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Tag: CO2

Non tutti i mali vengono per nuocere

Il titolo di questo post avrebbe anche potuto essere “Caldo è bello”, ma qualcuno avrebbe potuto pensare che avessi preso un colpo di sole. Anche perché è fresco di stampa un paper su Environmental Research Letters in cui lasciando andare a briglia sciolta i soliti modelli climatici e i soliti scenari di emissione si prospettano ondate di calore di intensità eccedenti da 3 a 5 volte oltre la normale variabilità delle temperature per le decadi a venire (qui su Science Daily per il riassunto). Ma non è questo l’argomento di oggi o, meglio, non lo è direttamente.

 

Prendendo spunto anche dall’ultimo editoriale di Giovanni Sartori uscito sul Corriere della Sera, pezzo che abbiamo sommariamente commentato appena qualche giorno fa, oggi parliamo di risorse idriche e dell’impatto che su queste potrebbero avere potenzialmente la crescita demografica, le emissioni di CO2 e i cambiamenti climatici. Per certi aspetti, anche su questi argomenti siamo freschi di commento, avendo recentemente parlato di uno studio secondo il quale la diminuzione di massa dei ghiacciai dei due principali bacini dell’Himalaya e l’aumento delle precipitazioni che si prospettano sulla stessa area in ragione dei cambiamenti climatici dovrebbero elidersi a vicenda rislutando in una disponibilità idrica pressoché invariata per le popolazioni di quell’area.

 

Ma, per quel che abbiamo letto in quello studio, il fattore popolazione, ovvero l’aumento della stessa, non era tra le variabili esaminate, né lo era l’effetto diretto dell’accrescimento della CO2 sull’uso che le piante fanno delle risorse idriche. Questo differente punto di vista è invece l’oggetto di un altro studio ancora, redatto a cura di ricercatori dello UK met Office, in cui si cerca appunto di prendere in esame tutti i fattori in gioco. Naturalmente, anche in questo caso, si parla di diritti esclusivi delle tecniche di simulazione delle dinamiche del clima, per cui, pinze alla mano per non scottarsi, cerchiamo di capire di che si tratta.

 

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Temperature oloceniche, CO2 e dintorni

Questo breve post si basa su quattro diagrammi. Il primo è tratto dal lavoro di Marcott et al. (2013) già commentato tempo fa su CM. In tale lavoro una ricostruzione termica condotta a partire dai dati di 73 proxy ci propone una lettura del trend delle temperature globali improntata al progressivo deterioramento (alias “global cooling”) che sarebbe avvenuto a partire da circa 5.000 anni orsono e cioè dalla fine del grande optimum climatico postglaciale (GOCP), fase calda in cui il mare era più alto di 2-3 m rispetto ad oggi ed i ghiacciai alpini erano secondo alcuni totalmente scomparsi.

 

Fig_1
Figura 1 – La ricostruzione della temperature globali oloceniche proposta da Marcott et al. (2013). Si coglie il deterioramento in atto dalla fine del grande optimum postoglaciale alla fine della Piccola era glaciale.

 

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CO2 e Temperature, la causalità di Granger non funziona

Forse qualcuno ricorderà che ormai più di un anno fa, precisamente nel febbraio 2012, abbiamo pubblicato un post di commento ad un lavoro di ricercatori italiani in cui veniva applicato il principio di causalità di Granger alle serie storiche della concentrazione di anidride carbonica e delle temperature medie superficiali globali.

 

Il nostro post, pur essendo di fatto un mirror, aveva suscitato una lunga discussione in cui sono intervenuti anche gli autori dello studio. I toni, dapprima piuttosto accesi e non propriamente costruttivi, si sono poi rilassati e hanno condotto ad un proficuo approfondimento. Il tema centrale della discussione, ha poi finito per essere quello dell’applicabilità della tecnica statistica del principio di Granger per tramutare la correlazione esistente tra le serie in un rapporto di causalità.

 

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Insensibilità climatica

Se a qualcuno fosse sfuggito, per quanto vi si voglia girare intorno, per quanto lo si possa arricchire con scenari catastrofici e risibili analogie con un clima attuale tutt’altro che disfatto, il tema del riscaldamento globale, mutato successivamente in cambiamenti climatici per latitanza del riscaldamento e poi in disfacimento climatico per comodità di comunicazione, è riassumibile in un unico problema: quanto si può scaldare il Pianeta in ragione dell’accresciuta concentrazione di gas serra (specie CO2) in atmosfera?

 

I più scaltri avranno già capito, anche oggi parliamo di sensibilità climatica, appunto il parametro che dovrebbe rappresentare quel “quanto”. Torniamo a farlo perché questo tema, in realtà molto tecnico, sta conoscendo una discreta diffusione anche sui sistemi di comunicazione generalisti specie nell’ultimo periodo, grazie all’eccellente pagina pubblicata sull’Economist un paio di settimane fa. In soldoni, più passa il tempo, più aumentano le conoscenze in questo settore. Questo potrà forse far sentire sollevati quanti pensano che si stia camminando sull’orlo del baratro climatico, perché questo miglioramento del livello di comprensione scientifica il baratro lo sta allontanando, nel senso che, man mano, l’aumento di temperatura “atteso” in ragione di un raddoppio della concentrazione di CO2 rispetto ai livelli pre-industriali, si sta riducendo. Infatti, ci si sta avvicinando sempre di più al limite inferiore delle stime comprese tra 1,5 e 4°C dell’ultimo report IPCC (con valore più probabile di 3°C).

 

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Milancovich addio?

L’8 marzo 2013 è uscito un comunicato stampa del CNR con l’annuncio di un articolo pubblicato su Science e redatto da un gruppo di ricerca europeo comprendente scienziati dell’Istituto per la dinamica dei processi ambientali del Consiglio nazionale delle ricerche (Idpa-Cnr) di Venezia (Parrenin et al., 2013). Il comunicato stampa aveva l’emblematico titolo “CO2 causa dell’ultima deglaciazione”, il quale  parrebbe a prima vista avvalorare l’idea che la teoria di Milutin Milancovich (1879-1958) sulla causa astronomica delle glaciazioni quaternarie sia ormai obsoleta, vittima dell’onnipotente CO2.

 

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Uhm…due gradi in più sono comunque meglio di niente…

I lettori più assidui di questo blog ricorderanno che qualche giorno fa abbiamo commentato l’apparizione nella blogosfera climatica della bozza di secondo ordine del futuro 5° Report IPCC. Un documento interessante, oltre che per il suo valore intrinseco, anche per quello che si potrebbe definire un accenno di cambiamento di rotta rispetto alle monolitiche convinzioni che hanno accompagnato nel recente passato il lavoro del Panel.

 

Ad oggi, tuttavia, non è dato sapere se questo cambiamento riguarderà anche uno degli argomenti più centrali in ordine al dibattito sul clima, ovvero la sensibilità climatica, cioè la stima dell’aumento delle temperature medie superficiali che sarebbe lecito attendersi per un raddoppio della concentrazione di CO2 rispetto all’era pre-industriale.

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Relazione temporale tra CO2 e temperatura

Su CM è apparso recentemente un post a firma Luigi Mariani che descrive l’interessante articolo di Humlum et al., 2012:

The phase relation between atmospheric carbon dioxide and global temperature su Global and Planetary Change, 100, 51-69, 2013 (qui abstract e figure).

Nell’articolo si mostra che, almeno per il periodo considerato, gennaio 1980- dicembre 2011, i picchi dell’anidride carbonica sono successivi ai picchi della temperatura e che questo avviene per diversi set di dati (GISS, HadCrut3, HadSST2, NCDC). Con i dati di CO2 antropogenica del CDIAC e con le eruzioni vulcaniche del set GWP gli autori trovano una minore correlazione (o meglio co-variazione) ma è sempre presente la crescita della CO2 che segue la crescita dei valori delle temperature.

L’analisi viene fatta introducendo una grandezza (DIFF12) che risente poco delle fluttuazioni locali dei dati e che si configura come una differenza tra la media mobile a 12 mesi dell’ultimo mese meno la media mobile a 12 mesi relativa al mese precedente. Il calcolo di DIFF12 viene preceduto da una media mobile a 12 mesi dei dati della CO2 globale per eliminarne l’influenza stagionale. Per chiari motivi di uniformità le stesse operazioni vengono applicate ai dati con cui si confrontano i valori della CO2.

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Relazione fra CO2 atmosferica e temperature globali. Un lavoro di Humlum analizza le ciclicità poliennali di breve periodo

di Luigi Mariani

Il professor Humlum è un geografo dell’università di Oslo che si occupa da tempo di climatologia ed è noto al pubblico degli appassionati come gestore del sito www.climate4you.com. Ora Humlum, con due colleghi, ha pubblicato sulla rivista scientifica Global and planetary change un articolo in cui analizza la variabilità dei livelli di CO2 atmosferica nel periodo 1981-2011 ponendola in relazione con le temperature globali con lo scopo di indagare in modo empirico le relazioni di causa-effetto esistenti (Humlum et al., 2012).

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Sarà, naturalmente, peggio del previsto

E’ uscito su Science un nuovo articolo firmato da John Fasullo e Kevin Trenberth:

A Less Cloudy Future: The Role of Subtropical Subsidence in Climate Sensitivity

Sui media lo troviamo come sempre in una forma un po’ diversa, con Science Daily che riprende pari pari il comunicato stampa dell’NCAR: Future Warming Likely to Be On High Side of Climate Projections, Analysis Finds

Come spesso accade, tanto nel comunicato stampa quanto nelle successive riproduzioni dei media, si cerca di mettere in risalto le parti più ad effetto dello studio in questione, anche se queste nello stesso sono piuttosto marginali. Questo è ovviamente fisiologico, anche se qualche volta ci piacerebbe che non accadesse. Vediamo di cosa si tratta.

Allo stato attuale della conoscenza, con riferimento alle proizioni climatiche, l’elemento di maggiore incertezza è rappresentato dall’impossibilità di quantificare con precisione la sensibilità climatica, che per definizione identifica la risposta del sistema climatico in termini di riscaldamento al raddoppio della concentrazione di CO2 rispetto ai livelli pre-industriali. La difficoltà consiste nell’identificazione delle dinamiche e della magnitudo dei feedback radiativi, cioè di quei processi di potenziamento/mitigazione del riscaldamento che si suppone debbano realizzarsi nel sistema in risposta ad uno squilibrio positivo del bilancio radiativo del Pianeta. Il più significativo di questi feedback, ma anche il più incerto, è il feedback delle nubi. La nuvolosità, infatti, ha il duplice ruolo di riflettere la radiazione solare e di trattenere la radiazione uscente dalla superficie, con un effetto complessivamente raffreddante. Ma la nuvolosità è la manifestazione visiva della presenza di vapore acqueo in atmosfera, per cui una modifica del tipo e della quantità di nubi presenti su vasta scala può modificare l’ampiezza di questo effetto generalmente raffreddante, di fatto amplificando il riscaldamento.

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Quando la CO2 fa il tagliando

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Questo post è stato pubblicato nell’ottobre del 2011 ma, per ragioni del tutto ignote, è sparito dalle nostre pagine. Dal momento che l’argomento – tra l’altro mai sopito – è tornato attuale in alcune recenti discussioni, il minimo che potessimo fare è tornare a pubblicarlo, per cui, ecco qua.

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Le discussioni di questi anni ci hanno abituati a considerare la CO2 come un gas pericoloso per la vita e con tempi di permanenza in atmosfera di decine o centinaia di anni. In altri termini attenti a quanto espirate perché una volta emessa la CO2 non torna più giù!

Tuttavia fin dal 1804, grazie all’opera fondamentale di De Saussure, sappiamo che la nutrizione carbonica delle piante avviene a spese della CO2 presente in atmosfera e dunque l’anidride carbonica è da considerare il mattone della vita sul nostro pianeta in quanto gli autotrofi (alghe, batteri, piante superiori) la usano per il processo di fotosintesi, di norma espresso con la formula seguente:

CO2+H2O -> CH2O + O2 (ove CH2O è 1/6 di una molecola di glucosio che è C6H12O6).

Si crea così una dicotomia antropologicamente lacerante che porta i più critici a domandarsi come sia possibile che un ecosistema come quello terrestre che vanta 2, forse 3 miliardi di anni di vita, abbia potuto convivere con una CO2 dottor Jeckill – mister Hide senza mai esserne sopraffatto. Tutti i nostri ragionamenti si fondano da tempo su misure regolari della concentrazione atmosferica di CO2 condotte in siti sparsi per il globo e che ci rendono manifesti i seguenti fatti:

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Secchi, SST e…Campanelli – Parte II

Gli stessi campanelli della prima parte di questo post, si sono rivelati preziosi nell’affrontare un altro problema che è strettamente collegato a quello delle SST nel periodo 1940/1945. Si tratta di un lavoro a firma di Ernst-Georg Beck pubblicato su ENERGY & ENVIRONMENT VOLUME 19 No. 7, 2008.

50 Years of continuous measurement of CO2 on Mauna Loa

Per capire bene il lavoro di Beck, inoltre, si può consultare anche quest’altro lavoro.

In questi lavori Beck, spulciando i risultati di diverse migliaia di analisi chimiche su campioni d’aria, contesta i risultati cui è giunto Keeling a proposito dell’evoluzione della concentrazione di CO2 nell’atmosfera sulla base del record di Mauna Loa. Secondo Beck la concentrazione di CO2, nel passato, anche recente, ha conosciuto picchi molto più alti di quelli universalmente accettati. Uno di questi picchi (più di 400 ppmv) registrato intorno agli anni ’40, in concomitanza dell’anomalo andamento delle SST di cui abbiamo parlato in precedenza, a suo giudizio, sarebbe stato una conseguenza dell’aumento delle temperature globali. Ciò avrebbe avvalorato l’ipotesi che la concentrazione di CO2 aumenta in seguito all’aumento della temperatura e non viceversa.

Anche in questo caso i famosi campanellini hanno tintinnato piuttosto violentemente spingendomi a cercare di vederci più chiaro. Dopo aver letto i lavori di Beck mi sono reso conto che molte erano le debolezze delle tesi che li caratterizzavano per cui non mi sento di condividerne le conclusioni. Gran parte dell’articolo del 2008 è dedicata a dimostrare che Keeling e Callendar hanno deliberatamente trascurato i risultati delle analisi chimiche eseguite nel corso del 19° secolo e nella prima parte del 20°. Essi, a tali risultati, prima del 1958, hanno preferito i dati proxy derivanti dalle carote di ghiaccio. Beck reputa questi dati meno precisi di quelli di origine chimica.

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Scivoliamo verso il PETM: Whoosh!

Il professor Ugo Bardi ha scritto sul blog “Mondi sommersi” questa frase:

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Ugo Bardi 08 settembre 2012 14:55

Eemiano….. ? Sarebbe bello se il collasso si arrestasse con qualcosa di simile all’Eemiano. Purtroppo, la quantità di CO2 che c’è oggi nell’atmosfera è molto superiore a qualsiasi valore riscontrato nel passato milione di anni. L’Eemiano passa con un rumore tipo “whoooosh” mentre ci dirigiamo a tutta forza verso il PETM.

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Per chi non lo sapesse; come non lo sapevo io,  whoosh vuol dire scivolare velocemente, è onomatopeico:  il suono della parola imita il rumore degli sci che scivolano sulla neve.

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Carbon contest

Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato un post circa uno studio recente che avrebbe misurato/osservato una diminuzione della quantità di nubi che coprono mediamente il Pianeta.

Uno dei nostri lettori, Alvaro de Orleans-B. ha posto una domanda interessante, lanciando al contempo una simpatica sfida a tutti gli altri frequentatori di queste pagine. Perché tutti possano leggerla e decidere se cimentarsi o meno la elevo al rango di post, pregando di convogliare qui eventuali commenti e/o risposte. Al tempo stesso, se credete potete utilizzare la nostra mail info@climatemonitor.it per inviare materiale o altro che supporti la vostra spiegazione.

Quanto segue è il testo del commento di Alvaro.

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