Questa volta il gioco di parole nel titolo è un po’ ostico e non so nemmeno se si possa definire attinente. E’ però quello che mi è venuto in mente leggendo una delle mille notizie che tra navigazione web, mail e lettura dei giornali ci tempestano ogni giorno.
Sulla Terra abbiamo un problema di spazio. Sembra incredibile anche solo pensarci sapendo che le terre emerse occupano appena il 30% dell’intera superficie del Pianeta e che la superficie impegnata dalle aree urbane è solo l’1%. Tuttavia, e ne abbiamo notizia molto spesso, lo spazio impegnato per ‘sostenere’ quanti occupano questa piccola percentuale di spazio (cioè tutti noi) è decisamente molto più ampio. Le riflessioni su questo argomento si presentano almeno una volta l’anno, ad esempio quando si da’ notizia dell’Earth Overshoot Day (per inciso quest’anno è arrivato ieri), all’arrivo del quale, ci dicono seppur sulla base di calcoli piuttosto discutibili, che abbiamo consumato tutto quello che il Pianeta è in grado di offrire e che il resto dell’anno va in deficit di risorse. Un deficit che pare aumenti ogni anno portando più di qualcuno a dire che se tutto il mondo dovesse vivere con gli standard occidentali, di pianeti ce ne vorrebbero tre per soddisfare tutte le esigenze in termini di risorse.
Sulle pagine di CM abbiamo spesso discusso non proprio positivamente questo approccio, per cui non intendo tornarci su. Vorrei però far notare che l’anno scorso l’Earth Overshoot Day è arrivato il 21 agosto, cioè più di un mese prima. Quindi o abbiamo consumato meno o hanno cambiato sistema di calcolo. Bene, se fosse, per la prima opzione, male, come probabilmente è, per la seconda, perché questo dimostra quanto siano aleatorie e vincolate alle scelte di pochi queste pratiche di puro flagello della pubblica opinione. Questo argomento però ci introduce al concetto di uso del territorio, sia in termini squisitamente spaziali – cioè quanto se ne usa- sia in termini di impatto ambientale, cioè quali e quante modifiche quel territorio debba subire per essere convertito alle nostre esigenze.
Non è un segreto che il nostro modello di società, che sta vedendo tra l’altro l’insorgere di molte repliche e amplificazioni da parte dei paesi emergenti, abbia bisogno di enormi quantità di energia a costi accessibili. Le fonti fossili, pur con tutti i loro difetti sia ambientali che in termini di mero sfruttamento di qualcosa che ha comunque una fine, hanno garantito esattamente questo, tanta energia per pochi spiccioli (si fa per dire). Questi costi relativamente bassi scaturiscono dal fatto che esse hanno una densità di potenza molto conveniente, ove con questa si definisce il rapporto tra il flusso di energia e lo spazio che occorre perché questa sia generata, includendo nel conto tutto quanto è necessario sia ai processi estrattivi che generativi che, infine, di distribuzione all’utilizzatore.
Il passato relativamente recente, quello per intenderci che ha visto l’esplosione della società industriale, ha dimostrato che le transizioni energetiche avvengono nella direzione di una ricerca di densità di potenza sempre più elevata. Tale ad esempio è stata la transizione dalla legna al carbone ed al petrolio, tale è quella seppur parziale che va nella direzione di un uso sempre più massiccio del gas naturale.
Ora, il limite, sebbene non ancora definito della disponibilità di queste fonti e le problematiche ambientali che esse presentano o si crede presentino se ci riferisce alle emissioni di gas serra in atmosfera, pone il problema di una nuova transizione verso fonti il più possibile rinnovabili come quella eolica, quella solare (fotovoltaica e termica), quella geotermica e quella ottenibile dalle biomasse, con in aggiunta quella idroelettrica che è però una realtà in molti casi già satura.
In un paper di Vaclav Smill, redatto per l’Istituto Bruno Leoni e presentato venerdì scorso a Firenze al Festival dell’Energia, si affronta proprio il tema della differenza in termini di densità di potenza delle diverse fonti energetiche, con dei risultati che per quanti sono a digiuno dell’argomento, come chi scrive, si possono definire a un tempo sorprendenti e preoccupanti.
Il quadro generale infatti è quello di una transizione energetica dalle fonti fossili a quelle rinnovabili, che pur presentando una percezione di elevati benefici ambientali, dei costi che via via tenderanno a ridursi grazie al progresso tecnologico ed industriale e, infine, di non trascurabili benefici strategici, necessiterà di spazi destinati alla generazione e distribuzione dell’energia da dieci a mille volte (1-2 ordini di grandezza) superiori a quelli necessari all’uso delle fonti fossili. Una trasformazione infrastrutturale non impossibile ma decisamente significativa, che necessiterà di corrette valutazioni dell’impatto ambientale (aspetto che attualmente appare essere molto trascurato in ragione di una non meglio specificata euforia rinnovabile), di adeguamento degli assetti normativi e di superamento di molte difficoltà di ordine tecnico e logistico. Un processo, nonostante l’euforia di cui sopra, che sarà possibile solo con decenni di sviluppo e quindi tutt’altro che a portata di mano.
Probabilmente con le nuove tecnologie si, infatti non si capisce perchè in uno studio del genere il nucleare venga totalmente ignorato.
Non capisco perchè il nuclerare ancora non venga considerato rinnovabile.
Questa considerazione dovrebbe avòlere sia per le centrali a fissione che per quelle a fusione.
In entrambi i casi il combustibile si trova nell’acqua.
Nel primo caso l’uranio disciolto negli oceani rende praticamente inesuribile il combustibile fissile; la sua estrazione (sicuramente più complicata rispetto a quella tradizionale) incide sul costo al Kwh con un aumento del 10%.
La stessa cosa vale per il deuterio, presente in acqua anche in percentuale maggiore.
Credo che la densità di energia per una centreale nucleare sia maggiore di 1Kw/m^2
Mi rendo conto che questo post voglia far notare come, partendo dal concetto di consumo del pianeta, sia evidente che le fonti rinnovabili siano assai scadenti (al momento, per lo meno) a differenza delle fonti fossili, che sono ad alta densità di potenza.
Non vorrei che si perdesse questo concetto, che condivido.
Vorrei però approfittare per far notare qualcosa che in qualche maniera è un corollario di quanto detto, e cioè che un mondo in cui non si facesse uso di fonti fossili, non sarebbe assolutamente in grado di fornire energia a una popolazione quale quella attuale, e visto che questa situazione è stata quella reale, in un lungo passato, vorrei far notare che questo mondo ha una certa impronta ecologica, ma quello antico avrebbe avuto bisogno di moltissimi pianeti per nutrire una popolazione simile a quella attuale.
Cioè, l’impronta ecologica NON è un assoluto, ma dipende dalla tecnologia.
Con le tecnologie antiche l’impronta era assai più povera.
Con le tecnologie future c’è ragionevolmente da aspettarsi che ne avrà massimo beneficio anche l’impronta ecologica.
Per farlo capire, immaginiamo che, per volontà di un Dio bizzarro e burlone, domani nella mente umana fosse rimossa ogni comprensione o ricordo di agricoltura, allevamento, industria ed ogni altra attività umana evoluta. Si torna alla preistoria, alla fase più antica, quella più “naturale”, in cui l’uomo viveva praticando esclusivamente caccia, pesca e raccolta. Niente più coltivazioni, tutto rimosso dalle menti umane. Niente più magazzini, frigoriferi, negozi… si riparte da zero.
Domani mattina oltre 60 milioni di italiani escono di casa e devono procurarsi il cibo…
Vi lascio a pensare e immaginare cosa potrebbe succedere, e poi parliamo di quanti pianeti ci vorrebbero per nutrire quasi sette miliardi di persone con la sola pratica di caccia, pesca e raccolta.
Buon divertimento.
Scusate ma i 1000 W/m^2 della fonte nucleare perchè non sono citati nella tabella?
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Non lo so. Forse perché nel paper si parla di transizione verso le rinnovabili a prescindere. Proverò a contattare l’IBL per avere una risposta.
gg
“domani mattina oltre 60 milioni di italiani escono di casa e devono procurarsi il cibo…”
Credo che nel giro di poche settimane di quei 60 milioni di italiani ne resterebbero ben pochi! Così come degli oltre sette miliardi di terrestri! Siamo una specie che si adatta molto facilmente, ma uno scenario come quello dipinto da G. Botteri presenta pochi margini di dubbio: l’unico modo per adattarsi è ridurre drasticamente, molto drasticamente, il numero di esseri umani che popolano il pianeta.
Ciao, Donato.
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Andiamo bene…
gg