilità di diffusione dei caratteri favorevoli alla vita più lunga. Nella fredda Europa abitata dai neanderthaliani, infatti, la vita dei nostri antenati preistorici, era breve, dura e brutale. I loro cugini che occupavano l’asia occidentale, più temperata,invece, godevano di migliori condizioni di vita e vivevano più a lungo.
      L’articolo, in ultima analisi, conferma ciò che si va dicendo da anni su queste pagine: migliori condizioni di vita determinano maggiore progresso economicoe sociale; maggior progresso economico e sociale determina un miglioramento delle condizioni di vita e consente alla specie umana di prosperare. La storia della nostra specie potrebbe insegnarci molte cose. Non tutti, però, lo capiscono e, ahinoi, sognano un “felice ritorno” alle condizioni di vita ancestrali o molto simili ad esse.
      Ciao, Donato.

  2. D’accordo su tutto. Ci stiamo focalizzando su 0.3 0.4°C di anomalia termica e non pensiamo a quella strana anomalia che affligge il mondo da decenni: milioni di persone tra cui molti bambini muoiono di fame senza che nessun governo occidentale alzi un dito. Probabilmente un dito lo alzano ma per fare questi convegni che ogni volta finiscono in un nulla di fatto.
    La climatologia deve essere una scienza a servizio dell’uomo e a migliorare la sua qualità di vita e non a distruggerla con interventi scellerati per via di macabre profezie.

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