Il sistema territoriale del Veneto è uscito fortemente scosso dall’alluvione del novembre 2010. In primo luogo perché esso ha messo in crisi il prestigio amministrativo dei vari enti locali, nonché un certo modello di sviluppo tanto rapido quanto produttivo; ed in secondo luogo perché si sono risvegliate ancestrali paure che sembravano ormai sepolte dalla società moderna, dato che non c’è nulla di più naturale ed antico della “paura” di ciò che non si può controllare.
Abbiamo visto come il primo fattore sia stato, almeno in parte, sopravvalutato, dato che l’alluvione in sé non è stata causata dal grande sviluppo socio-economico attraversato dal Veneto, e che l’evento è stato tanto eccezionale da avere ragione di una pianificazione idrica con svariati secoli di esperienza e di opere.
Il secondo fattore, invece, ha provato una volta di più la fragilità delle società contemporanee verso l’ambiente in cui vivono: una fragilità non dovuta alla reale impossibilità di prevenire certe manifestazioni naturali, capacità che anzi migliora assieme al livello tecnologico ed alla ricchezza della società eventualmente colpita. Ma che invece risiede in un fattore psicologico, dove da una parte non si vogliono prendere misure di prevenzione su eventi con elevati tempi di ritorno (che siano alluvioni, tornado o nevicate poco importa) ritrovandosi così meno preparati nell’inevitabile momento del bisogno; e dall’altra parte si sviluppano paure irrazionali del tutto simili a quelle dei secoli “bui”, dove al malocchio si sostituisce il parcheggio di cemento, od all’ira delle divinità naturali l’effetto serra antropico, e via dicendo, senza riflettere e studiare sulle reali cause e probabilità di certi eventi.
Non vorrei mai, però, che a queste parole, dettate dalla moderazione, si attribuisse una giustificazione verso gli scempi ambientali ed urbanistici, passati e forse anche futuri. Dobbiamo invece anche riflettere sugli errori commessi, dato che alcuni allarmi erano stati dati, ed analizzare la lezione che possiamo ricavare da questa tragica alluvione.
In primo luogo va considerato che il sistema di regolazione delle acque del Veneto, benché eccellente, esponga ancora una grossa parte del territorio a seri rischi nel caso di eventi estremi, con tempi di ritorno sì pluri-decennali ma meno che secolari. I casi del 1966 e del 2010 dimostrano che alcuni grandi lavori devono essere intrapresi, nell’ambito della costruzione di bacini di espansione e di casse di laminazione nei vari bacini idraulici, ad esempio per quelli di Bacchiglione e Brenta; e, in alcuni casi, gioverebbe anche lo scavo di nuovi canali. Uno di questi sarebbe l’idrovia di Padova, iniziata decenni or sono come canale navigabile ma mai portata a termine, la quale sfociando nella Laguna Veneta permetterebbe uno sfogo diretto delle piene dei due fiumi appena citati. Dobbiamo infatti ricordare che parte delle opere veneziane di regolazione dei corsi fluviali, salvaguardando la Laguna dal progressivo interramento operato dai sedimi trasportati a valle, ha però reso più lungo e difficile lo scarico in mare delle portate eccezionali di alcuni corsi d’acqua.
Questo periodo può viceversa essere d’ispirazione per l’istituzione di un forte “comando” delle regolazioni e manutenzioni idrauliche sul territorio, eventualmente anche a sostituire gli enti territoriali già esistenti, che nella loro frammentazione possono avere problemi sia di intercomunicazione che di reperimento di grossi fondi e direzione di grandi lavori. Attualmente, infatti, il territorio veneto è suddiviso tra diversi consorzi di bonifica; mentre sono competenti per lavori di carattere regionale e sovraregionale il Genio Civile ed il Magistrato alle Acque1. Quest’ultimo potrebbe essere l’ente più adatto: senza dover operare complesse riforme amministrative e tecniche, esso già dovrebbe svolgere la necessaria attività di coordinazione, previsione e direzione di tutti i lavori idraulici in tutto il territorio. Al di là dell’aspetto burocratico-organizzativo, che potrà essere deciso nella maniera più conveniente – scegliendo fra la delega sul territorio delle competenze e responsabilità, come oggi, o l’accentramento delle funzioni – il vero problema è quello delle capacità decisionali e finanziarie dell’ente preposto a tale scopo. Tale problema è essenzialmente politico, e si presenta su due diversi livelli: il primo è quello locale, dove le amministrazioni non sono sempre sensibili ad una lungimirante gestione del territorio, sia perché scarsamente pagante in termini elettorali, sia perché necessita di fondi molto consistenti dei quali non sempre si ha disposizione; e qui subentra il secondo livello, dato che il gettito fiscale del territorio viene in massima parte inviato allo stato centrale per poi dover essere richiesto e redistribuito, passaggio già complesso a cui si aggiunge la necessità burocratica di ottenere le necessarie autorizzazioni a certi grandi lavori sempre nella capitale e non in maniera più rapida e diretta. Il dirimere tale questione non è però compito nostro, ed è anzi già oggetto di un profondo e complesso iter di riforma della Repubblica Italiana. Invece, possiamo suggerire che, una volta che l’eventuale ente “dittatore” dei lavori idraulici abbia le capacità (burocratica e finanziaria) di operare celermente ed adeguatamente, esso possa poi ottenere la precedenza sugli interessi particolari, economici od elettorali, pur senza divenire una sorta di governo autocratico del territorio. L’alluvione del 2010 ha infatti dimostrato che, per quanto possano essere costosi gli interventi di salvaguardia idraulica (comprensivi sia dei lavori che degli indennizzi per gli espropri), i danni causati da un tale evento sono sufficientemente elevati da giustificare simili spese e priorità, anche in un momento di gravi difficoltà finanziarie come l’attuale. Non è infatti solo la cifra inizialmente stimata di un miliardo di euro di danni ad essere grande: l’alluvione potrebbe incidere in una mancata crescita annua del PIL regionale pari allo 0.5-0.7% per il 2010, con possibile revisione al rialzo della perdita in caso di aumento dei danni accertati; mentre in termini di mancata occupazione l’impatto sarebbe dello 0.6-0.9%2.
In ugual misura, è necessaria anche la manutenzione degli alvei fluviali, dalla solidità degli argini alla pulizia del letto dei fiumi. In questo ambito possiamo includere anche la doverosa attenzione affinché non vengano edificate le aree dove sia previsto uno “sfogo” per le acque di piena: non tanto per gli effetti, assolutamente secondari, sull’assorbimento del terreno (poco significativo in questi specifici casi); quanto per i danni, umani e materiali, che tali edificazioni subirebbero.
Un ulteriore accenno va fatto al sistema di Protezione Civile, che a livello locale ha funzionato piuttosto bene, grazie all’opera dei numerosi volontari e degli amministratori locali, soccorrendo per quanto possibile persone, animali e proprietà minacciate dall’alluvione. Tuttavia il sistema ha mostrato alcune pecche a livello di coordinamento e di allarme tempestivo, forse non ascrivibili alla Protezione Civile in sé, forse semplicemente dettate dai tempi operativi. Dove l’essere rapidi non è sufficiente, dato che durante questi eventi l’intervento deve essere pressoché immediato, visto che essi si sviluppano disastrosamente “dal nulla” nel giro di poche ore o al più pochissimi giorni; e dove i nuclei di P.C. dispersi sul territorio non hanno a disposizione tutti i mezzi (pompe idrovore, automezzi anfibi, escavatori, cucine da campo, elicotteri ecc) ed i rifornimenti necessari a fronteggiare un’emergenza che localmente può divenire gravissima. Si necessiterebbe dunque di un comando operativo pronto ad intervenire immediatamente, sia mediante il lancio dello stato d’allarme che attraverso interventi mirati sul territorio, su scala regionale ed in maniera autonoma, in modo da coordinare efficacemente i vari gruppi locali e fornire loro immediato supporto con qualche task force che possa essere rapidissimamente messa in campo (se necessario anche ricorrendo ad unità militari).
Resta invece completamente al di fuori delle responsabilità umane il ripetersi di simili eventi estremi, i quali sono pienamente all’interno della variabilità meteorologica del nostro clima. Se non possiamo fare nulla per evitarli (né, per fortuna, per provocarli), non dobbiamo comunque accettarli in maniera fatalista: sta dunque alla società veneta dimostrare come la propria antichissima tradizione di territorio d’acque sia ancora viva, e metterla a frutto con quelle opere necessarie a prevenire l’esondazione dei fiumi anche nei casi peggiori.
NB: Leggi anche:
- Alluvione in Veneto: introduzione storico geografica.
- Alluvione in Veneto: Aspetti socio economici.
- Alluvione in Veneto: La dinamica degli eventi.
- Alluvione in Veneto: disindormazione.
- Il Magistrato alle Acque era al tempo della Repubblica Veneta il nome collettivo dei vari funzionari preposti alla salvaguardia idraulica del Dominio di Terraferma come della Laguna; mentre oggi è un ente vero e proprio, con potestà su tutto il Nord-Est (nei territori acquisiti dall’Italia fra il 1866 ed il 1919). [↩]
- Stima Unioncamere Veneto. [↩]
ciao e grazie per l’interessantissimo contributo.
Volevo sapere se per caso sai se esistono dei sistemi di monitoraggio lungo il Bacchiglione e se è possibile “accedere” alle informazioni da questi raccolte, inoltre volevo un tuo parere “da esperto locale” su quali potrebbero essere degli efficaci sistemi di monitoraggio.
grazie
“………Purtroppo ho sempre più l’impressione che il modello di sviluppo italiano guardi al terzo mondo piuttosto che all’europa civilizzata……”
purtroppo, condivido pienamente tutto ciò che dici……
😉
Tratto da quest’articolo di Repubblica
http://www.repubblica.it/ambiente/2011/01/18/news/cemento_distruttivo-11348928/?ref=HRER1-1#commenta
Ci sono esempi clamorosi: Il Veneto, che dal 1950 ha fatto crescere la sua superficie urbanizzata del 324% mentre la sua popolazione è cresciuta nello stesso periodo solo per il 32%, non ha imparato nulla dall’alluvione che l’ha colpito a fine novembre. Un paio di settimane dopo, mentre ancora si faceva la conta dei danni, il Consiglio Regionale ha approvato una leggina che consente di ampliare gli edifici su terreni agricoli fino a 800 metri cubi, l’equivalente di tre alloggi di 90 metri quadri.
L?italiano medio pensa che l’unico modo per progredire sia quello di costruire e costruire e costruire. Torno a ripetere, in altri paesi civili, dove invece di parlare di comunisti, ambientalisti, complotti e quant’altro si parla della realtà si è anche capito che il recupero, la ristrutturazione, la bonifica, la pianificazione territoriale sono dei punti che fanno PIL ed economia.
Inoltre come se non bastasse ho l’impessione che in Italia si costruisca pure utilizzando tecniche e materiali scadenti, e superati.
Purtroppo ho sempre più l’impressione che il modello di sviluppo italiano guardi al terzo mondo piuttosto che all’europa civilizzata.
Nel 1876 la speranza di vita a Vicenza era di 27.5 anni, mentre circa il 25% dei nati vivi moriva entro il primo anno d’età. Ancora nel 1950 il Veneto era terra d’emigrazione, un’ondata di emigrati che, cominciando all’indomani dell’Unità, ha portato oggi ad avere un intero “secondo Veneto” all’estero (diffuso anche in nazioni lontane come Brasile, Argentina ed Australia). Se la scelta è tra la miseria d’un tempo e l’alluvione…meglio forse l’alluvione.
In realtà, se si guarda ai miei primi due articoli, si vede che tale “urbanizzazione selvaggia” non ha sfruttato che una parte ancora piccola del territorio; inoltre in Veneto è ben presente quel “verde diffuso”, concetto alieno a molte realtà urbane italiane (che tra l’altro hanno una densità di popolazione ben più forte). Semmai il problema sarebbe nel caso di forti temporali, laddove eventi tanto localizzati possono colpire nuovi quartieri dove non sono state previste sicurezze idrauliche sufficienti: eventi non infrequenti, specie nell’afosa ma variabile estate veneta, ma che in comune con l’alluvione hanno solo l’acqua. Anche questo accostamento col terzo mondo è assai ardito, per non dire fuorviante: molta dell’urbanizzazione veneta degli ultimi 30 anni si è sviluppata invece proprio per raggiungere standard tedeschi, costruendo strade migliori, piste ciclabili, parcheggi, case ampie e moderne, giardini privati e quant’altro.
In ogni caso, come dico nell’articolo, e come giustamente Lei ripete nell’intervento più sopra, tutto ciò deve essere fatto in armonia con una seria e lungimirante pianificazione territoriale, che deve pensare a 50 o anche 100 anni e non a 5 o 10. L’esempio classico, più ancora che il tanto esecrato parcheggio di cemento (che in realtà è asfalto), è invece la pista ciclabile che collega frazioni o paesi diversi, spesso costruita sopra i fossi che costeggiano la strada statale (in realtà nel Veneto sono ormai quasi tutte regionali o provinciali): un intervento moderno ed addirittura ecologico, che però riduce un prezioso scolo per le acque meteoriche.
Concordo pienamente con le osservazioni fatte nel post. Per l’ennesima volta mi sembra di capire che le cause dei danni fisici e materiali provocate dall’alluvione non vanno ricercate tanto nell’evento stesso o nell’aumento di CO2 quanto dalla miopia e mancanza di lungimiranza delle persone che dovrebbero decidere e pianificare gli interventi e la manutenzione del terrotiorio. Tempi di ritorno di 10-20-50 anni purtroppo sono troppo lunghi per rimanere emotivamente impressi nella mente umana per questo ci vuole una pianificazione razionale che vada oltre la memoria personale e la paura del momento. La mancanza di informazione e cultura del territorio fa si poi che le reazioni di fronte a questi eventi siano spesso irrazionali o superstiziose proprio perchè l’incuria e il menefreghismo generale trasformano eventi eccezionali in tragedie. Un recente post ha riferito di come la stessa incuria (o meglio un cambio di strategia causata dai santoni dell AGW) è stata in qualche modo alla base della disastrosa alluvione australiana dove la realizzazione di opere di contenimento e mitigazione degli eventi alluvionali è stata abbandonata per far fronte au un fantomantico ed inesistente AGW.Per l’Italia servirebbe un cambiamento radicale di atteggiamento e di conseguenz anche culturale che permetta di far capire che bisogna investire sul territorio nell’ottica di mitigare e ridurrre gli impatti degli eventi naturali sull’uomo, non cercando di eliminare (cosa impossibile) gli eventi o chiudendo gli occhi e facendo finta di niente ma diventando consapevoli che questi eventi sono ineluttabili e invece di combatterli bisogna imparare a conviverci. Purtroppo un problema italiano è anche il fatto che da un lato vi è un abuso del teritorio, un utilizzo scritariato delle risosrse con la sola logica del profitto immediato e dall’altro vi è un ambientalismo dogmatico e slegato dalla realtà che non prevede una coesistenza tra uomo ed ambinete ma uno sviluppo a compartimenti stagni, in cui territorio ed ambiente sono sempre e comunque incompatibili con lo sviluppo umano. Il rusultato è sotto gli occhi di tutti, i criteri ambientali spesso tropo rigidi o non realistici non venogno per niente rispettati e los viluppo avviene sotto l’esclusiva regola del denaro e del profitto. Bisognerebbe imparare da paesi civili situati a nord del nostro paese per capire che uno sviluppo rispettoso dell ambiente e concepito nel rispetto delle loghcie naturali porta benefici sia da punto di vista ecnomico che della qualità della vita.