La burocrazia internazionale, le multinazionali dell’ambiente, l’industria e il mercato. Nel processo negoziale manca una sola componente. Indovinate quale.
Tom Jacob, che si occupa per la DuPont di ‘science-based business interests’ scrive ai vertici dell’UNFCCC, della IEA, della World Bank, al capo della Climated Research Unit etc etc. (mail 340.txt – Nota bene, siamo nel 2000, l’indirizzo dell’attuale presidente dell’IPCC, Pachauri, è quello presso la Teri, multinazionale di cui è tutt’ora consulente).
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A Le Hague abbiamo visto per la prima volta una distruzione organizzata della conduzione dei negoziati e del pubblico confronto. Mentre l’attivismo ambientale organizzato e profondamente coinvolto è stato a lungo una parte importante del processo dell’UNFCCC attraverso gruppi maggiori come NRDC, EDF/ED, WWF e Greenpeace, hanno operato dentro la struttura partecipando al processo di definizione delle policy insieme all’industria. […]
A Le Hague, questo ruolo ‘interno’ si sono aggiunti centinaia di giovani e relativamente ingenui dimostranti portati lì specificatamente per dare energia alla presenza ambientalista e contrastare il processo. Anche alcuni tra i più solidi partecipanti – benché sconfessando l’occupazione della sala dei negoziati – hanno ritenuto di presentare pubblicamente al Ministro Pronk e al segretariato dell’UNFCCC un trattato di “Seattle” coperto se il processo fosse fallito.
Nel contesto di questa rinascita del ‘fondamentalismo ambientalista’ questo risulta interessante anche per contrastare le dinamiche di do ut des tra gli Stati Uniti e l’Europa a Le Hague.
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Insomma, si lamenta un rallentamento del processo negoziale, con dei rischi:
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“[…] il risultato di tutto ciò è un ancor più grande punto interrogativo sul Protocollo di Kyoto, i suoi target/scadenze aggressive (e di rapido avvicinamento) e il suo innovativo approccio per stimolare il potere del mercato […]
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Indovinato? No? Vabbè, ve lo dico, mancano quelli che pagano.
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