Se esiste un settore con il quale è più difficile confrontarsi di quello della scienza del clima, questo è quello della divulgazione. Da sempre, ma direi soprattutto negli ultimi anni, gli uomini di scienza si sono trovati di fronte al problema di dover necessariamente semplificare gli argomenti del loro settore di applicazione per renderli comprensibili ai non addetti ai lavori.
In molti, fossero essi scienziati, semplici divulgatori o entrambe le cose, si sono cimentati nel tentativo di definire i limiti di questa irrinunciabile trasformazione cui la scienza deve essere soggetta, per essere ad esempio fruibile per i decisori politici, ma anche per la gente comune, dal cui convincimento, o se preferite coinvolgimento, deriva direttamente il consenso e quindi il favore dei decisori e quindi le risorse per proseguire il proprio lavoro.
La scienza dunque va divulgata, questo è fuor di dubbio. Ma cosa accade se quest’opera di divulgazione oltrepassa il confine della semplificazione ed entra nel territorio della propaganda, magari omettendo le incertezze ed amplificando i successi? Qualcosa di semplice ma terribile allo stesso tempo: la percezione del problema -ammesso che tale sia, come ad esempio con riferimento ai cambiamenti climatici- si discosta dalla realtà del livello di comprensione scientifica. La pubblica opinione si convince di qualcosa che in realtà convincente non è, sente di dover aumentare il proprio livello di coinvolgimento, e il sostegno a chi propugna queste pseudo-certezze aumenta a dismisura, tanto che poi, ovviamente, risulta difficile rinunciarvi. Meglio dunque far quadrato, rinforzare le proprie posizioni e respingere ogni tentativo di fare chiarezza.
E’ successo questo alla scienza del clima? Forse sì. Alcuni mesi fa, per esempio, il climategate sembrava aver messo in luce tra le altre cose proprio questa specie di deriva. Ma come accertarlo? Le varie indagini svolte nell’immediatezza della divulgazione delle mail e dei dati provenienti dai server della East Anglia – l’ambiente universitario di punta nella ricerca sul clima- non hanno chiarito il problema. Da un lato, l’attivismo e l’entusiasmo della blogosfera, cioè l’ambito in cui il climategate si è principalmente consumato, poco o nulla hanno potuto di fronte all’effettiva impossibilità di disporre delle informazioni necessarie a capire. Molti sospetti sì, ma al di là di un mero giudizio di scarsa etica della scienza, non è uscito molto altro. Dall’altro le commissioni d’inchiesta ufficiali, una interna e informale e l’altra esterna e più strutturata, hanno nell’ordine prodotto un report molto superficiale nel primo caso, e almeno sin qui poco più che segnalazioni di lavori in corso nel secondo, essenzialmente perché in realtà nessuna delle due può realmente dirsi indipendente, ovvero libera di approfondire serenamente.
La soluzione può venire quindi solo dal metodo scientifico e sembra l’abbia trovata il prof. Johston, Direttore del programma di Legge, Ambiente ed Economia presso l’università della Pennsylvania, eseguendo un’analisi comparativa tra quanto divulgato dalle organizzazioni scientifiche che si occupano di clima -tra tutte l’IPCC- o da scienziati che si sono distinti per il loro attivismo come ad esempio James Hansen della NASA, e quanto prodotto dalla letteratura scientifica sottoposta al processo di revisione paritaria. Ne emerge un quadro di sistematico ricorso ad artifici retorici per minimizzare quelle che sembrano essere incertezze scientifiche fondamentali o addirittura elementi di disaccordo. In pratica, quello che viene definito in questo studio “l’establishment climatico”, sembra non abbia seguito propriamente il metodo scientifico, quanto piuttosto “abbia prodotto soprattutto uno sforzo per schierare delle evidenze a sostegno di una predeterminata scelta di policy“.
E’ un lavoro molto complesso ed articolato il cui abstract recita così:
La cultura legislativa è giunta ad accettare come veri i vari pronunciamenti del Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) e di altri scienziati attivisti del movimento a favore della riduzione delle emissioni di gas serra (ghg) per contrastare il riscaldamento globale. L’unico atteggiamento critico che l’ambiente legislativo ha avuto circa la storia raccontata da questo gruppo di scienziati attivisti – che potrebbe essere definito l’establishment climatico – è di essere troppo conservativa nel non porre sufficiente attenzione al possibile impatto catastrofico di un potenziale eccessivo aumento delle temperature.
Questo studio si discosta da questa fede nell’establishment climatico paragonando l’immagine della scienza del clima dipinta dal Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico e da altri scienziati a sostegno del riscaldamento globale con la letteratura scientifica prodotta sul cambiamento climatico. Un esame di questa letteratura rivela una tendenza sistematica dell’establishment climatico a prodursi in una varietà di tecniche retoriche che sembrano far risaltare quanto è ad oggi noto sul cambiamento climatico nascondendo al contempo delle fondamentali incertezze e delle problematiche ancora aperte riguardanti i processi chiave delle dinamiche del cambiamento climatico.
Tra le problematiche fondamentali aperte si trovano non solo l’ampiezza, ma anche il segno dei feedback responsabili delle dimensioni dell’aumento di temperatura che è previsto che scaturisca dall’aumento della concentrazione atmosferica di gas serra: mentre i modelli climatici presumono tutti che questi effetti siano fortemente positivi, più e più pubblicazioni scientifiche sembrano suggerire che gli effetti dei feedback potrebbero essere piccoli o anche negativi. L’esame comparativo condotto in questo studio rivela molti altri ambiti in cui la letteratura scientifica sembra entrare in conflitto con l’immagine dipinta dall’establishment climatico, le dimensioni dell’aumento delle temperature di superficie del XX° secolo e la loro relazione con le temperature del passato; la possibilità che una variabilità interna del non lineare sistema climatico, piuttosto che l’aumento della CO2, possa spiegare l’aumento delle temperature del tardo XX° secolo; la capacità dei modelli climatici di riprodurre fedelmente le temperature del passato: e, infine, il dubbio sostanziale circa la validità metodologica dei modelli impiegati per fare delle previsioni largamente pubblicizzate di impatto del riscaldamento globale, quali ad esempio la perdita si specie viventi.
Sin qui, l’establishment climatico, mentre ha sorvolato e minimizzato su alcune problematiche e incertezze fondamentali della scienza del clima, ha nel frattempo generato una diffusa errata percezione che ha gravi conseguenze per la definizione di una policy ottimale. Tale errata percezione tende a supportare l’opzione di un rapido e costoso processo di decarbonizzazione dell’economia americana, nonché ad indirizzare il lavoro anche dei più rigorosi addetti del settore legislativo. Una visione più equilibrata e sfumata dello stato dell’arte della conoscenza scientifica sostiene delle policy molto più graduali e facilmente reversibili circa la riduzione delle emissioni di gas serra, e chiarisce anche l’esigenza di spostare il finanziamento pubblico della scienza del clima dal continuo sostegno alla realizzazione di modelli di simulazione verso un aumento degli sforzi per sviluppare dataset di osservazioni standardizzati con i quali queste simulazioni possano essere testate.
E’ un lavoro intrigante, che racchiude concettualmente quello che in mille modi diversi abbiamo ripetuto all’infinito anche su queste pagine. Eccesso di sicumera, omissione delle incertezze, scarso livello di comprensione scientifica di alcuni aspetti fondamentali, simulazioni concettualmente lacunose, osservazioni disomogenee e scarsamente affidabili. C’è praticamente tutto quello che chi non è incline a sostenere la teoria dell’AGWT vorrebbe che fosse oggetto di dibattito. Sono circa novanta pagine, le trovate qui se volete. Ci vediamo alla fine.
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