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Non abbiamo capito niente…o forse sì?

Lo ammetto, sugli sviluppi di questa faccenda del rapporto IAC, ovvero delle conseguenze della sua pubblicazione, comincio ad avere parecchi dubbi. Uno su tutti: ma il presidente del Panel Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici che fa? Va o resta? Non è dato saperlo, le notizie rimbalzano come palline tra le agenzie e i quotidiani. L’ultima di ieri l’altro dava per certe le dimissioni, addirittura da fonti ginevrine. La prima di ieri ci regala invece un Pachauri più che mai combattivo e sicuro di sè, che ha rilasciato un’intervista al Times Of India dai contenuti illuminanti circa il ruolo del panel per come la sua leadership e le Nazioni Unite stesse lo intendono.

Pachauri ha una risposta semplice, e forse poco conosciuta, sullo scopo dell’IPCC:

“[…] siamo una organizzazione intergovernativa, e la forza e accettabilità di quanto produciamo derivano in larga misura dal fatto che siamo posseduti dai governi. Se così non fosse, saremmo come tutte le altre organizzazioni scientifiche che fanno lavori di alta qualità dei quali però non si sa nulla perché non sono rilevanti a fini di policy […] è dunque ovvio che i governi ci indichino la strada da seguire, le domande alle quali esigono risposte. Sfortunatamente, la gente ha completamente ignorato la risoluzione con la quale il panel è stato creato. In questa è scritto chiaramente che noi dovremmo suggerire delle realistiche strategie di risposta. Se questa non è policy, allora cos’è? E, mi dispiace, noi siamo stati dal mio punto di vista, prudenti nel fornire un intero spettro di possibilità, e non sto dicendo che diciamo di seguire la policy A, B o C, ma basandoci sulla scienza, cerchiamo delle realistiche strategie di risposta […]”

[…] we are an intergovernmental body and our strength and acceptability of what we produce is largely because we are owned by governments. If that was not the case, then we would be like any other scientific body that maybe producing first-rate reports but don’t see the light of the day because they don’t matter in policy-making. Now clearly, if it’s an inter-governmental body and we want governments’ ownership of what we produce, obviously they will give us guidance of what direction to follow, what are the questions they want answered. Unfortunately, people have completely missed the original resolution by which IPCC was set up. It clearly says that our assessment should include realistic response strategies. If that is not an assessment of policies, then what does it represent? And I am afraid, we have been, in my view, defensive in coming out with a whole range of policies and I am not saying we prescribe policy A or B or C but on the basis of science, we are looking at realistic response strategies […].”

Quindi nel panel ci si trova anche chi fa politica, potrebbe darsi si tratti della maggioranza o dei soli vertici, o di altro ancora, ma la cosa non deve meravigliare visto che è scritto nella risoluzione ONU che nell’88 ha sancito la nascita del panel.

Quindi lo scopo è al primo punto della risoluzione “The state of knowledge of the science of climate and climatic Change” (in realtà il “climatic change” sembra dimenticato già a partire dal nome del Panel), ma sembra prendere il sopravvento il compito tutto politico di proporre e sostenere con tutti i mezzi una strategia di risposta, forse ricorrendo anche a selezioni delle ricerche scientifiche con procedure che andrebbero migliorate.

Un’immediata obiezione allora nasce spontanea partendo dalla frase di Pachauri: “realistic response strategy”. Essendo palese che quella della riduzione delle emissioni facendo ricorso massiccio alle immature risorse rinnovabili, è un’opzione non realistica, come lo è l’idea che i paesi in via di sviluppo o sottosviluppati possano svilupparsi attualmente senza impiegare le uniche fonti di energia che oggi potrebbero consentirlo (quelle fossili), non è il caso di rispettare i compiti e passare a “risposte” realistiche o almeno meno utopistiche? Attendiamo suggerimenti a breve, magari prima che la prossima costosa e affollata riunione di Cancun si riveli l’ennesimo fallimento (come già previsto), proponendo impegni insostenibili in un’epoca di sviluppo interessato a diventar sostenuto prima di sostenibile. Chissà se cambiare strategia eviterà di cambiare il presidente del Panel Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici?

NB: per chi volesse approfondire circa la “nascita” dell’IPCC.

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Published inAttualità

4 Comments

  1. Agostino

    Se l’obiettivo è quello di evitare che l’incremento della temperatura media superficiale del Pianeta superi i 2°C rispetto all’era preindustriale, come affermato a Copenhagen, alcuni climatologi ci dicono che occorrerebbe non solo “stabilizzare”, ma cominciare a “ridurre” le emissioni di gas-serra regolarmente del 3% all’anno a cominciare dal 2015.

    Se non si vuole comprimere drasticamente le prospettive di miglioramento della qualità della vita anche nei paesi in via di sviluppo, sarebbe allora necessario aggiungere ogni anno una produzione di energia, fornita da fonti che non emettono carbonio, pari al 2%, per l’incremento del tenore di vita, più il suddetto 3%, cioè il 5% che, per una potenza utilizzata nel mondo di 15 TW (terawatt) al 2015, equivale a 750 GW (gigawatt) (cioè, ad es., 500 impianti nucleari da 1600 MWe, oppure 750.000 torri eoliche da 5 MW di picco e con fattore di carico del 20%): è evidente che l’enorme fabbisogno economico e le immense difficoltà logistiche e manifatturiere per l’attivazione di simili opzioni energetiche le renderebbero praticamente irrealizzabili nei tempi richiesti.

    Da queste preoccupanti conclusioni appare chiara l’”utopia” che sta alla base delle speranze dei climatologi (e dei politici da essi indotti ad iniziative come il convegno di Copenhagen dello scorso anno). L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) nel Synthesis Report del 4° Rapporto del Novembre 2007 affermava infatti:

    “There is high agreement and much evidence that all stabilisation levels assessed can be achieved by deployment of a portfolio of technologies that are either currently available or expected to be commercialised in coming decades, assuming appropriate and effective incentives are in place for development, acquisition, deployment and diffusion of technologies and addressing related barriers.” (IPCC, 2007d).

    (“Sussiste un largo consenso ed una alta evidenza che tutti i livelli di stabilizzazione considerati possono essere conseguiti mediante l’utilizzo di un portafoglio di tecnologie che sono attualmente disponibili, o che si prevede siano commercializzate nei prossimi decenni, supponendo che appropriati ed efficaci incentivi siano posti in essere per lo sviluppo, l’acquisizione, l’utilizzo e la diffusione delle tecnologie ed il superamento delle relative barriere”).

    Appare evidente che queste affermazioni non tengono correttamente in conto gli ordini di grandezza degli investimenti ed i tempi richiesti dalle necessarie realizzazioni logistiche ed industriali, né le conseguenti implicazioni socio-politiche. I cambiamenti delle infrastrutture energetiche, infatti, dovranno essere tali non tanto dal punto di vista tecnologico, quanto dal punto di vista della loro accettazione e realizzazione su grande scala industriale in tutto il mondo.

    La storia dell’energia ci dice che le nuove fonti penetrano nel mercato secondo classiche curve logistiche, che risentono poco di guerre e crisi economiche, e che presentano una “costante di tempo” (tempo impiegato da una data fonte per passare dal 10% al 90% della sua penetrazione massima) dell’ordine degli ottanta anni. Questa lunga “inerzia”, inerente alla evoluzione delle grandi infrastrutture energetiche, è una conseguenza dei lunghi tempi richiesti dall’iter decisionale e dalla costruzione degli impianti, e della sempre crescente “vita utile” prevista per gli impianti di nuova progettazione (anche 70 anni, per i nuovi impianti nucleari di III generazione!).

    Non volendo ipotizzare catastrofi mondiali, né ritenendo possibile che decisioni autoritarie riducano drasticamente e per decenni il livello economico e sociale raggiunto da molti paesi, anche di nuova industrializzazione, appare inevitabile che per molti decenni le fonti fossili saranno ancora preponderanti nella produzione di energia. L’unica opzione efficace a breve termine ed a costi accettabili per far fronte alla crisi climatica appare in pratica soltanto la sostituzione su larga scala del gas naturale agli altri combustibili fossili (tenuto conto anche della recente possibilità di sfruttare enormi nuovi giacimenti in strati di materiale scistoso e filoni carboniferi). Dovrebbe essere invece immediatamente bloccata la costruzione di nuove centrali a carbone, per sostituirle, insieme alle vecchie a fine vita, con centrali a gas ad alto rendimento. Così nei trasporti dovrebbero essere promossi i veicoli a metano, anche per il trasporto merci (la Fiat è pioniera in questo settore, e, tramite la Chrysler, potrebbe diffondere e breve questa tecnologia anche negli Stati Uniti).

    In ogni caso, per molti anni le emissioni di gas-serra continueranno a crescere, ed allora sarà indispensabile ed urgente migliorare sistematicamente le nostre conoscenze sulla dinamica del clima, e cominciare a prendere in seria considerazione l’opportunità di procedere allo studio ed alla sperimentazione di tutti i mezzi in grado di contrastare direttamente gli effetti dell’Uomo su quella dinamica.

    • E’ un percorso ragionevole Prof. Mathis, ma credo ci siano due problemi principali nella sua implementazione.
      1. L’eliminazione del carbone non piacerebbe a parecchi, soprattutto alla Cina ma anche in Europa se ne fa un largo uso e un larghissimo mercato.
      2. La crisi climatica non esiste. Ci sono molti problemi ambientali e moltissimi problemi sociali nel mondo che andrebbero affrontati almeno con un pizzico dell’entusiasmo con cui si vorrebbero affrontare quelli climatici.
      gg

  2. Guido Botteri

    da:
    http://wattsupwiththat.com/2010/09/04/we-talk-about-politics-because-the-science-is-uncertain/
    Si può essere concordare o dissentire da quel che ha scritto Thomas Fuller, ma anche se la sua impostazione non mi trova d’accordo, salverei un paio di frasi, anche alla luce di quanto ha dichiarato Pachauri.

    [ We are not really at the point where only scientists can say intelligent things about climate change. ]
    (non siamo davvero al punto in cui solo gli scienziati possano dire cose intelligenti sui cambiamenti climatici )
    E anche chi scienziato non è… ne ha il pieno diritto, visto che la politica ha preso possesso della scienza, e con esso leggi che condizionano e vogliono condizionare il nostro modo e il nostro livello di vita.
    Quando si entra così prepotentemente nella sfera dei nostri interessi non si può zittire la gente colla scusa della scienza, visto che appunto si tratta di politica e di economia, e non di sola (discutibile) scienza.

    [ We really do not know the sensitivity of the atmosphere to a doubling of CO2 concentrations. ]
    (non conosciamo davvero la sensibilità dell’atmosfera ad un raddoppio delle concentrazioni di CO2)
    quindi, mancano le tanto sbandierate certezze scientifiche. Se andiamo a fondo si scoprono molti angoli oscuri, non conosciuti, o non sufficientemente conosciuti, e quindi non si capisce la sbandierata certezza, che sembra attinente più alla politica, che alla scienza vera e propria.

    [ So, despite their protestations, climate scientists at this point have about as much ‘clout’ in deciding what we should do as anybody else. ]
    (così, malgrado le loro proteste, gli scienziati climatici a questo punto hanno circa lo stesso diritto di chiunque altro di decidere cosa dovremmo fare)
    Avendo invaso campi non scientifici (la politica e l’economia) non possono poi pretendere di detenere il diritto di decidere per tutti.
    Secondo me.

  3. Guido Botteri

    Direi che questo sia un punto fondamentale:
    [ in un’epoca di sviluppo interessato a diventar sostenuto prima di sostenibile. ]
    Viene “sostenuto”, a mio parere, ciò che NON è economicamente “sostenibile”.
    Non credo infatti che sia sostenibile un sistema in cui si sostengano soluzioni che, per lo meno al momento, e in un medio futuro, non appaiono capaci di garantire quel progresso che, solo, può prometterci di sfamare la crescente popolazione, ed anzi sono spesso volte ad un regresso, come se l’aumento di popolazione fosse solo dovuto al maggiore consumo (e produzione) di risorse.
    Producendo meno risorse, la popolazione davvero diminuirebbe ? …o semplicemente avremmo persone più affamate ?
    O sotto sotto (e per qualcuno non tanto sotto) si spera di indurre una diminuzione di popolazione ? Con quali modalità ? Chi dovrebbe “mettersi da parte” ?
    C’è una differenza concettuale che molti non hanno ancora compreso, tra risorse disponibili, e risorse potenziali.
    Quanto petrolio c’è ? Quanto è disponibile ? Quel petrolio che, per estrarlo, richiede un costo maggiore (tale da non renderlo conveniente) non viene estratto, e quindi non è “disponibile”, ma è “potenzialmente” estraibile, nel momento in cui la dinamica dei costi lo rendesse conveniente.
    Quanto cibo può essere prodotto, quanto ne viene prodotto ?
    Quando esistono dei campi destinati ad altro uso (per esempio a produrre biocarburanti), quando esistono tecniche e mezzi di produzione non sfruttati da tutti (non tutti usano gli aratri di ultima generazione, e tutte le nuovissime tecniche per aumentare la produzione) e la tecnologia può produrre tecniche e mezzi, in futuro, ancora più efficienti,
    allora la potenzialità di produzione di cibo non è certamente pari all’attuale disponibilità !
    Quando l’aumento di qualche grado di temperatura rendesse praticabili dall’agricoltura vastissimi territori (in Canada, Alaska, Siberia, Scandinavia) che attualmente sono impedite dal rigore del clima, la quantità di cibo non potrebbe che aumentare, contrariamente a quanto ci vogliono far credere, e basta dare un’occhiata a qualsiasi mappamondo per rendersi conto di quale immensa estensione di terre verrebbe recuperata.
    Del resto l’esempio dell’Egitto è massimamente esplicativo. L’Egitto infatti è nella sua quasi totalità un deserto, ad eccezione principalmente della valle del Nilo dove la densità di popolazione è altissima.
    Non è dunque la temperatura a impedire la vita, ma la mancanza d’acqua. Irrigate il deserto, come hanno fatto altrove, e sorgeranno giardini e serre (eh eh) dove ora non c’è vita.
    Tutto questo per dire che l’IPCC sta portando avanti una politica (come ci conferma il suo presidente).
    Ma questa politica è profondamente, drammaticamente sbagliata.
    Se fosse un’organizzazione scientifica, e facesse scienza, allora si potrebbe fare un discorso scientifico, e non sarebbe concepibile l’uso di termini come “negazionista” e di frasi come “the debate is over”, perché la scienza non ha bisogno di dogmi, ed anzi il dubbio è un grosso stimolo all’approfondimento ed a un successivo maggiore sviluppo.
    Ma, se vediamo tutta questa questione, secondo quanto ci suggerisce Pachauri, come politica, allora l’opposizione degli scettici è ancora più giusta e giustificata, perché solo nelle dittature non si possono contestare le politiche che non si condividono !
    E non è forse un caso che qualche ambientalista abbia chiesto la “sospensione” della democrazia.
    La scienza è trasversale, un’equazione non ha soluzioni diverse a secondo del colore politico di chi la calcola, ma la politica è un campo diverso. E se Pachauri difende il suo diritto di far politica, si aspetti che chi non condivida la sua politica voglia che se ne vada.
    Secondo me.

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