Tzu-Ting Lo e Huang-Hsiung Hsu sono due ricercatori del Dipartimento di Scienze dell’Atmosfera dell’Università di Taiwan ed hanno analizzato l’aumento delle temperature manifestatosi negli ultimi 20 anni del ventesimo secolo nell’emisfero Nord, pubblicando i risultati della loro ricerca in un articolo uscito su Atmospheric Science Letters (Lo & Hsu, 2010).
Tale articolo, che mi è stato segnalato da Guido Guidi (qui su CM), rientra nel filone di indagine riferito al tema delle discontinuità climatiche che sto seguendo da anni lavorando su serie storiche di dati termici (Mariani et al., 2008).
Il contributo offerto dai ricercatori taiwanesi mi pare originale in quanto ottenuto non solo analizzando le serie storiche di fonte CRU ma anche analizzando gli output di modelli GCM state of art. In particolare gli autori evidenziano che la fase di crescita delle temperature globali del periodo 1977 – 1998 (figura 1), che nell’accezione comune è nota come “global warming”, ha presentato le seguenti caratteristiche:
- Non ha precedenti dai primi anni ’40 del XX secolo ed è evidente soprattutto nell’emisfero boreale in inverno, ove si manifesta con un aumento brusco della temperatura nella seconda metà degli anni ’80, che ha interessato in particolare l’intera Eurasia e la parte nordoccidentale dell’America Settentrionale, mentre un raffreddamento ha interessato il Pacifico settentrionale e la parte sudorientale degli Usa.
- A livello di circolazione generale appare frutto di un brusco cambiamento di fase della grande circolazione anulare che caratterizza le medie latitudini del nostro emisfero; in particolare gli autori evidenziano le 2 principali componenti circolatorie che hanno agito e cioè Pacific Decadal Oscillation PDO (che cambia di fase nel 1977 e risulta attiva soprattutto fra anni 70 e anni 80) e Arctic Oscillation AO (più attivo ad iniziare dalla seconda metà degli anni 80) (figura 2).
L’aspetto più originale del lavoro di Tsu-Ting e Hsu è a mio avviso costituito dall’avere evidenziato il fatto che la repentina riconfigurazione della grande circolazione anulare sarebbe frutto della variabilità climatica naturale e non dell’incremento di CO2 in atmosfera. Tale conclusione è supportata dal fatto che il fenomeno non è descritto in modo realistico dai modelli circolatori globali CMIP3 dell’IPCC se si introduce l’incremento di CO2 del XX secolo mentre viene simulato in modo realistico dai modelli stessi se fatti operare in modalità pre – industriale (e cioè con CO2 costante a 285 ppmv).
In soldoni parrebbe di poter dire che nei GCM l’effetto CO2, modellato come sappiamo fare oggi, si mangia tutta la variabilità naturale (che è tantissima) e porta ad un sistema in cui vige la regola “tanta CO2 – tanta temperatura”, il che rappresenterà anche il sogno di tutti i seguaci della teoria AGW ma onora assai poco la realtà.
In sintesi quanto sopra:
- Mostra in tutta la sua rilevanza il problema dell’insufficiente conoscenza del sistema climatico che ancor oggi affligge la climatologia.
- Dovrebbe indurre a diffidare degli scenari IPCC, in quanto sviluppati con modelli che non riescono a ricostruire il passato in modo decente.
Riferimenti bibliografici
- Lo T.T., Hsu H.H., 2010. Change in the dominant decadal patterns and the late 1980s abrupt warming in the extratropical Northern Hemisphere, Atmos.Sci.Let. 11, 210-215 (http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/asl.275/abstract).
- Mariani L., Parisi S., Cola G., 2008. Space and time behavior of climatic hazard of low temperature for single rice crop in the mid latitude, International Journal of Climatology, Published online in Wiley InterScience (www.interscience.wiley.com) DOI: 10.1002/joc.1830
Una spiegazione potrebbe stare nel fatto che i modelli IPCC non siano corretti nel simulare l’effetto dinamico dell’incremento della CO2 nell’atmosfera , soprattutto nelle ipotesi adottate, mai confermate da dati sperimentali, di feed-back positivi. Tali effetti dinamici aleatori nasconderebbero i contributi alla variabilita` della temperatura dovyti alla variabilita` climatica naturale. Se le cose fossero cosi`, e data la rispondente simulazione a CO2 costante, l’effetto della varibilita`di quest’ultima, almeno nei limiti impostati, sul climate change, sarebbe trascurabile.
Carlo
Caro Donato,
la fiducia in campo scientifico può solo essere frutto di una seria attività di confronto dei risultati dei modelli con la realtà che sono chiamati a simulare.
Per fare ciò ci sono metodologie statistiche consolidate (*) e che sarebbe il caso dia applicare per giungere finalmente a dire parole chiare sui GCM e sui loro risultati.
Se fossi un decisore affiderei questa attività di validazione ad un pool di statistici che non abbiano le mani in pasta e possano pertanto operare con la massima libertà. Ovviamente una tale scelta è troppo illuminata perché qualcuno pensi ad adottarla, per cui temo che invecchieremo discutendo della vicenda.
Luigi
(*) molti riferimenti utili sono nel lavoro seguente: Refsgaard J.C., Henriksen H.J., 2004. Modelling guidelines––terminology and guiding principles, Advances in Water Resources 27 (2004) 71–82
Articolo veramente interessante. Se non ho capito male alcuni dei modelli utilizzati dall’IPCC riescono a spiegare le variazioni della configurazione di AO e PDO solo se la concentrazione di CO2 in atmosfera è quella precedente la rivoluzione industriale. Significa, in altre parole, che se aumentiamo la concentrazione di CO2 atmosferica e facciamo girare i modelli non riusciamo a replicare il comportamento della circolazione atmosferica verificatosi nel corso degli ultimi anni. Se tanto mi da tanto l’attendibilità delle previsioni di tali modelli per il futuro prossimo e per quello più lontano, diventa sempre più aleatoria. Una domanda, però, mi viene spontanea. Se il modello gira e replica i dati realmente osservati con una concentrazione di CO2 errata (volente o nolente ad essa si attribuisce un valore fittizio) siamo sicuri che il modello ed i risultati ottenuti siano affidabili? In altre parole per far “uscire” il risultato atteso ho dovuto inserire dei dati fasulli. A me hanno insegnato che in questi casi l’algoritmo di calcolo non va bene e, quindi, deve essere modificato. E con questo torniamo al tormentone di questo blog: possiamo fidarci dei modelli per progettare il nostro futuro? Sarebbe interessante, comunque, conoscere cosa ne pensano gli scienziati pro-AGW di questo studio e delle sue implicazioni.
Ciao, Donato.
Finalmente si comincia a ragionare…. da sempre non condivido le teorie che ci vogliono come unicii responsabili del riscaldamento globale. Altrimenti come ci spiegheremo l’alternanza temporale deserto-super lago che il Sahara ci sta svelando. Basti pensare alle quantità di CO2 e di polveri sottili che un unico vulcano è riuscito ad emettere in Islanda in pochi giorni!!.
Purtroppo gli studi delle università vengono “spinti” o “discriminati” a seconda che siano utili o meno ai finanziatori ed ai loro interessi. Il petrolio andrebbe utilitzzato solo per le materie plastiche e dovremmo convertire le nostre auto per alimentarle con metano, etanolo, ed oli vegetali (per i cicli diesel), con poca spesa (nuovi iniettori e riprogammazione centraline) si otterrebbe un abbattimento delle ppm10 e composti aromatici, non solo ma si avrebbe una nuova spinta produttiva e nuovi posti di lavoro nel settore agricolo oggi considerato come roba da terzo mondo (in verità una miniera d’oro con i maggiori incentivi d’europa). Grazie e complimenti per la vostra mentalità aperta.
Gentile Umberto Spinelli,
la ringrazio per l’apprezzamento. Debbo tuttavia dirle che concordo su gran parte delle sue considerazioni ma non sono altrettanto fiducioso nel fato che l’agricoltura sia davvero un nuovo eldorado per la produzione di energia).
Lungi da me il demonizzare l’uso dell’agricoltura ai fini di produzioni energetiche; tuttavia è a mio avviso necessario prestare attenzione ai seguenti dati di fatto:
1. orientare in modo deciso l’agricoltura alla produzione di energia espone oggi a gravissimi rischi di aumento dei prezzi dei prodotti destinati all’alimentazione con ripercussioni a livello globale che nessuno è oggi in grado di prevedere e men che meno di governare.
2. usare sistematicamente a scopi energetici residui culturali che dovrebbero ritornare al terreno (es: paglie di cereali bruciate per produrre energia) porterà ad isterilire i suoli.
Qui però mi fermo in quanto siamo chiaramente un “fuori tema” rispetto alla discussione in corso.
Gentile Umberto Spinelli,
la ringrazio molto per l’apprezzamento. Debbo tuttavia dirle che concordo su gran parte delle sue considerazioni ma non sono altrettanto fiducioso nel fatto che l’agricoltura sia davvero un nuovo eldorado per la produzione di energia.
Lungi da me il demonizzare l’uso dell’agricoltura ai fini di produzioni energetiche; tuttavia è a mio avviso necessario prestare attenzione ai seguenti dati di fatto:
1. orientare in modo deciso l’agricoltura alla produzione di energia espone oggi a gravissimi rischi di aumento dei prezzi dei prodotti destinati all’alimentazione con ripercussioni a livello globale che nessuno è oggi in grado di prevedere e men che meno di governare.
2. usare sistematicamente a scopi energetici residui culturali che dovrebbero ritornare al terreno (es: paglie di cereali bruciate per produrre energia) porterà ad isterilire i suoli.
Su questi argomenti potrei scrivere al lungo ma debbo necessariamente arrestarmi in quanto siamo chiaramente in un “fuori tema” rispetto alla discussione in corso.
@ Spinelli
Sono completamente d’accordo con il prof Mariani che saluto.
Tutto ciò che è bioenergia per autotrazione cioè biometano bio etanolo e biodiesel crea dggli ammanchi di produzione alimentare enormi, che non possono che essere colmati che con la deforestazione per aumentarne la produzione.
Come giustamente detto dal Marinai anche l’uso di sottoprodotti per bioenergia, apparentemente una valorizzazione degli stessi, nel lungo periodo, crea gravi scompensi ai terreni agricoli, per ammanchi di sostanza organica agli stessi.
Una nota particolare va fatta per l’uso degli olii esausti ( cioè quelli usati a friggere alimenti) per la preparazione di biodiesel.
Anche in questo caso si crea un ammanco di produzione, perchè gli olii esausti non sono un rifiuto come molti ambientalisti credono, ma sono da sempre una componente fondamentale dell’industria mangimistica, si usano infatti per grassare i mangimi evitandone le polveri e aumentandone l’energia.
Nel caso di ammanchi di olii esausti, i mangimisti sono costretti ad utilizzare olii vergini con la conseguente deforestazione per aumentarne la produzione.