347 europarlamentari hanno votato contro, 258 a favore e 62 astenuti. Ad inizio luglio, con questo risultato, poco pubblicizzato dai mass-media, è finita la politica unilaterale, da prima della classe, che vedeva l’Europa solitaria auto infliggersi “costosi” tagli nelle emissioni di anidride carbonica mentre il resto del mondo seguiva altre strade.
In epoca di vacche grasse, con la direttiva 2009/28/CE, era stato approvato il famoso programma 20-20-20+10 che prevede per il 2020 il taglio del 20% delle emissioni di gas serra, il 20% del mix energetico generato da fonti rinnovabili, un miglioramento del 20% dell’efficienza ed il troppo spesso poco citato 10% di biofuel (che sarà l’occasione per aiutare in generale l’agricoltura europea ed in particolare quella francese). Con tale direttiva s’istituiva di fatto in Europa il mercato per lo scambio in borsa di nuove azioni dette “quote di emissione”. Il mondo della finanza ha “creato” un artificioso “nuovo prodotto” su cui far investire ed eventualmente speculare, si è creato un nesso tra correttezza delle azioni, comportamenti, delle persone e l’andamento in borsa della quotazione dell’azioni o “quote di emissione”.
Ora le vacche sono molto dimagrite, la crisi economica ha causato una netta diminuzione delle emissioni di anidride carbonica e in molti stanno cercando di vendere le quote di emissione dei gas serra per far cassa, in un mercato dove l’offerta è alta e la richiesta è bassa. Nonostante gli effetti di risalita delle quotazioni al momento della decisione di rinunciare al nucleare di Italia e Germania (che necessariamente dovranno utilizzare maggiore quantità di combustibili fossili), attualmente il mercato CO2 sta scendendo sensibilmente, qualcuno afferma che è in picchiata.
In questo fosco scenario gli stessi industriali europei hanno fatto forti pressioni alla politica affinché venisse bocciata la proposta di aumento del taglio dell’emissioni dal 20% al 30%, proposta accolta anche dagli Stati che tempo fa non vedevano bene questa che da sempre è stata la realista e poco demagogica posizione italiana.
“L’Unione europea resta ancora l’unica area regionale al mondo ad aver adottato obiettivi di riduzione legalmente vincolanti e l’industria europea è esposta alla concorrenza di competitori globali, che non sono sottoposti agli stessi vincoli. Inoltre, sebbene le riduzioni siano diminuite a causa della crisi economica, i cui effetti a lungo termine sono ancora in atto, la crisi ha diminuito la capacità di investimento del settore privato ed ha aumentato il gap competitivo con i paesi terzi”.
Questa è una frase tratta dalla lettera che la Presidente di Confindustria Italia ha inviato a tutti gli euro-parlamentari italiani impegnanti nella votazione. In sostanza alla fine tutti hanno capito che non c’è più “trippa per gatti”. Anche in Europa in questo campo deve valere la costatazione che è “meglio male accompagnati che soli”.
Nonostante le critiche alla rappresentatività “dell’indice” PIL e degli aspetti negativi del porre attenzione alla sola crescita economica, è un fatto oggettivo che solo quando i paesi hanno un PIL sostanzioso ed in crescita si dedicano alle problematiche ambientali, altrimenti la sola problematica diviene come far crescere il PIL per uscire dalla crisi prima possibile. Per quanto riguarda le politiche ambientali italiane occorre anche riconoscere che, se nazione esemplare per l’ambiente è l’Australia in quanto vuole imporre la “carbon tax” al fine di aumentare il costo dei combustibili e quindi disincentivarne l’uso, in Italia è dall’epoca della prima Repubblica che ad ogni finanziaria, fino all’ultimissima, si aumentano in modo consistente le “tasse” sui carburanti ed il bollo sull’auto pur non chiamandola “carbon tax”.
All’epoca i “governi Andreotti” aumentavano oltre al costo della benzina anche quello delle sigarette e degli alcolici; all’inizio la nuova tassazione era giustificata da uno scopo che nel tempo spariva mentre rimaneva il balzello al quale seguiva un processo di assuefazione. Sui carburanti è il sovrapporsi nel tempo di nuove “tasse” che causa in buona parte l’aumento del loro costo, perché quest’ultimo alla produzione è simile a quello dell’acqua minerale alla fonte, mentre al distributore diviene maggiore del vino o latte imbottigliato. Non sarà mica che le progressiste politiche fiscali di tipo ecologista e salutista, che dovrebbero caratterizzare il futuro “low carbon”e migliorare il mondo, rischiano “di fatto” di non essere altro che quelle del passato dando alle tasse nomi più accettabili dalla popolazione?
Articolo che suscita molte riflessioni ed altrettante considerazioni. Il tema trattato, difatti, presenta diversi piani di lettura: ambientale, economico, sociale, tanto per citarne alcuni.
Poiché, però, non mi sembra opportuno scrivere un commento più lungo dell’articolo, mi limiterò a qualche considerazione sulla carbon tax.
La riduzione del consumo di idrocarburi e/o delle emissioni inquinanti è molto importante dal punto di vista ambientale. Tutti, infatti, apprezziamo un ambiente più pulito e più salubre. Il problema, però, nasce nell’istante in cui questa riduzione viene imposta utilizzando la leva fiscale e senza che sia il frutto di scelte convinte da parte dei cittadini-consumatori. L’azione correttiva, in questi casi, viene percepita come un sopruso, per cui si cerca di sottrarsi ad esso in tutti i modi possibili ed immaginabili. Il risultato finale sarà l’inutilità dell’azione mitigatrice. Ogni qualvolta si impone un balzello per risolvere un problema, possiamo esserne certi, quel problema non sarà risolto. La carbon tax, di cui si parla nell’articolo, rientra appieno in questa categoria di balzelli: il suo scopo è quello di ridurre il consumo di combustibili fossili per ridurre le emissioni di CO2 allo scopo di evitare che tra cento anni, le temperature del globo aumentino di due o più gradi centigradi. Se il cittadino è convinto che bruciare combustibili fossili aumenta le emissioni di CO2 e contribuisce al disfacimento climatico non avrà bisogno di alcuna carbon tax in quanto ridurrà da solo il consumo di combustibili fossili. Se, invece, la cosa non lo convince c’è poco da fare: continuerà a consumare e ad inquinare come prima assuefacendosi, come dice Fabio Spina, al maggior costo. Anzi si convincerà che si può inquinare pagando e “l’inquinare di più” diventerà una specie di status simbolo: se inquino di più significa che posso permettermelo. La strada da seguire, secondo me, dovrebbe essere un’altra.
Da qualche anno, in Italia, è proibito fumare nei locali pubblici. Noto con piacere che il divieto è rispettato quasi ovunque senza che ciò determini particolari problemi: il fumatore si allontana dal locale per il tempo necessario e poi rientra senza che ciò determini sollevamenti sociali. La ragione per cui questo divieto, contrariamente a tanti altri, viene rispettato deve ricercarsi, da una parte, nella consapevolezza del cittadino fumatore che chi non fuma non deve essere esposto al rischio di contrarre una malattia per colpa altrui, dall’altra nella riprovazione sociale che produce il fumare in un ambiente pubblico. Credo che la sanzione pecuniaria per i trasgressori conti poco o nulla nel determinare il rispetto del divieto. E veniamo alla conclusione: se non si crea consapevolezza e riprovazione sociale nei riguardi dell’azione di chi inquina è inutile parlare di carbon tax e simili amenità. Soprattutto se le conseguenze dell’azione mitigatrice della tassa si vedranno tra un centinaio d’anni o sono incerte (come nel caso dell’effetto della CO2 sul clima).
Ciao, Donato.
Caro Donato, siamo tutti d’accordo che “sviluppare” significa anche rendere il sistema più efficiente, questo accade da secoli, anche le pale eoliche nel tempo dovranno produrre maggiore energia con li stesso vento (anche se non emettono CO2). La civiltà contadina era maestra in questa evoluzione. Miglioramento efficienza/tecnologia che è un obiettivo principio indipendentemente che il futuro sarà caldo o freddo. Invece ora sta accadendo qualcosa di diverso, come scrivi bene anche Te, uno dei principi guida della politica ambientale mondiale è “chi inquina paga” (l’altro è il principio di precauzione) ed è insegnato anche ai bambini.
Purtroppo il termine inquinamento è usato in modo truffaldino sia per immissioni dannose come diossina sia per elementi naturali come CO2 e CH4, per i quali al massimo si dovrebbe parlare d’impatto (che non può essere mai pari a zero). Alla fine tutti sanno che si deve solo pagare per svolgere le stesse attività; la tassa è sostenibile anche dal punto di vista dell’importo in modo che tutto rimanga come prima.
Oppure anziché tasse si organizza un bel “mercato” in borsa in modo che le banche ed altri possano speculare. In questo periodo tutti si lamentano della speculazione che affonda i paesi, però nessuno si chiede come mai si vuole mettere nelle loro mani la salvezza del pianeta.
Il vero problema è che risolvere seriamente problematiche ambientali come l’esagerato uso auto, traffico, etc. comporterebbe SPESE allo Stato per migliorare i mezzi pubblici, l’urbanistica con cui sono costruite le strade, le comunicazioni, etc. Molto meglio far credere che tutto si risolve con una tassa, che anziché spese crea introiti.
Poi dell’aumento effettivo dovuto alla “carbon tax” ne avevo già scritto più di un anno fa: “Aumento del costo dei carburanti? Pago felice solo se è “carbon tax” http://www.climatemonitor.it/?p=9272
Grazie