Qualche giorno fa Andrew Montford (Bishop Hill) ha rilanciato un interessante articolo di Eduardo Porter, giornalista del New York Times. Porter fa sostanzialmente due conti, andando a calcolare quale dovrebbe essere il costo della tonnellata di CO2 in relazione ai disastri paventati qualora gli scenari di riscaldamento prospettati dai modelli climatici dovessero avverarsi, per far sì che l’investimento nella mitigazione di questi disastri si riveli redditizio.
Salta fuori un costo esorbitante, superiore alle quotazioni attuali della CO2 che vengono dal mondo reale, di oltre un ordine di grandezza e molto superiore anche le più rosee (e mai verificatesi) prospettive delle proiezioni su cui si è basato lo sviluppo del mercato di scambio dei crediti di emissione. Si pone dunque un problema di ordine ideologico: assumendo che le origini delle dinamiche del clima più recenti siano antropiche e assumendo anche che si possa riparare il danno, che genere di ritorno in termini di danni evitati dovrebbe avere l’investimento nella mitigazione? Gli intendimenti sono andati sin qui nella direzione del ‘costi quel che costi’ ottenendo davvero poco, il mercato, cioè il mondo reale, pretende invece che l’investimento sia redditizio in modo soddisfacente. Leggiamo:
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