Cosa succedeva nel XIX secolo quando la concentrazione di anidride carbonica era minore dell’attuale? Cercheremo di descriverlo parzialmente in una serie di post. Avvertiamo che quello che scriveremo sotto è un “evento estremo” a scala regionale e non ha alcuna pretesa di rappresentare cosa accadeva a livello globale, a differenza di oggi che siamo assuefatti invece a prendere i fenomeni locali/regionali come dimostrazione scientifica di cosa sta accadendo a livello globale.
Partiamo dal famoso e stimato Padre Daniele Comboni (Limone sul Garda, 15 marzo 1831 – Khartum, 10 ottobre 1881) vescovo e missionario, fondò gli istituti dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù e delle Pie Madri della Nigrizia. Venerato come santo dalla Chiesa cattolica, fu canonizzato daGiovanni Paolo II il 5 ottobre 2003 e viene commemorato il 10 ottobre. Comboni esemplificò la peculiarità del suo piano missionario con il motto: « Salvare l’Africa con l’Africa ».
La sua vita fu avventurosa ed intensa, ma qui vorrei segnalare che negli anni 1878-79, insieme ai suoi missionari e missionarie, soffre nel corpo e nello spirito la tragedia di una siccità e carestia senza precedenti, che dimezzò la popolazione locale e sfinì il personale e l’attività missionaria (vedi qui) In luglio, la siccità cessò, ma lasciò il posto a piogge torrenziali, seguite da una nuova ondata di caldo, che aprì la via ad altre malattie. In settembre, Monsignor Comboni fu il solo sacerdote che rimase a Khartum, in Sudan. Le relazioni fra l’Egitto ed il Sudan divennero sempre più limitate, in modo tale che a Khartum ci si sentì abbandonati da tutti, colpito fu anche il Darfur. Colpito dalle febbri, il prelato tornò in Italia all’inizio del 1879. Particolarmente interessante è rileggere una lunga lettera al card. Luigi di Canossa del 1880 in cui Comboni scrisse “la Relazione sulla carestia e pestilenza dell’Africa Centrale nel 1878-79”, sotto ne estraggo alcuni brani descrittivi della situazione, qui, invece, il testo integrale:
“[…]E siccome la vostra carità ci fu sempre larga di conforto, di aiuto, di consiglio, e d’incoraggiamento, permettete, o Eminentissimo Principe, che io Vi consacri questo brevissimo cenno storico delle spaventose calamità della Carestia e Pestilenza, che imperversarono e colpirono sopra una vasta e smisurata estensione il Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale nel 1878-1879; al cui racconto scorgerete chiaramente, che l’Opera santissima da voi patrocinata, è veramente opera di Dio; e l’impavido vostro animo trarrà argomento per tutelare sempre più questa sublime intrapresa, alla maggior gloria di Dio, a merito della Chiesa veronese, ed a salvezza della nostra infelice, ma sempre cara Nigrizia.[…] Ora fra le opere dell’apostolato cattolico, a cui diè vita la Chiesa di Cristo, una delle più ardue e laboriose, e delle più sublimi ed importanti dell’universo è senza dubbio la nostra missione dell’Africa Centrale, che abbraccia una estensione di territorio ben più grande di tutta l’Europa, e che è popolata, secondo la statistica di Washington, da oltre cento milioni d’infedeli,sui quali non ancora brillò l’astro luminoso e vivificante della fede, e che è affidato dalla santa Sede all’umile nostro Istituto delle Missioni per la Nigrizia in Verona. Tra le furibonde tempeste da cui fin dal suo nascere fu agitata e sconvolta questa nascente Chiesa, di cui io sono, benché indegno, il primo Vescovo, spicca in peculiar modo la spaventosa calamità della Carestia e della Pestilenza, che imperversò in questi ultimi tempi, e di cui si risente ancora, e ne porta le tracce ancora scolpite, e ne sopporta le dolorose conseguenze.[…] La mancanza, o scarsezza delle piogge annuali del 1877 fu la precipua cagione della spaventosa carestia e siccità, che desolarono buona parte dell’immenso nostro Vicariato; e le regioni che restarono più gravemente colpite dal tremendo flagello, furono la Nubia Inferiore, la Nubia Superiore da Dongola al Mar Rosso, i paesi bagnati dal Fiume Azzurro e Fiume Bianco, e dal Nilo fra l’Egitto ed il Sobat, il Regno di Cordofan, le province del Darfur, le tribù di Gebel-Nuba. I Scelluk, e tutti i paesi che si stendono dal Bahar-el-Ghazal fino ai Gnàm-Gnàm, ed al Lago Alberto Nyamza. Le seminagioni e piantagioni eseguite in quelle fecondissime terre, appena spuntate si disseccarono; e le erbe, i fiori ed i prati rimasero abbruciati dai raggi solari infuocati; sicché ben presto a quei miseri abitatori mancò l’ordinario alimento; e quasi tutti gli animali per mancanza di nutrimento periron di fame.Misurate, o Eminentissimo Principe, la grandezza e vastità di tanta sciagura che colpì quelle misere genti, non meno che la nostra missione. La fame sofferta dai popoli che abitavano lungo i fiumi fu spaventosa oltremodo, e tremenda ancora fu quella che soffersero gli arabi del deserto, ai quali essendo perita gran parte di cammelli per fame, le nostre carovane che furono costrette a valicare quei deserti, costarono alla missione grandi sacrifizi ed enormi spese; poiché il prezzo del nolo dei cammelli che sopravvissero all’universale eccidio, fu quadruplicato anche perché essendo deboli e sfiniti per inedia, non portavano che un terzo od un quarto soltanto del loro carico regolare. Quindi quadruplicate erano le spese delle nostre spedizioni, finché per molto tempo essendo periti, o affranti da inedia e cammelli e cammellieri, le spedizioni cotanto necessarie per recare soccorsi alle missioni colpite dalla carestia, ci tornarono o sommamente difficili, od affatto impossibili.
Di che avvenne, che quasi tutti gli alimenti di prima necessità o venner meno, o salirono a prezzi favolosi, cioè, a dieci, a dodici, ed anche a venti volte e più, maggiori dei prezzi ordinari. Il frumento, a cagion di esempio, fu pagato dallo stesso Console Austro-Ungarico, il Signor Cavaliere Hansal, in ragione di 72 talleri all’Ardeb (sacco di circa 100 chilogrammi), mentreché dapprima si pagava solo 5 talleri. Più tardi il frumento mancò anche in Chartum, e non vi si trovava a nessun prezzo; e nel regno di Cordofan lo si sarebbe pagato anche 500 franchi all’Ardeb; ma non ve n’era punto. Il durah (o mais), che è il nutrimento principale delle popolazioni dei posse-dimenti egiziani nel Sudan, che formano un territorio cinque volte più vasto di tutta l’Italia, ed è pure l’ordinario nutrimento dei nostri orfani ed allievi d’ambo i sessi negli stabilimenti della Nubia, il durah, dicea, fu da noi pagato sui mercati di Chartum fino a 108 franchi l’Ardeb, mentre d’ordinario prima costava solo da quattro a cinque franchi; e l’I. R. Console Austro-Ungarico mi assicurò d’averlo pagato fino a tre talleri al Rub, cioè, in ragione di 336 franchi all’Ardeb.
Il Dokhon (penicillaria) specie di miglio, di cui si nutrono le popolazioni del Regno di Cordofan e dell’impero del Darfur, e che costituisce il nutrimento ordinario degli allievi, orfani, e schiavi rifugiati nei nostri tre stabilimenti del Cordofan, da circa tre talleri, suo prezzo ordinario, salì a trentasette talleri e più l’Ardeb, e nel Darfur fu pagato fino a 140 talleri l’Ardeb, cioè, a un prezzo quarantasei volte maggiore dell’ordinario. Lo stesso avvenne delle carni assai magre, flosce, e ributtanti di animali smunti dalla fame e divenuti come scheletri, il cui prezzo salì a dieci o dodici volte più caro dell’ordinario. Lo stesso e ancor peggio toccò a Gebel-Nuba, ove per di più venne meno il sale: e fu necessario di nutrirsi per molto tempo di sì meschini alimenti senz’essere conditi di sale. Da tutto questo egli è facile tirare la conseguenza, come ad una gran parte delle popolazioni africane della classe povera mancò affatto di che vivere; ed io constatai coi miei propri occhi l’estrema miseria di moltissime località, in cui interi villaggi decimati dalla fame viveano di erbe, di semi di fieno, ed anche di escrementi di cammelli e d’altri animali.
Da questo breve quadro, l’Eminenza Vostra può bene immaginare le angosce del mio spirito, ed i gravi imbarazzi in cui io mi trovai per dover alimentare e sostenere, oltre agli Istituti di Verona e del Gran Cairo, tanti stabilimenti che abbiamo fondati nel Vicariato composti di personale non solo indigeno, ma di Suore, di Missionari e Fratelli coadiutori europei, che in quel pesantissimo clima africano avean pur bisogno in mezzo agli apostolici sudori di un solido nutrimento. La Superiora delle Suore di S. Giuseppe nel Cordofan, mentre gemeva oppressa dalla febbre, le pareva rifocillarsi gustando un po’ di pane di frumento bagnato nell’acqua: si cercò dappertutto nella città di El-Obeid, e non si trovò. Finalmente un generoso negoziante israelita ne portò un poco, e la Suora ne mangiò; ma poi dovette soccombere oppressa dal suo male. Per provvedere di pane di frumento gli stabilimenti del Cordofan, il compianto D. Antonio Squaranti com-prò a caro prezzo 20 Ardeb di frumento, e fattolo macinare a Chartum cercò cammelli per trasportarlo in Cordofan. Io corsi dap-pertutto, ed impegnai i primi negozianti e lo stesso Governatore Generale del Sudan per aver cammelli.
Ci fu impossibile riuscirvi: ora mancavano i cammelli, ed ora i cammellieri, perché quasi tutti erano morti, o malati, o smunti dalla fame, o arsi dalle febbri. Il frumento rimase fermo per quattro mesi a Chartum; ed i nostri tre stabilimenti del Cordofan coi missionari e colle suore non poterono per molti mesi mai gustare pane di frumento, e dovettero, come tutti gl’indigeni del paese, cibarsi di dokhon. Sennonché tutto questo non è che un’ombra della miseria estrema, onde furono colpite queste infelici contrade. La sete, flagello assai più terribile della fame, venne a devastare quei paesi sterminati, che sono lontani dai grandi fiumi, il Nilo, il Fiume Bianco, ed il Bahar-el-Ghazal, i quali son bagnati solo dalle piogge annuali, che nel luglio, agosto e settembre ordinariamente innaffiano quei terreni. Il 1877 fu il più scarso, che la storia dell’Africa Centrale ci abbia mai ricordato. Di qui le campagne arse letteralmente dall’infuocata cani-cola, e le praterie bruciate dal sole: di qui tutte le cisterne disseccate, ed asciutti pressoché tutti i pozzi del Cordofan e del Darfur, che hanno generalmente una profondità di venti, trenta, ed anche quaranta metri e più; e tra questi rimasero asciutti i due grandi pozzi dei nostri stabilimenti della capitale del Cordofan. Io rabbrividisco nel pensare all’orrenda strage che la sete e la siccità han fatto degli animali, e delle popolazioni del Cordofan e dell’impero del Darfur. Toccherò di volo soltanto la sete di El-Obeid e di Malbes, ove noi abbiamo tre importantissimi stabilimenti di Missione.
Quantunque le nostre missioni sieno state non di rado aiutate dal nostro Procuratore Giorgi Papa, da qualche buon cattolico, fra cui l’ottimo Signor Ibrahim Debbane di Siria, e perfino da qualche musulmano che apprezzava la nostra opera, i quali portavano dell’acqua; pur tuttavia anche noi fummo costretti a comperarne a caro prezzo, con grande sconcerto delle smunte nostre finanze. Si dovette fare grande economia d’acqua per bere, e per far da mangiare. Talvolta il missionario era costretto di riserbarsi l’acqua che la mattina gli avea servito per lavarsi la faccia, affin di dissetarsi fra la giornata. Si dovea misurare severamente in piccole dosi l’acqua per lavarsi; e si venne al punto di non più lavarsi la faccia alla mattina, per riserbarla pella giornata nei momenti della gran sete. Per oltre quattro mesi non si potè fare un po’ di bucato per mancanza d’acqua. Finalmente essendo ridotta ai minimi termini l’acqua nella capitale del Cordofan, si dovè trasferire la maggior parte del perso-nale di quei due grandi stabilimenti a Malbes nella colonia agricola da noi fondata, ove rimaneva bensì ancora un po’ d’acqua, ma vi scarseggiavano talmente i viveri, che quando alla mattina si riusciva a prendere un po’ di ristoro per la colazione, non si pranzava al mezzogiorno; e quando al mezzodì si pranzava, mancava alla sera la cena.
E si noti che a procacciare sì scarso e meschino alimento, non bastarono le generose elemosine ricevute da tanti benefattori d’Europa. Non mi è possibile dipingere a parole le grandi privazioni sostenute dai missionari, dalle suore, e dal personale delle nostre missioni. I fanciulli, gli allievi e le ragazze accorrevano dai missio-nari e dalle suore a chiedere un po’ d’acqua perché bruciavano di sete; e siccome non aveasi di che appagare ai loro desideri, i poverini e le poverine piangevano, e facevano compassione alle pietre: si disputavano fraternamente, per berne un po’ ciascuno, la sucida acqua rimasta nel catino, ove talvolta il missionario e la suora s’eran potuti lavare. Vorrei dire di più… ma mi casca di mano la penna… Dio ha scritto nel libro della vita i sacrifizi e le privazioni sostenuti dai nostri missionari e dalle nostre suore in un clima sì debilitante ed infuocato.
E ciò che operavano le nostre Suore, è mirabile d’innanzi a Dio. Alle tre e mezza del mattino sovente Suor Arsenia Le Floch della Bretagna, Superiora dello stabilimento femminile con altra giovane e laboriosissima Suora, si partiva da casa con alcune borme (vaso di terra contenente dai tre ai quattro litri); e dopo fatte a piedi quattro o cinque ore di cammino, giungeva sotto un sole cocentissimo sul-l’orlo di un pozzo lontano; e dopo aver aspettato il suo turno, facendo aspra contesa con quei barbari custodi dei pozzi, e venendo talvolta alle minacce, riusciva ad avere con incredibil fatica del-l’acqua nera, fangosa, sucida, salmastra e ributtante, che essa paga-va tre, quattro ed anche cinque franchi alla borma, cioè a più caro prezzo che il vino in Italia; e poi rifacendo a grande stento il medesimo cammino le due Suore se ne ritornavano alla missione, ov’erano ansiosamente aspettate per distribuire a ciascuno piccola e misurata quantità di acqua per dissetarsi. Alle tre o tre e mezzo di sera si rifaceva sovente lo stesso cammino a piedi, e spesse volte caricando l’acqua sopra un asino smunto dalla fatica, che ad ogni istante cadeva; e si ritornava a notte avanzata, e talvolta a mezzanotte alla missione.
A qualche distanza dalla nostra colonia agricola, i Missionari e le Suore riuscirono dopo molti stenti a scavare un pozzo, che dava un po’ d’acqua sucida e fangosa, e vi posero a guardia nella notte due robusti neri catecumeni. Sennonché, la notte veniano dei ladri; assetati e colla violenza portavano via l’acqua per venderla a loro profitto. In Malbes la missione avea tre vacche, alle quali si dava un po’ a bere due volte la settimana. Ma che? Essendo esse bruciate dalla sete e macilenti oltremodo, finirono per non dare più latte: ma anche allorché davano latte, la distribuzione di esso per tutti si riduceva quasi a niente.
Dalla colonia agricola di Malbes, che mancava si può dire di tutto, fuorché di un po’ d’acqua, si dovea spesso da alcuni della Missione andare nella capitale, sia per recar acqua a’ nostri ad El-Obeid, sia per provvedere qualche cosa di prima necessità per quei di Malbes. Il viaggio è di sette ore, ed il tragitto è penosissimo; e si dovea fare sovente a piedi, o sotto un sole infuocato, o nella notte, in cui la via era infestata di ladri, di belve feroci e di iene, ed ove non di rado s’avvicinavano i leoni, che ruggivano tutto intorno, e facean tremare di spavento i passeggeri. Qui potrei citare molti spaventosissimi casi avvenuti l’anno scorso. Ne accennerò solamente uno.
Una sera, essendo in Malbes quasi tutti ammalati, o stremati di forze, e privi di ogni cosa per ristabilirsi, e di più sapendo che la missione di El-Obeid aveva estremo bisogno di acqua, una delle nostre laboriosissime Suore mossa a compassione di tanto infor-tunio, animata da un eroismo di carità, supplicò caldamente ed ottenne dalla Superiora il permesso di andare in cerca di acqua per trasportarla ad El-Obeid, ove avrebbe potuto soccorrere quegli assetati, e poi provvedere viveri e ritornare in Malbes in aiuto dei nostri, che mancavano di tutto. Essendosi recata ai pozzi, lottando animosamente con quegli africani, essa riuscì dopo molti stenti ad acquistare a caro prezzo due gherbe (grosse otri) di acqua; e caricato un cammello partì a piedi, con un moro recentemente riscattato, alla volta della capitale. Si trattava di un tragitto di sette ore difficilis-simo, e ingombrato di belve feroci e di ladri ed assassini: ma la carità trionfò di tutti gli ostacoli. Essa continuò piena di coraggio, e non senza timore, il suo cammino in mezzo al fischiar delle belve e dei cani, ed al ruggir dei leoni che la facean tremare. Percorsi ben tre quarti e più di strada, il cammello smunto dalla fame e stremato di forze cadde stramazzone per terra.
La Suora ed il moro tentarono ogni mezzo con vigorose frustate e corbacciate, (1) perché il cammello si levasse e continuasse il suo cammino; ma ogni sforzo tornò inutile. Che fare in simile frangen-te?… Rimaner là tutta la notte, era esporsi ad esser divorati dalle fie-re od assaliti dai ladri; lasciar là solo il moro, e la Suora andar sola ad El-Obeid, era esporre il moro ad essere rubato colle due otri di acqua, ed esporre se stessa a grave pericolo; ed essa avea grande paura.
Per un quarto d’ora rimase la suora perplessa e tremante; ma poi riflettendo agli estremi bisogni dei nostri di Malbes e di El-Obeid, confidando in quel Dio dell’amore che consola gli afflitti, ed in quella Vergine Immacolata che è il rifugio dei poveri, decise di lasciare il moro alla custodia dell’acqua, ed essa si mise sola in cammino per cercare soccorso. Era la notte tenebrosa, e rischiarata soltanto dal debole raggio di luna di tre o quattro giorni. Dopo qualche tempo ode il furibondo abbaiar dei cani, che le additano l’esistenza di un villaggio. Si ferma intimorita, perché l’avvicinarsi al villaggio è mettersi al pericolo di essere divorata dai cani, che sono pericolosi in quelle parti, benché provvidenziali. Ma d’altro lato scorge la necessità di chiamare soccorso. Laonde con quanta voce che avea, si mise a gridare verso quel villaggio circondato dai cani: Ja Nas taŠlu! Ja Nas taŠlu! O Genti venite! o Genti venite. Dopo pochi minuti ella vede comparire due robusti e pelosi Baggara (arabi custodi delle mandre) i quali accorsi a quelle grida strazianti esclamarono: “come mai signora, vi trovate qui di notte sola, con pericolo di essere divorata dalle belve, od essere rubata o assas-sinata?…” e con somma premura, alle preghiere della Suora, l’accompagnarono al luogo, ove avea lasciato l’acqua, e vi trovarono il cammello accosciato, ed il moro che lo custodiva; e dopo replicate e vigorose sferzate spingendolo colle nerborute lor braccia, riuscirono a rialzare il cammello. Né contenti di ciò, quei buoni africani accompagnarono e suora e moro e cammello fino ad El-Obeid, ove giunsero a mezzanotte più morti che vivi.
Non Le dirò nulla, o Eminenza Reverendissima, della pena dai missionari sofferta per non aver potuto aver vino, per celebrare ogni giorno la Santa Messa, ineffabile conforto delle anime tribolate. Del vino si scarseggiò per modo, che non ne restò che poco, sufficiente soltanto per celebrare il divin Sacrificio nelle domeniche e feste. Ma finito il vino pella Santa messa nella capitale del Cordofan, fui costretto a mandarne in piccole boccette per la posta da Chartum, per poter celebrare Messa alle Feste. Del resto, né i missionari, né le Suore ebbero vino per bere; ma bevettero quasi sempre acqua sudicia, salmastra, e ributtante.[…] E questa loro abnegazione risalta ancor più al riflesso, che essi medesimi erano afflitti sovente da febbri, e ciò in un clima infocato, ove erano tormentati altresì dai morsi delle zanzare e di altri insetti, che li martoriavano notte e giorno. Insomma erano tutti sotto il peso dolcissimo della croce, privi affatto d’ogni umano conforto; ma pieni di forza, di coraggio e di speranza nella stessa Croce di Gesù Cristo, che è il contrassegno infallibile dell’opera del Signore. […]
Verso al tramontar del mese di luglio del 1878 cominciò ad in-gombrarsi il cielo di fitte nubi; e lampi e tuoni e fulmini minacciavano di distruggere quelle terre desolate. Ben presto dirotte piog-ge caddero a torrenti dal cielo; e furono sì copiose ed abbondanti per ben due mesi, che a memoria dei più canuti indigeni del paese mai si videro le eguali. Di qui crebbero a tanta altezza i due grandi bracci del Nilo, cioè, il Fiume Bianco ed il Fiume Azzurro, che salirono al di sopra del livello del terreno, e minacciavano d’inondare, colla stessa capitale dei possedimenti egiziani nel Sudan, il nostro grandioso stabilimento di Chartum; quindi mentreché la numerosa guarnigione di alcune migliaia di soldati, guidata dagli ingegneri militari innalzava attorno a tutta la città fortissimi argini, per arrestare il corso delle acque ed impedirne l’inondazione, noi con gravissimo dispendio a mezzo di grossi legni e centinaia di altissimi dattolieri tagliati nel nostro giardino, abbiam costruito solidissimi argini in faccia della missione sulle sponde del Fiume Azzurro; sicché dopo ben tre settimane di continuo lavoro, la città e la missione rimasero al sicuro, e la fragorosa corrente non riuscì a recar danni considerabili. Crollarono bensì centinaia e migliaia di case; ma i nostri sta-bilimenti rimasero intatti; e le dighe o barriere, ed argini costrutti serviranno per molt’anni a preservar la missione dalle future inon-dazioni.
Allora i cultori dei campi ed i fellàh colle poche semenze che poterono conservare nel precedente anno calamitoso, si diedero a seminare grano, durah, sesame, erbaggi, e tutto ciò che avevano; i contadini, benché stremati di forze, impresero a coltivare tutti quei terreni disseccati, che la pienezza delle piogge avea rammolliti; la ter-ra si fecondò, e in brevissimo tempo, innaffiata dalle acque tor-renziali che cadevano dal cielo, produsse tal copia di messe d’ogni specie, che mai si vide negli anni addietro l’eguale. Tutti credevano che coi nuovi raccolti la spaventosa carestia dovesse cessare, e l’abbondanza delle derrate imminenti avesse a fare scomparire perfino le tracce della tremenda miseria fino a quei giorni sofferta.
Ma non fu così. Durante ancora il diluviar delle piogge, a centinaia ed a migliaia crollavano le case e le capanne dei poveri indigeni, perché fabbricate di terra cotta al sole, o di paglia o di canne fragilissime; ed i poveri abitanti si trovarono improvvisamente sul lastrico, esposti notte e giorno a cielo scoperto, sia che diluviasser le piogge a torrenti, sia che risplendesse il sole co’ suoi dardi infuocati; sicché gl’infelici esposti a tutte queste intemperie furono colpiti da furioso nembo di violentissime febbri di sì maligna natura, che in breve tempo quei paesi per una sterminata estensione furono se-minati di cadaveri d’ogni sesso ed età; ed i pochi superstiti divenuti cadaveri ambulanti, s’aggiravano per le vie e pei deserti pallidi e consunti chiedendo soccorso. Il terrore e lo spavento si diffusero per ogni dove; e la tremenda ed imperversante epidemia si sparse nelle città, nei grossi villaggi e nelle campagne con tale impeto ed in-tensità, che gran parte di quelle regioni si tramutò in breve tempo in un vasto cimitero.
Noi siamo testimoni oculari della strage, che menò quella tre-menda epidemia nei paesi bagnati dal Fiume Bianco ed Azzurro, e dal Nilo. In un’ora, in mezz’ora, in dieci minuti vedemmo colpiti da morte individui, che pria godevano florida salute. Anche parecchi nostri cattolici cadevano quasi improvvisamente fulminati da codesto inesplicabile malore, che si manifestava con sintomi di febbre ner-vosa, talora tifoidea, talor petecchiale; ed appena ci restava il tempo di amministrare l’Estrema Unzione e l’Assoluzione in articulo mortis. In parecchie città, borgate e villaggi, gran numero di abitanti e famiglie intere, che aveano sofferto la fame nel precedente anno, dopo essersi nutriti delle primizie dell’abbondante raccolta, cadevano morti presso le novelle derrate ammonticchiate nelle capanne o nei cortili delle loro abitazioni: e persone degne di fede, che ritornavano a Chartum da lunghe peregrinazioni nei paesi del Fiume Azzurro e del Fiume Bianco, mi assicuravano d’aver trovato città e villaggi quasi spopolati, e le case, le vie pubbliche, e le campagne ingombre di cadaveri putrefatti, distesi accanto alle biade, al durah, al fru-mento, ed al sesame che avevano raccolto, e che per la loro micidiale esalazione, l’epidemia s’era sparsa sopra vasti territori mietendo vittime dappertutto.
Io stesso colle nostre cinque Suore dell’Istituto delle Pie Madri della Nigrizia che andai a prendere a Berber, per condurle in Chartum sopra un vapore messo a mia disposizione da Sua Ec-cellenza Gordon Pascià Governatore Generale dei possedimenti egiziani del Sudan, visitai città e villaggi situati fra Berber e Char-tum, che altre volte avea veduti popolatissimi e provveduti abbon-dantemente di viveri e d’ogni cosa, e li trovai pressoché spopolati e deserti; ed i rarissimi abitatori sopravvissuti alla morte erano sì smunti e macilenti, da parer piuttosto cadaveri ambulanti, che si nutrivano di semenze, di fieno, di erba, di nabak, e di escrementi di cammello, senza aver più forza per seminare e lavorare le circostanti campagne, il cui terreno feracissimo non coltivato avea già prodotto fieni e piante ed erbe selvatiche di una rigogliosa, non più veduta, e stupenda vegetazione. Le capanne e le case erano pressoché distrutte; i bestiami d’ogni genere quasi totalmente scomparsi; la maestosa città di Scendi, antica capitale dei re della Nubia, ed il vastissimo paese di Temaniat, quasi spopolati e distrutti, ecc. ecc. Noi distribuimmo qua e là grano ed elemosine; e non è a dire quanto quegli infelici si mostrarono a noi grati e riconoscenti.
E’ inutile, o Eminentissimo Principe, che Vi esponga più minuti ragguagli sul quadro desolante della spaventosa carestia e mortalità di questa parte importantissima del nostro Vicariato. Mi ci vor-rebbero parecchi volumi. Basta che Vi accenni di volo come in compendio questi quattro punti, della cui verità ed esattezza io assu-mo tutta la responsabilità; e la mia esposizione moderatissima è ancora al di sotto della sua tremenda realtà.
- Una gran parte delle abbondanti derrate di grani, frumenti, sesame,, ecc. ed una buona quantità di durah, che quei feracissimi terreni hanno prodotto in seguito alle piogge straordinarie che abbiamo accennate, non hanno potuto esser raccolte dalle campagne, per mancanza di braccia dei coloni e coltivatori, che, o morirono, o rimasero impotenti al lavoro; per cui colla nuova raccolta perdura ancora, benché in minori proporzioni, la carestia in quei paesi. Parecchi grandi proprietari del Fiume Azzurro si rivolsero al Governo, perché mandasse uomini e soldati a raccogliere sì ab-bondanti granaglie e produzioni, ed offerendogli in compenso la metà e più dei prodotti. Ma il Governo, benché immiserito per non aver potuto in quell’anno riscuotere nemmeno un quarto delle im-poste fondiarie e personali, benché non avesse potuto pagare gl’impiegati, e le truppe militari di servizio (per cui moltissimi furono costretti a rubare e devastare, per procacciarsi da vivere), pure dovette rifiutare offerta sì generosa per mancanza di braccia, e per le luttuose conseguenze della fame e pestilenza, che decimarono sopra una vasta scala il personale dell’amministrazione e delle milizie.
- In una parte del nostro Vicariato più vasta di tutta l’Italia, partendo da Chartum per tutte le direzioni, pella Carestia e Pestilenza morì la metà dell’intera popolazione d’ambo i sessi, e più della metà degli animali.
- In parecchie altre località del Vicariato perirono tre quarti di popolazione e di animali.
- In parecchi villaggi e vaste località al sud-est di Chartum, come più volte mi ripetè il farmacista del governo, Signor Fahmi, che fu per molto tempo medico condotto della Missione cattolica, ed abi-lissimo per curare il tifo e le febbri dominanti nel Sudan, e secondo l’asserzione a me fatta da molti testimoni oculari, morì non solo tutta intera la popolazione d’ambo i sessi, ma perirono tutti i bestiami, i cammelli, gli animali, e perfino i cani, che sono la guardia provvidenziale di pubblica sicurezza in quelle infelici contrade.[…]
Verso la fine di settembre al declinar delle piogge, cocentissime febbri che degeneravano in tifoidee, morbi fierissimi d’indole mici-diale, e malori d’ogni sorta colpirono quasi tutti i membri della mis-sione; e maligno vaiuolo e tifo petecchiale estinse la vita di molti. Tutte le Suore di Chartum caddero gravemente inferme; e la stessa laboriosissima infaticabile Suor Saverina di Normandia, che da ben tre anni nel micidialissimo clima di Chartum non avea mai sofferto ombra di malattia, fu colpita da fierissima febbre che la condusse sull’orlo del sepolcro. Quasi tutte le allieve ed orfane dell’Istituto femminile caddero inferme, e molte di esse ebbero a soccombere sotto la falce della morte. Tutti i sacerdoti, meno un solo, con tutti i fratelli coadiutori europei, e quasi tutti i membri dello stabilimento maschile furono bersagliati da interminabili cocentissime febbri e fierissimi morbi, e molti giunsero agli estremi.
D. Policarpo Genoud colpito da fulmineo pestilenziale tifo, in meno di venti minuti esalò l’estremo sospiro; e Suor Enrichetta francese fiore di angelici costumi e vera eroina di carità, nell’aprile degli anni, fu consumata da fierissimo tifo petecchiale, ultima delle nove Suore della benemerita Congregazione di San Giuseppe dell’Apparizione, che vittime di carità fecondarono dei loro sudori, e sacrificarono la vita per la redenzione dell’infelice Nigrizia: e sei piissimi e bravi fratelli coadiutori europei, tra i quali l’ottimo Fer-dinando Bassanetti della Diocesi di Piacenza, ed Antonio Iseppi di Verona, l’un dopo l’altro in pochi giorni soccombettero; e tredici dei nostri migliori allievi indigeni d’ambo i sessi, ben formati ed istruiti nella nostra santissima religione e nelle arti e mestieri, morirono; ed in breve tempo i grandiosi stabilimenti di Chartum si tramutarono in altrettante infermerie, che finirono ben presto per divenire un vasto ospedale.[…]
Nei mesi infuocati di giugno e luglio fu soprappreso dalla debolezza e stanchezza onde sono affranti in quella stagione tutti gli europei, specialmente nel primo anno del loro soggiorno in Chartum; ma al comparir delle piogge tropicali cominciava a ristabilirsi nelle forze primitive. Sennonché sopraggiunto il nuovo Kharif, e dirotte piogge pre-cipitando sulla terra già arsa ed infocata dal sole e dalla tremenda siccità dell’anno precedente, m’accorsi ben chiaro che andavamo incontro ad una stagione micidialissima e feconda di terribili conse-guenze e fiere calamità. Quindi è che, per salvare sì importante sog-getto dai colpi di perniciose malattie a cui temeva che andasse in-contro, essendo la prima volta che respirava quell’aere, ed essendo già alquanto indebolito dai faticosi viaggi compiuti, proclive come era ad affezioni gastro-enteriche che lo obbligavano ad essere assai parco e sobrio, escogitai di fargli mutar aria, e di mandarlo fuor di pericolo a Berber, incaricandolo di visitare quella stazione, ove già si trovavano da ben sei mesi le prime cinque Suore dell’Istituto verone-se che egli, coadiuvato da savia superiora, avea formato allo spirito ed alla vita apostolica dell’Africa Centrale. […]
Le nazioni civili d’Europa e d’America, ed in peculiar modo l’Episcopato ed i generosi e ferventi cattolici della Francia, del-l’impero Austro-Ungarico, della Germania, dell’Italia, dell’In-ghilterra, del Belgio ecc. si scossero poderosamente all’annunzio del terribile flagello della fame e della carestia che da alcuni anni aveano colpito parecchie vastissime province della Cina, delle Indie Orien-tali, della Mongolia, dell’Africa, e d’altre missioni della terra; e com-prese dalla più squisita carità e dalla più tenera compassione verso tanti infelici, andarono a gara per soccorrere efficacemente i desolati fratelli. Noi tutti Vescovi e Vicarii Apostolici delle Missioni Estere nelle parti degli infedeli, serberemo eterna riconoscenza verso il venerando Episcopato cattolico ed i generosi benefattori d’Europa, che ci prodigarono tanti soccorsi; e dalle nostre missioni salirà per loro quotidianamente al cielo e squarcerà le nubi l’odoroso incenso delle fervorose preghiere dei nostri cari figliuoli rigenerati dal salutare lavacro del santo Battesimo. Sì, i nostri neofiti pregheran sempre pei nostri magnanimi benefattori.
Sennonché, senza nulla togliere a quel desolantissimo quadro della fame e delle calamità che imperversarono nelle suddette remote contrade, e che ci vennero esattamente descritte dai venerabili nostri confratelli Pastori di quelle importanti Missioni, ed anco dai Consoli, e rappresentanti delle nazioni civili d’Europa accreditati presso quei governi stranieri, io non esito punto ad emettere il mio subordinato parere, ed ardisco pronunciare, dopo maturo e ponderato esame, la seguente gravissima asserzione, che, cioè:
la carestia e la pestilenza dell’Africa Centrale sono state ben più terribili e spaventose di quelle della Cina, delle Indie, e di tutte le altre Missioni apostoliche dell’universo.
Eccone i principali motivi:
I. Nelle Indie e nella Cina accanto alla fame ed alla carestia v’ha generalmente un clima mite e sopportabile, che in parecchie di quelle province è più salubre che in Europa. Inoltre, colà si respira gene-ralmente un’aria esilarante e pura, e vi si beve acqua limpida, sapo-rita e fresca. La mitezza del clima, la purezza e freschezza dell’aria e dell’acqua sono un delizioso ristoro, ed una grande risorsa pei pove-ri affamati. Al contrario nella maggior parte dei paesi dell’Africa Centrale accanto alla fame ed alla più desolante penuria vi è un clima pesante ed insopportabile, vi dominano calori eccessivi e soffocanti anche nell’interno delle abitazioni, e dei tuguri, ove si può riparare all’om-bra. Negli interminabili deserti poi, ove il missionario non ha riparo alcuno, né vi ha striscia di ombra, mentre viaggia sotto i dardi co-centi della canicola dalle 11 antim. alle 4 pom., senza trovar che arida sabbia e cielo di fuoco sotto quaranta, cinquanta ed anche sessanta gradi di calore, è vano cercar sollievo, e torna affatto impossibile trovar alcuna delle suaccennate risorse, che ristorano il povero affamato dell’India e della Cina. Di più, nelle immense regioni lontane dai grandi fiumi, come nel Cordofan, nel Darfur, a Gebel Nuba, o nelle tribù interne dei negri, al flagello della fame venne associato quello ancor più terribile della sete, ove l’acqua sucida, fangosa, salmastra, e ributtante attinta da pozzi della profondità di trenta e quaranta metri, si pagò talvolta più cara che il vino in Italia: e vi furono dei giorni, in cui tornò im-possibile ottenerne a nessun prezzo, perché totalmente mancò. Chi potrà misurare il mio cordoglio, e la grandezza di tante privazioni!
Né è da passar sotto silenzio il non meno grave caso della mancanza del sale per condire le vivande, che noi talvolta abbiamo sperimentato. Si ponderino tutte queste critiche circostanze, che nell’Africa interna aggravano la condizione degli affamati; e brillerà fulgidissima la verità di questo primo punto della suaccennata mia asserzione, che caratterizza e fa risaltare la gravità delle sciagure della fame e della carestia dell’Africa Centrale ben più tremende e spaven-tose di quelle delle altre missioni del mondo.
II. Non mi toccò mai di leggere o di sentire nella storia e nei ragguagli della carestia delle Indie, della Cina, e delle altre parti della terra, che gli articoli di prima necessità sieno mancati ai missionari, alle suore, ed ai fratelli coadiutori venuti d’Europa in quelle parti; o se pur ve n’aveano, abbian costato prezzi esorbitanti e favolosi, fino dieci volte, venti volte, e trenta volte più cari dell’ordinario, come accennai in questo racconto. Ora tutto questo avvenne nell’Africa Centrale. I nostri missionari, le nostre suore, i nostri fratelli coadiu-tori veronesi nel Cordofan e a Gebel-Nuba, come pure alcuni ne-gozianti e impiegati nel Darfur, nel Fiume Bianco, nel Bahar-el-Ghazal, mancarono affatto di pane; e per lungo tempo furono costretti con non poca nausea e ripugnanza a cibarsi di dokhon, che è una specie di miglio chiamato in botanica col nome di penicillaria, e che fu pagato nel Darfur fino a 140 talleri Megidi all’Ardeb, cioè, 636 franchi in oro, mentre il suo prezzo ordinario era prima circa 3 talleri Megidi all’Ardeb, pari a poco men che 15 franchi in oro, cioè, a un prezzo, quarantasei volte più caro dell’ordinario. Oh! quale angoscia provò il mio cuore, veggendomi nell’assoluta impossibilità di riparare a sì dure calamità! Quanto mi afflisse il pensiero della estrema penuria del Cordofan, che privò la generosa Suor Arsenia Le Floch Superiora di El-Obeid del modesto conforto di un po’ di pane di frumento bagnato nell’acqua, mentre gemeva sul letto di morte, e si affrettava di spiccare il suo volo al paradiso! Le priva-zioni poi, e la penuria della maggior parte dei poveri indigeni sor-passano ogni calcolo e misura; e certo nessun paese al mondo è sì misero come una gran parte della Nigrizia.
III. Non mi avvenne pur mai di sentire e di leggere nei periodici e negli annali delle missioni delle Indie, della Cina, e delle altre parti del mondo, che la fame, la sete, e la pestilenza abbiano come conse-guenza prodotto quella terribile e spaventosa mortalità, che ho re-gistrata in questa succinta relazione, giusta la quale in alcuni consi-derevoli tratti del Sudan è rimasta vittima della morte gran parte di quelle misere popolazioni; ed in alcune località non molto distanti dalla capitale dei possedimenti egiziani nella Nigrizia, morirono la metà, tre quarti, ed anco tutti gli abitanti, e perirono la metà, tre quarti, ed anco tutti gli animali, e perfino i cani, che sono dotati di una fibra sì forte, che possiedono tanta vitalità, e che costituiscono generalmente in que’ paesi la guardia provvidenziale di pubblica sicurezza contro i masnadieri, gli assassini, e le belve feroci.
IV. Nelle Indie e nella Cina l’industria è molto avanzata, la cultura e la civiltà sono antichissime; e per tacere d’ogni altro argomento, le grandi Esposizioni Universali e mondiali, che da oltre cinque lustri abbiamo ammirato a Londra, a Parigi, a Filadelfia, ed a Vienna, ci porsero una sublime idea dei grandi progressi dell’industria e della coltura di codesti imperi dell’Estremo Oriente. In fatto poi di mec-canica e di costruzioni indiane e cinesi, si può dire, sotto un certo aspetto, che in qualche cosa gareggino coll’Europa incivilita. Colà a fianco della fame e della carestia, oltre alla mitezza del clima, ed alla salubrità e freschezza dell’aria e dell’acqua, si edificano comode case ed ingegnose abitazioni, ove ripararsi dalle intemperie delle stagioni, dalle dirotte piogge, e dai dardi infuocati del sole.
Non è così delle lande inospitali e delle remote contrade della Nigrizia, ove è pressoché sconosciuta l’industria umana, e la coltura e civiltà sono ancora bambine; anzi può dirsi con tutta verità, che quei paesi sono ancor primitivi, e molti di essi stanno più addietro in fatto di coltura e civiltà che non lo sieno stati i tempi dei nostri primi Padri Adamo ed Eva dopo la loro caduta…
In tutto il Vicariato dell’Africa Centrale, ad eccezione della città di Chartum, la quale dopo la fondazione della Missione cattolica pos-siede alcune case costruite di pietre e di mattoni cotti, ad esempio dello stabilimento della missione e della nostra residenza che fu il primo ad erigersi all’europea, in tutta l’Africa Centrale, dicea, non vi è alcuna casa di pietra o di mattoni cotti alla foggia europea: ma le poche case dei grandi e doviziosi sono costruite di sabbia, o di fango, o terra cotta al sole, ma così fragili, che hanno brevissima du-rata, e cadono e si sciolgono da sé dopo pochissime stagioni di piogge dirotte nel Kharif. Queste, dissi, appartengono alle famiglie privilegiate ed opulenti delle principali città, ove ha sede un Pascià, od un Governatore di Provincia.
Ma la maggior parte delle abitazioni dell’Africa Centrale apparte-nenti alla classe media sono costruite di paglia, o di fango; ed una gran parte della popolazione povera, od ha appena alcune rozze capanne ove rifugiarsi la notte o nel tempo del kharif (piogge an-nuali), oppure si accovaccia nelle caverne o sotto gli alberi; e moltis-simi poi mancano anche di queste, e son costretti a vivere sotto la volta del cielo, senza avere alcun rifugio per ripararsi dai calori di fuoco, o dalle piogge annuali; al che si dee pure aggiungere la gravissima circostanza, che quasi tutti gli africani* dell’Africa interna dormono sempre sulla nuda terra, ad eccezione dei capi o degli agiati, che si coricano sopra una pelle di vacca, o di tigre o d’altri animali; ed in gran parte sono totalmente ignudi senza vestimento di sorta, e tali sempre rimangono, sia sotto i dardi infuocati del sole, sia nella notte talvolta rigida e fredda, sia sotto il fischio de’ venti impetuosi, sia nelle stagioni umide e piovose, che spesso cagionano micidialissime febbri, e funeste malattie.
Ma non solamente la classe povera è senza rifugio in quelle remote contrade; ma ancor quelle più agiate nel tempo del kharif: poiché al cadere delle dirotte piogge annuali molte case di sarmenti, di paglia, di sabbia, e di fango o terra cotta al sole, cadono a terra distrutte, e si squagliano come lo zucchero od il cioccolatto allorché sono imbevute dall’acqua; sì che la più gran parte della popolazione dell’Africa Centrale viene in tal guisa a rimaner priva di asilo ove ricoverarsi nell’epoca delle piogge, e rimane così esposta a tutte le intemperie, al freddo nella notte, al caldo nel giorno, di guisa che un gran numero di codesti infelici cadono ammalati, e contraggono fieri contagi, e mettono fine ad una misera vita con una morte ancor più misera e sventurata.
Misurate, o Eminentissimo Principe, la grandezza delle sciagure di tante infelicissime popolazioni africane colpite dalla fame, dalla sete, dal caldo, dal freddo, esposte a tutte le intemperie di sì svariate e perigliose stagioni, senza asilo, né riparo, e soggette a tante e sì peri-gliose malattie. Paragonate tutte queste misere condizioni e circo-stanze con quelle ben più miti e vantaggiose dei popoli dell’India e dell’Estremo Oriente; e vi brillerà luminosa la verità della mia suac-cennata asserzione, che la carestia e pestilenza dell’Africa Centrale sono state ben più terribili e spaventose di quelle dell’India, della Cina, della Mongolia, e di tutte le altre missioni apostoliche dell’uni-verso.
V. Finalmente l’errore funesto e perniciosissimo del fatalismo della setta dell’islamismo, l’ignoranza estrema e l’abitual condizione infelicissima dei poveri negri gementi sotto il ferreo giogo della più crudele ed orribile schiavitù, aggrava eccessivamente la misera con-dizione degli affamati dell’Africa Centrale su quelli delle Indie, della Cina, e delle altre missioni della terra. Il fatalismo islamitico, e l’estrema ignoranza dei poveri negri abbrutiti sotto il peso della schia-vitù, è una delle precipue cagioni, per cui l’affamato stesso non bada punto alla sua sciagura, alle sue miserie, alla sua fame, alla sua sete, alle sue privazioni, alle sue malattie, ed ai pericoli della sua vita; e meno ancora vi fa attenzione la società dei suoi fratelli africani dominati dalla superstizione del fatalismo, in mezzo ai quali vive. Il maomettano affamato, che non possiede o non trova più di che satollarsi e campare la vita (e molto più il negro schiavo così istituito dal suo padrone), convinto come egli è dalla fiera legge del fata-lismo, secondo la quale egli deve subire il suo destino voluto da Dio, cioè, che egli deve assolutamente morire, avendolo Iddio a ciò de-stinato, egli, senza punto scuotersi o sconcertarsi, né fare strepito alcuno, né muover lamento, rassegnato pienamente alla sua sorte si sta tranquillo e sereno, senza pigliarsi cura di nulla, e senza fare ogni sforzo e adoperarsi per apporvi rimedio, ed allontanare da sé quella tremenda sciagura; e sovente, sempre in preda al suo fatalismo, si colloca sulla porta, od a fianco della sua abitazione, o dietro ad una capanna, o sotto un’albero; ed ivi impassibile ed a sangue freddo aspetta imperturbato la morte, esclamando col suo profeta: Allah kerim, cioè: Dio è degno di onore!
Pel medesimo principio e pello stesso motivo, la sua famiglia, i suoi fratelli, la sua patria davanti ad una sciagura che reputano stabilita e destinata da Dio in forza dello stesso fatalismo, non si commuove, né fa strepito alcuno, né s’adopera gran fatto di rimuo-ver lontano un tale infortunio; e perciò avviene non di rado che in una stessa città, in un medesimo villaggio succedono gravi infortuni senza che il pubblico se ne avvegga, o se ne dia per inteso, o si sforzi di allontanarli od apporvi rimedio. Ma nell’India, nella Cina, e nelle altre missioni del mondo, le popolazioni in generale sono più socievoli, colte, civili, industriose. L’affamato, e chi vien colto da qualche sventura si scuote, s’ingegna, s’adopera, e pone ogni studio per allontanarla da sé. A lui si associa la famiglia, i parenti, gli amici, i cittadini; il sentimento di umanità e filantropia si accende, prevale, e l’infelice ritrae sollievo dai propri conati, e dall’altrui concorso.
Perciò è di gran lunga migliore e più sopportabile la condizione degli affamati e degli sventurati in quei vasti regni ed imperi.
Di più, quei governi, che sotto un certo aspetto ponno dirsi rego-lari, perché mantengono relazioni diplomatiche con le grandi Potenze d’Europa e d’America, hanno fatto immensi sacrifizi per venire in soccorso dei loro affamati. Perfino i principi e principesse indiane, e i mandarini della Cina prodigarono generosi soccorsi pei medesimi, e soprattutto il governo della Regina d’Inghilterra ed Imperatrice delle Indie venne in loro aiuto con ingenti elemosine; e si scossero e s’adoperarono energicamente in loro pro anche i ministri plenipo-tenziari, i consoli ed i rappresentanti delle nazioni incivilite accreditati presso quei governi.
Ma nell’Africa Centrale i governi locali non si curarono punto delle sciagure e calamità dei popoli soggetti. Tutto il loro pensiero in generale è di smungere il sangue dei sudditi, e di cavar colle gabelle e colle imposte quanto più vien lor fatto, anche con ogni genere di violenza. E il solo personaggio dotato di nobili sensi, pieno di buona volontà, e capace di concorrere efficacemente a sollievo di tanta calamità, avrebbe potuto essere l’Eccellentissimo Gordon Pascià go-vernatore generale dei possedimenti egiziani nel Sudan. Ma egli era assente nell’epoca, in cui maggiormente infieriva il flagello della fame e della carestia. E quando ritornò al suo posto in Chartum, egli si trovò nell’assoluta impossibilità di disporre all’uopo di potenti soccorsi, perché non avendo potuto in quell’anno riscuotere in varie di quelle province le molteplici imposte ond’erano aggravate, man-cava financo del denaro e dei fondi necessari per mantenere l’eser-cito, e le diverse amministrazione di quei vasti e remoti posse-dimenti. Anzi in mezzo a tanta penuria fu costretto a licenziare gran parte de’ suoi impiegati, e ad assottigliare di molto le file dell’armata egiziana indigena, per non poter pagarne gli stipendi. Dal che ne avvenne, che molti dei licenziati e non pagati si diedero al latrocinio ed alla violenza, sotto pretesto di poter campare la vita, e non perire di fame.
Finalmente nelle Indie, nella Cina, nella Mongolia, ed in altre mis-sioni, non sì tosto apparve l’orribile flagello della carestia, i Vescovi e Vicari Apostolici ed i missionari hanno alzata la lor voce piena di autorità, che risuonò all’orecchio dei generosi benefattori dell’Eu-ropa; e mercé la divina bontà han potuto ricevere abbondanti soc-corsi. Invece nell’Africa Centrale io fui il solo ed unico Vescovo e Vicario Apostolico; e quindi io solo ho potuto troppo tardi alzar la voce, al momento in cui tutti i pensieri e gli spiriti erano assorbiti dagli affamati dell’India, e tutti gli sguardi eran rivolti alla Cina, alla Mongolia, ed alle altre desolate missioni del globo.
Ma la mia voce era debole e sola; il mio grido di sventura risuonò troppo tardi. E quantunque molti ed opportuni soccorsi di generosi e piisimi benefattori sieno venuti a raddolcire le angustie del mio animo, ed a sollevare estreme e grandi miserie, tuttavia non riusci-rono a far fronte ai più urgenti bisogni. Però la misericordia divina, mercé l’esimia carità dei benefattori, sostenne ancora in piedi le ardue ed importanti missioni del Vicariato, ed ha salvato molte anime riparando ad estreme necessità. I missionari, le suore, i fratelli coadiutori, ed il personale della missione hanno sostenuto a piè fer-mo, e sopportato con invitta costanza, coraggio, e rassegnazione le più grandi privazioni e sacrifizi. Abbiamo sofferto moltissimo; e ne siamo lieti e contenti, perché il Signore si è degnato di farci partecipi della sua passione, e ci aiutò poderosamente a portare la sua croce divina simbolo di risurrezione e di vita.[…]
Tale è l’umile mio subordinato parere sulla carestia e pestilenza dell’Africa Centrale 1878-1879, che furono più spaventose e tre-mende di quelle dell’Indie, della Cina, della Mongolia, e di tutte le altre Missioni apostoliche dell’universo.[…]”
Quasi contemporaneamente in Cina negli anni 1877-78 ci fu una devastante carestia causata dalla siccità nella parte settentrionale del paese, fu una vera catastrofe. La provincia di Shanxi letteralmente si spopolò a causa della mancanza di granaglie e la popolazione disperata utilizzò campi, foreste, addirittura le loro stesse case come fonte di nutrimento. Si calcola che morirono tra i nove e i tredici milioni di persone. All’epoca non c’erano le dirette TV a raccontarlo e neanche i satelliti meteorologici a riprendere la situazione dall’alto, invece rimane immutato lo scandalo della povertà estrema in quelle zone nonostante una gran parte del globo è sempre più ricca ed obesa.
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