L’amico fabio mi ha segnalato questo post su Londra – Cosmopoli, il blog di Marco Niada.
Quell’irrestitibile boom del vino…inglese
Zitto zitto, cheto cheto il vino inglese sta facendo boom. Finora il successo, che ha addirittura attratto l’attenzione di The Economist, è consumato tra le mura domestiche: 4 milioni di bottiglie prodotti nel 2010, quasi tutti di bianco e in buona parte frizzante. Ma sono stati bevuti con piacere, considerando che il frizzante ha avuto una crescita dei consumi del 17% mentre il bianco fermo Made in England nei campi del Kent, del Surrey, del Somerset e della Cornovaglia è addirittura balzato del 71%. Il vino non è cattivo, dato che il terreno calcareo del Sud-Est è geologicamente cugino delle lande dello Champagne in Francia. Quello che mancava finora era il clima. Questo, in virtù dell’effetto serra, è venuto in soccorso dei produttori inglesi.
Varie qualità di uve di ceppo Germanico, più adatte al freddo, sono state recentemente sostituite da uvaggi francesi, che necessitano più sole e un clima più asciutto. I produttori, grazie al continuo perfezionamento degli enologi, stanno ormai producendo vini di discreta qualità. Il successo crea delle tensioni e dei bisticci con i produttori di british wine, i mercanti che da tempi immemori mescolano e imbottigliano uvaggi importati. Nel momento in cui c’è richiesta di buon English wine quello British di bassa qualità e prezzi stracciati (tra 3 e 6 sterline) crea confusione e delude i consumatori che si aspettavano di bere un buon inglese. D’altronde è comprensibile la rincorsa al consumatore dato che in Gran Bretagna si scolano 1,8 miliardi di bottiglie l’anno. I produttori da parte loro hanno risposto coltivando nuove terre a settentrione, in una sorta di conquista del Nord. A Sud del Galles si produce già da tempo come pure nell’Essex e nel Suffolk. Si coltiva ormai sulla stessa superficie produttiva che sfruttavano i Romani nel 4 secolo, poco prima di abbandonare l’isola sotto la pressione delle invasioni barbariche. La risalita verso Nord, complice un clima più mite pare dunque consolidarsi. Citato da The Economist il professor Richard Selley dell’Imperial College non esclude che, se il riscaldamento della terra continuerà, nel 2080 potremo bere un ottimo scozzese Cote d’Ecosse. Chissà… l’importante è che ora di allora non ci troveremo col deserto e i cactus a Sud del Mediterraneo… (ho aggiunto qualche neretto…)
Bene bene. Ignoro la qualità di vite che coltivavano i Romani, ma prendo atto che si sta tornando a condizioni simili a quelle del 4° secolo. Chissà allora quale ruolo giocava l’effetto serra. Presumibilmente nessuno, essendo questo una scoperta degli ultimi anni.
In attesa del vino scozzese per il 2080, registriamo anche che la strada per il deserto e i cactus a sud del Mediterraneo ha portato il nostro Paese a primeggiare (primo nel 2010, forse secondo quest’anno) nella classifica mondiale dei produttori. Il vino si fa anche con i cactus?
Quanto alle mirabolanti produzioni albioniche, mi chiedo come possano aver già dimenticato gli ultimi due inverni. Vediamo se quello prossimo rinfrescherà loro la memoria.
E parlando di memoria trovo la mia. Qualche anno fa sono stato nel sud-est dell’Inghilterra per un mesetto. Un bel giorno gli amici di cui ero ospite presero la macchina e mi portarono attraverso il tunnel sulla Manica fino in Normandia. Motivo? Fare scorta di vino. Francese? No, californiano. Per quello inglese o british usarono una terminologia meteorologica: non pervenuto. E’ incredibile quanto possa cambiare in fretta questo pazzo pazzo clima.
Il clima dell’Inghilterra è un clima oceanico mite (tipo Cf di Koeppen). Chi volesse cogliere una tale mitezza può ad esempio fare una scampagnata ai famosi orti botanici reali di Kew (Kew gardens), un’enorme area a verde collocata in ambito rurale a qualche decina di km da Londra e che sono facilmente raggiungibili con i treni suburbani.
I Kew gardens, che gli inglesi utilizzavano in passato come area di acclimatamento per la flora che importavano con le loro spedizioni in giro per il mondo, contengono oggi una vegetazione cosmopolita e quel che mi ha particolarmente colpito visitandoli quest’estate è la grande presenza di lecci (Quercus ilex) di grandi dimensioni e che dunque stanno lì da moltissimi anni e certo da ben prima degli anni 70.
Ricordo che i lecci sono una tipica specie mediterranea ed in pianura padana non allignano se non nelle aree urbane, perché da noi fa troppo freddo.
Da questo più che mai eloquente esempio deduco che la viticoltura in Inghilterra è possibile da sempre (e del resto questo è quanto ci dice anche Lamb nei suoi libri).
A tale riguardo segnalo per inciso che la nostra vite (Vitis vinifera) durante il riposo vegetativo invernale sopporta temperature fino a -15 / -18°C, per cui ha resistenza più spiccata rispetto ad esempio ad un leccio o ad un olivo). Se poi prendiamo le specie de genere Vitis provenienti dal’America troviamo resistenze alle basse temperature ancora più spiccate.
Morale: il vero fattore limitante per la viticoltura britannica non sono tanto le basse temperature ma l’elevata piovosità, intesa non tanto come quantità di pioggia ma come numero di giorni piovosi, oltre il doppio rispetto a quelli italiani.
Ciò obbliga i poveri viticoltori d’oltre Manica ad una quantità inenarrabile di trattamenti antiparassitari per difendere la vite da peronospora, botitis, ecc. e cioè da malattie che in climi umidi non perdonano.
E’ all’eccesiva piovosità (che con l’inizio della PEG si enfatizzò ulteriormente) che si deve a mio avviso la scomparsa della viticoltura dall’Ingilterra alla fine del medioevo, viticoltura che fu giustamente soppiantata da altre colture più idonee e dai pascoli frequentati da bellissime pecore. Da quei tempi i sudditi di Sua Maestà acquistano i vini in giro per il mondo (Francia, vari Paesi del Mediterraneo, Sudafrica, Australia, ecc.) facendosi anche promotori di alcune innovazioni enologiche apprezzate da tutti (es: la tecnica di produzione del Porto).
Peraltro, alla luce di quanto sopra e in una logica di integrazione europea, varrebbe oggi la pena di riservare la viticoltura alle aree meno piovose a clima Csa (mediterraneo) o di transizione Csa Cfb (es. Nord Italia, Francia meridionale), ove si può far vite con assai meno chimica.
Dev’essere che al vino inglese la neve gli fa tanto bene… 🙂
Il vino si coltiva normalmente nel Nord Italia, nella Renania, in alcune zone dell’Austria e dell’ex-Cecoslovacchia, persino in Polonia ed in Sassonia credo…tutte zone con inverni mediamente più rigidi e nevosi di quelli inglesi e con clima tutt’altro che mediterraneo 🙂 anzi, nel nostro Nord ci sono vitigni in piena pianura, cioè sotto quelle linea delle inversioni che permette nebbie persistenti (talvolta con giornate di ghiaccio) e temperature minime con picchi <=-10°C quasi ogni inverno. L'importante per i vitigni sarebbe il clima dell'estate e del primo autunno, preferibilmente mite e non troppo piovoso, ma…temo che le ultimissime estati inglesi non siano state troppo clementi!
P.S. e comunque né i romani né gli inglesi medievali avevano le nostre capacità tecnologiche, biogenetiche né finanziarie per avviare coltivazioni anche in aree che potrebbero presentare numerose annate avverse!
Quando uno è ignorante, è bene che lo ammetta, ed io, in quanto a vino, sono abbastanza ignorante, nonostante qualche studio l’abbia letto (per inciso, perché ho dovuto tradurli), ma qualche conoscenza parziale non fa di me un competente di viticoltura, purtroppo, nonostante abbia lavorato all’ISMA. Lo dico perché è bene che si sappia nel giudicare i miei interventi. Quest’anno sono anche andato ad una conferenza sul vino, ma questo argomento non è stato toccato. Non mancheranno altre conferenze, e cercherò di colmare qualche lacuna di troppo. Sulla base dunque di questa conoscenza farraginosa, mi sono fatto l’idea che il vino possegga una gradazione alcolica che dipende dal sole che prende, e quindi maggiore al sud, che al nord, tanto che al nord, per tirarli su di gradi gli aggiungono (in qualche caso gli aggiungevano) vini più robusti provenienti da zone più soleggiate. In Francia per esempio tagliavano i loro vini con vino pugliese. A quel che ho capito ora non lo farebbero più. In compenso aggiungerebbero tanto zucchero, che qui in Italia è considerato “sofisticazione”. In Inghilterra quindi immaginerei che i vitigni siano debolucci, dal punto di vista della gradazione, e quando sono frizzanti questo aspetto viene un pochino mascherato, ma se è debole e nemmeno frizzante, ha poche armi per farsi apprezzare.
Con queste idee in testa (che potrebbero essere sbagliate, perché non sono un esperto) mi verrebbe da pensare che il freddo che ha fatto in Inghilterra in questi ultimi anni non dovrebbe aver fatto tanto bene ai loro vitigni…ecco il perché della mia battuta.
Traparentesi, gli stessi quotidiani che qualche giorno fa hanno segnalato la riduzione di produzione italiana hanno pure riferito di un aumento del 6% della produzione francese, sempre per questioni di clima:
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-09-15/vendemmia-precoce-scarsa-italia-130958.shtml?uuid=AaA6Ge4D
Quindi, volendo prendere l’argomento alla lettera, non è una questione meramente di latitudine.
Reply
Sono chiacchiere Fabrizio, chiacchiere in libertà. E non ci sarebbe niente di strano, perché è giusto, normale e auspicabile che si discuta delle cose che scandiscono il ritmo della società, anche con riferimento alle attività produttive. Il problema è che in queste chiacchiere vengono puntualmente inseriti dei riferimenti assiomatici al clima che cambia o è già cambiato, a riprova di quanto sia compenetrata nella dialettica quotidiana questa colossale ‘semplificazione’.
gg