Da non crederci, tutto il mondo è paese. Immagino che più o meno tutti abbiate avuto modo di apprendere che una delle compagini politiche del panorama italiano è in procinto di cambiare nome per questioni di marketing. Poco male, ci siamo abituati in modo tra l’altro assolutamente trasversale da un paio di decadi ormai.
Però, si dice anche che quando si decide di cambiar nome a un prodotto, può voler dire due cose: o si vuol vendere qualcosa di diverso o si vuol vendere la stessa cosa senza che chi compra se ne accorga.
Vi ricorda qualcosa? Uhm, global warming, climate change, climate disruption, niente, non funziona. Siore e siori, è giunta l’ora del climate challenge. La minaccia climatica. E ha pure i dentoni e i peli irti e setosi!
L’ormai obsoleto climate change, fanno sapere da uno studio di marketing fatto per penetrare le menti dei contadini australiani, a quanto pare tra i più recalcitranti a bersi la storiella della riduzione delle emissioni, è una locuzione che induce reazioni negative, dallo scetticismo alla sensazione di essere gli unici responsabili delle malefatte dell’uomo sul clima. Meglio, molto meglio qualcosa che sia più accettabile, più comprensibile e più motivante verso il [necessario] cambiamento e le politiche di cap&trade.
L’alzata d’ingegno è stata naturalmente pagata con i soldi dei contribuenti australiani, perché il progetto di “penetrazione” (scusate, m’è scappata) è addirittura del governo federale.
Se le notizie sulle inondazioni di questi giorni non fossero tragiche come sono, ci sarebbe veramente da sbellicarsi dalle risate. Sapete perché? Beh, un altro dei termini che nella geniale ricerca di mercato hanno consigliato è “siccità prolungata”. Questo sì che avrebbe messo veramente paura agli agricoltori. Peccato che poi abbia iniziato a piovere e non ne voglia sapere di smettere.
Mi sa che non se ne farà nulla. Provaci ancora Sam!
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