Da quando abbiamo iniziato l’avventura di CM, è capitato più volte di far notare come per descrivere le dinamiche del clima sia possibile e probabilmente anche più proficuo, seguire un approccio di tipo fenomenologico che tenga conto di tutte le variabili di un sistema così complesso, anche quelle il cui comportamento non è attualmente spiegabile con rigore scientifico.
Dalle ipotesi suggestive e quasi filosofiche di Earl Happ, alla visione olistica di Adriano Mazzarella, agli studi fenomenologici di Nicola Scafetta, tutte ricerche con il comune denominatore di voler guardare il sistema nella sua interezza. Forse pretendere di uscire così tout court dal seminato, contraddicendo piuttosto decisamente quanto sembra più o meno condiviso dalla componente maggioritaria della comunità scientifica potrà sembrare presuntuoso, ma è un fatto che, per usare una terminologia cara al mainstream, determinate evidenze non possono essere trascurate.
Negli ultimi anni, la percezione della pubblica opinione sui fatti del clima è stata portata decisamente fuori strada. Si sono paventati rischi di catastrofe climatica imminente accompagnata, o meglio, generata da temperature insopportabilmente alte, tanto che adesso, ogni volta che arriva l’estate si rinnovano scene di panico mediatico, isteria climatica e psicosi da clima bollente. Allo stesso modo, ogni volta che d’inverno fa freddo -e per inciso ultimamente ne ha fatto parecchio- si sollevano voci contrarie, anch’esse accompagnate da altrettanto ingiustificate psicosi.
Il primo passo per sgomberare il campo da qualsiasi genere di condizionamento dovrebbe essere il bando degli aggettivi “caldo” e “freddo” da qualsiasi discussione in materia di clima. Sono parole ormai troppo inflazionate e non danno alcun contributo alla comprensione delle dinamiche del sistema. Già, perché se il clima africano è certamente caldo e quello siberiano è sicuramente freddo, a livello globale il clima non è mai né l’una né l’altra cosa. E’ molto più corretto ed esaustivo parlare di “regimi climatici”, ovvero di concomitanza di dinamiche particolari che contribuiscono tutte insieme in modo sia ciclico che stocastico e su scale spaziali e temporali di varia ampiezza, a formare le caratteristiche di un regime piuttosto che di un altro.
Come non è giusto pensare che durante l’Optimum Climatico Medioevale si potesse girare costantemente in costume da bagno, è altrettanto errato ritenere che durante la Piccola Era Glaciale ci fossero condizioni perennemente proibitive. Però, i regimi climatici differivano appunto nel favorire nel primo caso una maggiore frequenza di condizioni favorevoli e nel secondo caso esattamente il contrario. Ma forse stiamo parlando di scale temporali ancora troppo ampie. L’alternanza, o meglio, il susseguirsi di regimi climatici differenti, di spostamenti da uno stato di relativo equilibrio ad un altro, è provata anche a scale temporali molto più piccole, tanto piccole da essere paragonabili ai tempi più recenti, cioè, per esempio, alle ultime decadi del secolo scorso.
E che il clima di questo pianeta sia soggetto a regimi non c’è alcun dubbio. Il problema resta capire quali sono, quando avvengono e come cambiano.
Appena qualche giorno fa ho scoperto l’esistenza di un algoritmo (scaricabile qui) generato appositamente per identificare delle brusche variazioni nelle serie temporali. Possono essere temperature osservate o dati proxy, dati sociologici o finanziari, qualunque cosa, purché ordinata secondo una logica temporale ed omogenea.
Con riferimento al clima può essere utile impiegare questa tecnica per individuare delle discontinuità nelle osservazioni di una stazione, per esempio, ma può anche essere molto utile applicarla alle serie delle temperature di superficie degli oceani, la cui variabilità multidecadale, caratterizzata da shift molto significativi è ormai un fatto accertato. C’è ad esempio una vasta letteratura scientifica sul cambiamento di regime occorso nel 1976, un episodio pilotato proprio dalle SST dell’Oceano Pacifico, ma altri ve ne sono stati nel passato recente, come ad esempio alla fine del secolo scorso.
L’andamento della PDO è in ottimo accordo con le temperature medie superficiali globali, per cui mettendo in correlazione questi cambiamenti di regime con l’attività solare, e qui torniamo ad immaginare il sistema nella sua interezza, si scopre che tutti i cambiamenti di regime individuati nelle serie delle SST del pacifico sono avvenuti all’inizio di un ciclo solare. Ma c’è di più. Quelli avvenuti all’inizio di cicli solari dispari hanno condotto verso regimi di “riscaldamento”, mentre quelli avvenuti in concomitanza di cicli solari pari, non hanno prodotto alcun riscaldamento o hanno prodotto un debole raffreddamento.
Ora, dopo un inizio decisamente ritardato e tutt’ora molto stentato, il ciclo colare 24 sta lentamente prendendo corpo, pur se con caratteristiche decisamente minimali rispetto a quello che lo ha preceduto e rispetto a tutte le previsioni. Quello che sta per aprirsi, potrebbe dunque essere un altro shift nel regime climatico del pianeta, e se quanto osservato non è sbagliato, non è detto che sia un regime di riscaldamento.
NB: Leggi di più qui, su WUWT.
La variazione di polarità dell’attività solare tra i cicli a numerazione pari e a numerazione dispari influenza influenza la quantità e anche la qualità intesa come modalità di penetrazione nell’eliosfera dei raggi cosmici ( come potete vedere da questo articolo di .Kane, R.P :2006a. A detailed comparison of cosmic ray gaps with solar Genevyshev gaps. Solar Physics 236, 207 e di .Kudela, K., Rybak, J., Antalova, A., Storini, M., 2002. Time evolution of low-frequency periodicities in cosmic ray intensity. Solar Physics 205, 165 ) Forse, ulteriosi mstudi basati su questi riscontri provenienti da fonti diverse potranno aggiungere un’altra tessera al puzzle che tutti noi cerchiamo di comporre.
Perdonate gli errori di digitazione….