La materia del climate change non manca mai di presentare aspetti interessanti e sorprendenti. Con un po’ di rammarico dobbiamo dire che quasi tutto arriva da fuori, poco o nulla, infatti è di produzione nostrana. Volendo rubare un’espressione cara a una certa parte dei partecipanti al dibattito scientifico sulle origini del cambiamento climatico nel nostro paese, tutto o quasi avviene a rimorchio, come abbiamo cercato di spiegare sia pur brevemente in questo post.
Considerata l’asprezza con cui si sta dipanando questo dibattito ultimamente, c’è da sperare che l’ultimo rimorchiatore di cui sto per parlarvi arrivi in fretta, se non altro per pulire le dissertazioni dagli attacchi personali e dagli insulti ultimamente di gran moda, che poco o nulla hanno a che fare con il dibattito scientifico. Del resto non c’è da stupirsi, rispetto ad un recente passato in cui l’adesione al mainstream garantiva onori e gloria, la situazione attuale, con le policy di mitigazione in stallo e l’economia verde ingiallita ancora prima di fiorire, può oggettivamente essere fonte di nervosismo tra chi su queste policy e su questa economia aveva puntato tutte le sue carte di sostenitore. Se infatti gli scettici delle origini completamente antropiche del cambiamento climatico erano prima considerati solo dei minus habens, ora per taluni sono a tutti gli effetti dei nemici. Piaccia o no, questo è un riconoscimento, che alza di sicuro i toni dello scontro ma palesa anche una certa debolezza degli argomenti dei non minus habens.
Non che altrove non si continui a litigare, come ha dimostrato ampiamente la recente polemica sull’intervento di Kevin Trenberth all’AMS di Seattle (qui e qui per avere un’idea del bianco e nero – interventi entrambi ispirati a dibattiti oltreoceano), però, tra una rissa e l’altra, si cerca anche di porre fine alla questione, come sembra possa accadere in un altro simposio svoltosi la settimana scorsa a Lisbona.
Ne abbiamo notizia da Judith Curry, climatologa, non scettica, un po’ eretica, ma per me semplicemente obiettiva, invitata a prendervi parte presumibilmente solo per l’ultima qualifica, non certo per le altre che si è guadagnata da quando ha scelto di scendere dalla torre d’avorio e confrontarsi con quanti esprimono opinioni diverse dal mainstream. Il tema del workshop è “Riconciliazione nella scienza del clima” e credo che nulla possa chiarire gli obiettivi di chi lo ha organizzato meglio delle loro stesse parole.
Alla radice dell’idea, non solo la necessità di superare atteggiamenti preconcetti circa la preparazione e quindi il diritto alla parola dei propri interlocutori, problematiche espressamente escluse dal dibattito, ma anche la consapevolezza che un problema ci sia e debba necessariamente essere affrontato, accogliendo esclusivamente le opinioni e focalizzando l’attenzione sulle divergenze, allo scopo di individuare degli ambiti che necessitino approfondimento. Non ultimo, forse con grande sorpresa di chi è convinto che ormai si debba discutere dei dettagli in un contesto di forcing antropico acquisito ed accertato, anche il livello di incertezza e la comunicazione dello stesso, settori cui chi mena le danze della scienza del clima -IPCC in primis – si è rivelato decisamente deficitario nel corso degli ultimi anni.
Attenzione, questa incertezza, spesso opportunamente esplicitata nelle pubblicazioni scientifiche, è altrettanto spesso omessa in sede di divulgazione e fornitura di informazioni di supporto alle policy. Ci sono alcuni aspetti cruciali che sono dati per acquisiti in quanto questo ha deciso di fare chi ha ricevuto l’incarico di fare da interfaccia tra la comunità scientifica e i policy makers. Tra questi, ad esempio, la sensibilità climatica nel suo complesso – leggi previsto aumento delle temperature al raddoppio della CO2- o solo una parte di essa, come il feedback delle nubi, oppure ancora il ruolo della forzante solare. Beh, non lo sono, e ne è testimone l’allargamento della forchetta tra gli scenari proposti dalle simulazioni climatiche e quanto sta realmente accadendo. E la discussione non è meramente scientifica, perché quanto definito (o presunto tale), si traduce poi nelle azioni di mitigazione in punti di PIL, cioè condizionando nel bene e nel male lo sviluppo, il wellfare, l’accesso alle risorse etc etc.
Accade inoltre, che gli organizzatori del dibattito siano anche stati in passato al centro essi stessi di aspre polemiche, per aver immaginato un nuovo tipo di approccio alla scienza, definito post-normale, in cui la pratica scientifica è necessariamente condizionata dal suo interagire con gli altri ambiti della realtà e dunque di questi debba tener conto, ponendosi come unico obbiettivo la soluzione dei problemi. Molti hanno interpretato questa teorizzazione come un tentativo di trovare delle scorciatoie al metodo scientifico, derogandone la necessaria rigidità in assenza di elementi chiari di evidenza scientifica. Una critica che calza a pennello con la scienza del clima, fondata su molte più incertezze che certezze e, specie con riferimento alla modellistica, difficilmente sottoponibile alle necessarie azioni di verifica e ripetizione sperimentale.
Una volta di più, si deve convenire che l’atteggiamento pragmatico ed allo stesso tempo disponibile della Curry, sovrasta di parecchie grandezze la manifesta indisponibilità di molta altra parte della comunità scientifica a dibattere su questi argomenti. Onde evitare il terreno scivoloso della deroga al procedimento scientifico, la Curry preferisce infatti parlare di scienza in ambiente post-normale, ovvero profondamente mutato, piuttosto che di scienza post-normale tout court. Che il settore della scienza del clima sia altamente politicizzato e sostenuto da ingiustificati atteggiamenti ideologici è un fatto, che questo problema debba necessariamente essere superato, non senza tener conto delle implicazioni in termini di policy, deve esserlo altrettanto.
Attendiamo di saperne un po’ di più su cosa si saranno detti, sperando, come dicono nel loro comunicato gli organizzatori del workshop, che questo possa essere un primo passo verso una riconciliazione della scienza del clima.
Addendum
La Curry ha pubblicato le sue prima impressioni sul workshop. Qui per leggerle, ma non mi pare siano andati molto lontano.
Ho due problemi con l’articolo della Curry.
Il primo riguarda questo passaggio: “Climate scientists seem frustrated by an apparent inability to communicate effectively to the public. They seem to think that knowledge speaks to power: if we communicated better, people would do what is needed.”
Sembra che uno dei crucci principali di questi scienziati sia il pianificare una strategia di evangelizzazione più efficace. Riducono il problema dell’attendibilità nei confronti dell’opinione pubblica a una mera questione di tecnica nella comunicazione. Questo tipo di argomento porta molto vicino al territorio della propaganda politica. Quel “people would do what is needed” suona molto male.
Il secondo problema è il concetto di “post-normal science”, che, nonostante possa verosimilmente descrivere uno scenario per quanto riguarda la discussione sul clima, tende a giustificare o a tollerare la condizione di subalternità o complicità delle scienze rispetto, di nuovo, all’interesse politico.